FairyPieceForum

Posts written by Soly_D

  1. .
    Grazie mille :mellorie:
  2. .
    Grazie mille cara :mira:
  3. .

    Love is the undisturbed balance
    that binds the universe together.



    #02. Massage (Witch/Sister)



    Facendosi coraggio, Sister si rivolge a Witch con un sorriso: «Non è che mi faresti un bel massaggio, eh, Witch?».
    Di fronte al cipiglio perplesso della bella strega, Sister non può fare a meno di essere grata a Shiki per aver chiesto a Witch di non indossare l’elmo protettivo, perché in questo modo Sister può finalmente godersi ogni sguardo e ogni espressione della sua Stella Luminosa preferita.
    «Perché?», chiede Witch visibilmente sorpresa. «Noi androidi non abbiamo bisogno dei massaggi. I nostri muscoli sono progettati in modo tale da non soffrire la tensione, lo stress, le contrazioni muscolari e…».
    «Lo so», la blocca Sister abbassando lo sguardo intriso di delusione. «È solo che quando lo fai a Rebecca e ad Homura, sembrano stare così bene… Volevo solo provare qualcosa di un po’ più umano».
    Da quando Sister è tornata a bordo della Edens Zero per servire il nuovo Re Demone Shiki, sente dentro di sé bisogni, sensazioni ed emozioni diverse, più profonde rispetto a quelle che avvertiva quando era al servizio del suo predecessore Ziggy. E qualcosa le dice che si tratta dell’influenza dei suoi nuovi amici umani con i quali viaggia alla ricerca della Madre.
    «Preferisci il massaggio all’olio, il massaggio elettrico o il massaggio con tortura e piacere?».
    Sister solleva di scatto la testa con gli occhi che brillano e il sorriso di Witch le lascia intendere che sì, gli androidi non hanno bisogno dei massaggi, ma per lei farà un’eccezione. E nonostante quello con tortura e piacere sembri alquanto intrigante, forse è meglio rimanere sul classico…
    «Credo che il massaggio all’olio andrà benissimo, grazie!».
    Quando Witch la conduce nella stanza adibita ai massaggi e le chiede di spogliarsi, di nuovo Sister non capisce da dove spunti quel lieve senso di vergogna, emozione tipicamente umana mai provata in passato, che avverte nel mostrarsi nuda di fronte a Witch e che la porta a coprirsi il seno abbondante con le mani fin quando l’androide non le passa l’asciugamano da legare intorno al busto.
    Tuttavia, ogni pensiero va a farsi benedire nel momento in cui, stendendosi sul lettino, Sister sente le mani fresche e oleose di Witch che cominciano a modellarle le spalle con movimenti lenti e circolatori. Ed è vero, i suoi muscoli non sono né tesi né contratti e quei massaggi non le recano particolari benefici fisici, ma sapere che Witch si sta dedicando con impegno al suo corpo e avvertire quelle dita scorrere piacevolmente sulla pelle la fa sentire in pace con se stessa e con l’universo.
    «Ti sta piacendo, Sister?».
    Sister poggia una guancia sul lettino e rivolge un occhio a Witch il cui viso concentrato – concentrato per lei, per darle piacere – non le è mai sembrato così bello. Infine chiude gli occhi, godendosi a pieno il momento.
    «Sì, Witch, mi sta piacendo tantissimo».
    E chissà, se gli androidi sono in grado di provare sentimenti come l’affetto e l’amicizia, allora forse vale lo stesso per… l’amore?







    Note dell’autrice:
    Ho deciso di far diventare la flash precedente una raccolta, non solo su Weisz e Homura, ma su varie coppie (compresa ovviamente la mia Shiki/Rebecca). Il titolo (letteralmente "L'amore è quell'equilibrio indisturbato che tiene insieme l'universo") è una frase che ho trovato su Google e che mi sembra perfetta per una storia che parla di amore in una navicella che viaggia nell'universo.
    Spero che la flash vi sia piaciuta. In generale non shippo yaoi e yuri, ma queste due insieme non mi dispiacciono affatto <3 Il massaggio con tortura e piacere non me lo sono inventato: compare nel cap. 29 del manga XD
    Grazie a chi leggerà e vorrà farmi sapere cosa ne pensa.
  4. .

    Love is the undisturbed balance
    that binds the universe together.



    #01. Secret weapon (Weisz/Homura)



    Homura maneggia con destrezza la grossa spada di etere e i suoi colpi sono talmente precisi che sferzano l’aria tagliandola in due, eppure non riesce ancora nemmeno lontanamente a scalfire la dura armatura di Weisz. Ci prova in tutti i modi, da diverse angolazioni e con diverse tecniche, ma ogni nuovo tentativo è solo un altro buco nell’acqua.
    «Troppo lenta», la rimprovera Arsenal schivando velocemente la lama appuntita della sua spada.
    Nonostante si tratti di un semplice allenamento, Homura non è disposta a perdere, perciò decide di sfoderare la sua arma segreta, un’arma che probabilmente non tirerebbe fuori se il suo avversario non fosse Weisz. Piegando le ginocchia e inclinando il busto lateralmente, la spadaccina carica un nuovo colpo di spada con l’intenzione di colpire Arsenal ad una gamba e contemporaneamente si impegna affinché la spallina del leggero kimono che indossa ricada sulla spalla scoprendo la clavicola e il taglio del seno abbondante. Come previsto, Arsenal reagisce al suo attacco in maniera un po’ più lenta del solito a causa di un’eccessiva attenzione nei confronti della porzione di pelle nuda che il suo obiettivo ha appena inquadrato.
    «Troppo distratto», lo rimbecca Homura con un sorriso ed è certa che dietro il pesante elmo metallico si nascondano due pupille lucide e dilatate, e due guance leggermente arrossate.
    Nel mentre, la lama della spada cozza duramente contro la gamba di Arsenal facendogli perdere l’equilibrio. Homura esulta interiormente pregustando già il sapore della vittoria quando, poco prima che si rimetta in piedi con la spada trionfante sopra la testa, Arsenal le afferra inaspettatamente un braccio e la tira verso di sé. Rotolano insieme, quasi abbracciati l’uno all’altro, finché Homura non si ritrova spalmata sull’armatura di Arsenal, a sua volta steso per terra. E come se la posizione non fosse già pericolosa per il suo pessimo autocontrollo, Weisz decide di togliersi l’elmo rivelando il volto imperlato di minuscole goccioline di sudore, i capelli biondi un po’ arruffati e l’accenno di un sorriso all’angolo della bocca.
    «Hai vinto».
    Homura ci prova a stare zitta, ci prova con tutta se stessa, ma le labbra di Weisz sono fin troppo vicine e il suo respiro caldo, un po’ affannato, le solletica il volto in maniera tremendamente invitante.
    «Quanto vorrei baciarti, ora...».
    Weisz sgrana gli occhi, visibilmente sorpreso e imbarazzato. «Hai di nuovo pensato ad alta voce, Homura», le fa notare con un filo di voce.
    «Lo so».
    Weisz ha appena il tempo di metabolizzare la risposta che si ritrova le labbra di Homura premute contro le proprie e le sue mani infilate tra i capelli, e altro non gli rimane da fare se non ricambiare con tutta la passione che ha in corpo e circondare la spadaccina con le braccia rivestite di metallo. Tuttavia, mentre solleva con le mani la stoffa del kimono che, traditore, gli ha fatto perdere un combattimento ma guadagnare un bacio, Weisz non può fare a meno di rimanere deluso: la sua armatura sarà anche forte e veloce, sarà anche necessaria per combattere i nemici e difendere i suoi amici, ma se gli impedisce di sentire la morbidezza della pelle di Homura sotto le dita e la rotondità delle sue forme nei palmi delle mani, allora è certo che non resisterà ancora per molto con tutto quel metallo addosso.

    Edited by SolyDea - 1/1/2020, 14:46
  5. .
    Grazie di cuore Zomi, troppo gentile :natsu:
  6. .
    Questa fanfiction partecipa all'iniziativa «Chi fermerà il Natale? - I Edizione» organizzata dal forum Torre di Carta.
    Prompt: 3. Canto di Natale di Topolino, 1983.
    Citazione – A: “Sono il Fantasma dei Natali Passati.”
    B: “Oh, credevo fossi più alto.”

    The Ghost of Christmas Past



    Come ogni anno, Shiki Granbell arrivò di fronte alla lussuosa villa di Xiao Mei a bordo dell’auto di suo nonno Ziggy (da lui stesso rinominata Edens Zero) in compagnia delle tre zie Witch, Ivry e Hermit, tutte rigorosamente zitelle per motivi diversi: la prima affermava di non aver bisogno di un uomo, la seconda non lo trovava a causa del suo caratteraccio, la terza si sentiva ancora troppo giovane per accasarsi.
    Quasi nello stesso momento, arrivò a bordo di una piccola Smart anche la quarta zia di Shiki, Valkyrie, la più grande e la più docile delle quattro, accompagnata da sua figlia Homura Kogetsu che aveva avuto in gioventù con un uomo che diceva di amarla ma che poi era sparito nel nulla lasciandola sola con la bimba scalpitante tra le braccia. Da allora Valkyrie, al pari delle sue tre sorelle, non ne aveva voluto sapere più nulla degli uomini e dell’amore: la sua cara Homura sembrava tutto ciò di cui avesse bisogno.
    Dei suoi genitori, morti di incidente stradale quando era molto piccolo, Shiki ricordava poco e niente. E nonostante ogni tanto sentisse la mancanza di una mamma e di un papà, nonno Ziggy e le quattro zie si erano presi cura di lui egregiamente: il primo l’aveva allevato come un figlio trasmettendogli i sani valori della vita e la sua passione per le auto, le altre si erano prese il compito di viziarlo e coccolarlo quando lo meritava ma di rimproverarlo e menarlo (nel caso di zia Hermit) quando sbagliava.
    Contento che la sua adorata famiglia si fosse, ancora una volta, riunita al completo in occasione di Natale, Shiki suonò il campanello di Xiao Mei, i cui ricchi genitori (da sempre amici di nonno Ziggy) organizzavano ogni anno un buonissimo e divertentissimo cenone per la vigilia di Natale invitando parenti e amici.
    Xiao Mei, felicissima nel suo vestito rosso natalizio, spalancò letteralmente la porta di casa gettandosi tra le braccia di Shiki che considerava, fin da piccola, come il fratello maggiore che non aveva mai avuto.
    «Shiki, finalmente!», esclamò la ragazzina stretta alla vita di Shiki che a sua volta le accarezzò amorevolmente la testa commentando «Ti trovo cresciuta, sai?».
    «Ovviamente. Ormai sono grande!», specificò Xiao Mei con un sorriso furbo, per poi spostare lo sguardo sul resto della combriccola che attendeva dietro Shiki. «Oh, ma ci siete proprio tutti! Entrate, forza!».
    E i Granbell non se lo fecero ripetere due volte.


    La villa di Xiao Mei, abbellita in ogni angolo con luccicanti decorazioni natalizie, profumava di festa, allegria e dolci appena sfornati. Nella sala da pranzo svettava un grande albero di Natale riccamente decorato e illuminato, ai cui piedi giacevano numerosi pacchetti colorati con tanto di fiocchi e coccarde, pronti per essere scartati al momento opportuno. Come ogni anno, i padroni di casa non avevano badato a spese.
    L’intera sala era attraversata da una lunga tavola già imbandita alla quale la cugina di Xiao Mei, Rebecca Bluegarden, bellissima nel suo vestito azzurro intonato al colore degli occhi, non aveva saputo resistere: mentre i Granbell erano impegnati a salutare e ringraziare i padroni di casa per l’invito, Rebecca, affamata e impaziente come sempre, ne aveva approfittato per allungare furtivamente una mano verso i piatti ancora coperti e rubacchiare al volo un piccolo panino ripieno.
    «Beccata!», disse Shiki toccandole una spalla.
    Rebecca si voltò con la bocca piena e metà panino stretto nella mano. «Ffiki!», esclamò arrossendo, per poi ingoiare il boccone in un colpo solo rischiando quasi di strozzarsi. «Volevo dire… ciao, Shiki», lo salutò più educatamente, strofinandosi le labbra con le dita per togliere qualche briciola.
    «Ciao, Rebecca». Shiki sorrise divertito, gli era sempre piaciuta quella sua spontaneità… e non solo a lui. «Weisz dov’è?», gli venne spontaneo chiedere.
    Rebecca stava con Weisz Steiner da circa due anni, tant’è che il Natale precedente Xiao Mei aveva invitato al cenone della vigilia anche lui. Oltre che alto e biondo, Weisz era un tipo maturo e intelligente (si era da poco laureato in ingegneria informatica!), ma non per questo noioso, anzi. E Shiki era certo che avrebbero potuto essere grandi amici se solo entrambi non fossero stati innamorati della stessa ragazza.
    Per capirlo, Shiki ci aveva messo parecchio tempo. Per un’intera vita aveva creduto che l’amicizia, valore che suo nonno Ziggy sembrava avergli iniettato direttamente nelle vene, fosse tutto ciò di cui aveva bisogno, ma gli era bastato vedere la sua preziosa amica d’infanzia sbaciucchiarsi con un altro ragazzo per scoprirsi improvvisamente geloso di lei e desiderare di poter stare al posto di Weisz, per sentire quelle labbra morbide premute contro le proprie e stringere tra le braccia quel corpo sinuoso che da allora era diventato protagonista dei suoi sogni più segreti e inconfessabili.
    Da quando Rebecca si era fidanzata, i rapporti tra Shiki e lei si erano parecchio raffreddati: si limitavano a salutarsi quando si incontravano e a mandarsi qualche messaggio di cortesia di tanto in tanto, ma i sentimenti che Shiki provava per lei erano ancora ben saldi nel suo cuore.
    «Veramente…», rispose Rebecca abbassando lo sguardo. «…io e Weisz ci siamo lasciati».
    Nella mente di Shiki, fu come se il mondo si fosse appena capovolto.
    Di fronte a quella rivelazione, il giovane Granbell sgranò gli occhi sentendosi investire da sentimenti del tutto contrastanti: sollievo misto a un pizzico di felicità per aver appena scoperto che Rebecca era di nuovo libera, ma anche rabbia per quei bellissimi occhi azzurri improvvisamente adombrati di tristezza ad opera di quel bastardo che l’aveva fatta soffrire.
    «Oddio, mi… dispiace», fu tutto ciò che Shiki riuscì a spiccicare.
    «Non preoccuparti». Rebecca mostrò un sorriso tirato. «È Natale, no? Pensiamo a divertirci», concluse affogando nuovamente il suo dispiacere nel resto del panino che aveva precedentemente addentato.
    Shiki non se la sentì di chiedere chi dei due avesse preso la decisione e perché – l’ultima cosa che voleva era rigirare il coltello nella piaga – per cui si limitò ad annuire con un sorriso altrettanto tirato e a rubacchiare un panino dalla tavola per tenerle compagnia.


    A tavola, Shiki si ritrovò seduto tra zia Ivry – che si lamentava di quanto gli uomini facessero schifo – e zia Witch – che cercava di convincerla che la vita da single era molto più bella e conveniente. Zia Hermit era invece occupata a ridere e scherzare con la nipote Homura che, tra un boccone e l’altro, si lasciava sfuggire come suo solito segreti che sarebbe stato meglio tenere per sé, come le ricordava (invano) sua madre Valkyrie. A capotavola, erano seduti da un lato nonno Ziggy – già ubriaco, come dimostravano le sue battute sconce capaci di provocare l’ilarità dell’intera tavolata – e dall’altro l’impeccabile padrone di casa, affiancato dalla moglie e dalla figlia Xiao Mei.
    Di fronte a sé, Shiki aveva Rebecca, il cui sguardo perso nel vuoto gli impediva di godersi pienamente la festa.
    Come aveva fatto Weisz a lasciarsela scappare, Shiki proprio non lo capiva. E se da una parte lo allettava l’idea di avere finalmente campo libero, dall’altra lo bloccava il pensiero che forse Rebecca, nonostante la rottura, fosse ancora innamorata di Weisz o comunque non ancora pronta a cominciare una nuova relazione. E poi, a dirla tutta, Shiki era piuttosto certo che Rebecca non fosse interessata a lui da un punto di vista romantico. E come avrebbe potuto, d’altronde? A differenza di Weisz, che sembrava avere un brillante futuro di fronte a sé, Shiki faceva il meccanico, mestiere ereditato da suo nonno. Perché mai Rebecca avrebbe dovuto accontentarsi di uno come lui – umile, rozzo, a tratti infantile e ancora ingenuo, tanto da non aver mai avuto una relazione seria e da non essere capace di rivelare i propri sentimenti alla ragazza che amava?
    Masticando amaramente il boccone che aveva in bocca, Shiki si disse che non poteva andare avanti così per tutta la serata, quindi si alzò dalla sedia promettendo di tornare subito e si recò in bagno per darsi una sciacquata al viso e riprendere il controllo di se stesso. Non era da lui rimuginare sulle cose e abbattersi in quel modo, non era quello che gli aveva insegnato suo nonno.
    Dopo essersi gettato un po’ d’acqua in faccia, Shiki si asciugò con un panno asciutto e si guardò allo specchio tenendo le mani aggrappate al lavandino. Doveva essere forte e soprattutto paziente: per ora Rebecca non provava per lui nient’altro che un sincero affetto, ma forse – con il tempo e con un po’ di fortuna – le cose avrebbero potuto cambiare, evolversi a suo favore. Sempre, ovviamente, che in futuro Rebecca e Weisz non avessero deciso di tornare insieme e in tal caso Shiki, seppur con uno sforzo immane, si sarebbe fatto nuovamente da parte per il bene di Rebecca. In fondo, tutto ciò che desiderava era vederla veramente felice.
    Shiki stava per abbandonare il lavandino quando, con gli occhi fissi nello specchio, notò il riflesso di una bambola poggiata sulla mensola dietro di sé. Sembrava fissarlo con una certa insistenza, ma forse era solo una sua sensazione dettata dal sonno – non sarebbe stata la prima volta, dato che soffriva di narcolessia fin da piccolo. Istintivamente si stropicciò gli occhi e poi tornò a guardare nello specchio per accertarsi di essersi sbagliato, ma la bambola era sparita dalla mensola come per magia.
    A quel punto, Shiki sgranò gli occhi e si voltò di scatto chiedendosi se per caso non stesse sognando.
    «Ciao!».
    Shiki si guardò intorno tremendamente angosciato. Sì, stava decisamente sognando, perché gli era appena parso di sentire una vocina infantile che lo salutava.
    «Sono qui!», ripeté la vocina e stavolta Shiki capì che proveniva dal basso.
    Rivolgendo lo sguardo per terra, infatti, trovò la bambola in piedi sul pavimento con un braccino alzato in segno di saluto. Tutto sommato, non aveva nulla di inquietante, anzi. A dir la verità, era molto tenera, una sorta di incrocio tra un folletto, un robot e un coniglio alto una cinquantina di centimetri, con tanto di lunghe orecchie appuntite che sbucavano dal caschetto rosa. Il problema essenziale era il fatto che quella dannata bambola si muoveva e addirittura parlava come se fosse viva.
    «MA CHE-».
    Tirandosi indietro per la paura, Shiki sbatté contro il lavandino e scivolò per terra ritrovandosi faccia a faccia con la bambola che ora lo fissava ancora più insistentemente, forse turbata dal suo comportamento.
    «Stai bene?».
    Shiki si coprì il viso con le mani, ripetendosi mentalmente che ciò che stava accadendo non era reale e che presto si sarebbe risvegliato con la faccia spiaccicata nel piatto dove fino a pochi minuti prima stava mangiando. Sì, doveva essere così: si era addormentato come suo solito nel bel mezzo della cena e stava semplicemente sognando… Ma che razza di sogno, poi! Avrebbe preferito di gran lunga sognare di dichiararsi finalmente a Rebecca e di scoprire che il suo amore per lei era ricambiato, piuttosto che immaginarsi quella strana creatura parlante.
    «Shiki?».
    L’interpellato sentì una piccola mano sfiorargli la spalla e a quel punto si convinse che altro non gli rimaneva da fare se non attendere di potersi finalmente svegliare da quel sogno così insolito. Quindi si tolse le mani dal volto e guardò la bambola con attenzione per cercare di capire da dove la sua mente malata avesse potuta tirarla fuori. Forse un film, una pubblicità o magari un semplice ricordo, qualcosa che aveva visto nelle vetrine dei negozi addobbati per Natale…
    «Oh, finalmente!», esclamò la bambola con un sorriso, avendo ricevuto l’attenzione che desiderava. «Mi presento: sono Pino, il fantasma dei Natali passati!» e nel dirlo allungò la manina verso Shiki per farsela stringere.
    Scioccato e inebetito dalla sua stessa fervida immaginazione, Shiki strinse la mano di Pino chiedendosi come facessero a starci tutti i Natali passati in quella cosina così piccola.
    «Credevo fossi più alto», rifletté ad alta voce imitando un po’ Homura.
    «Più alta», lo corresse Pino sbattendo civettuola le ciglia e poggiando le mani sui fianchi come per sottolineare la propria femminilità.
    «S-scusa». Shiki si diede mentalmente dello stupido. Perché diamine stava assecondando quel sogno totalmente insensato? Ma soprattutto, perché diamine non si svegliava all’istante? Di solito, ogni volta che capiva di essere in un sogno, gli bastava sbattere le palpebre per ritrovarsi con gli occhi fissi sul soffitto della propria camera. E lui le palpebre le aveva già sbattute più volte, ma il sogno sembrava farsi sempre più nitido e realistico.
    «Sono qui per aiutarti», annunciò il fantasma dei Natali passati con orgoglio.
    «…aiutarmi a fare cosa?».
    «Vedrai», rispose Pino tirando Shiki per la manica, per poi aggiungere con tono enigmatico «Vieni con me, ti mostrerò i tre Natali che hanno segnato la tua vita».
    E Shiki, sempre più sbalordito per quella forza invisibile che lo spingeva a vivere il sogno come fosse reale, si rimise in piedi e si lasciò trascinare fuori dal bagno, non senza una certa curiosità per ciò che lo attendeva all’esterno.


    «Questo è il Natale dei tuoi undici anni», esordì Pino quando entrarono nella sala da pranzo.
    Shiki non poteva credere ai propri occhi: per quanto incredibile fosse, quello sembrava davvero il Natale dei suoi undici anni, trascorso come sempre a casa di Xiao Mei.
    «Cos’è, un viaggio nel tempo?», chiese Shiki a Pino.
    «Certo che no! È un viaggio nei tuoi ricordi, potrai muoverti liberamente senza essere visto o sentito».
    La sala da pranzo decorata a festa era più o meno la stessa, ad eccezione di qualche soprammobile diverso dal solito. La padrona di casa stringeva tra le braccia una minuscola Xiao Mei in fasce, mentre il marito conversava con nonno Ziggy, il quale aveva meno capelli bianchi e meno rughe di quello attuale. Le quattro zie, anche loro molto più giovani, chiacchieravano sedute al tavolo intorno al quale tre ragazzini dell’età di undici anni si rincorrevano tra di loro urlando e ridendo.
    In quei tre ragazzini, Shiki riconobbe un se stesso molto più magrolino, ingenuo e scalmanato, una piccola Rebecca spensierata e ancora piatta come una tavola da surf, e un’Homura nelle vesti di maschiaccio con tanto di spada laser avuta in regalo dalla sua mamma. Dopo diversi giri intorno al tavolo, i tre sparirono in corridoio l’uno dietro l’altro e le loro risate risuonarono come un’eco in lontananza.
    Shiki, di fronte a quella scena, sorrise intenerito. Quanto avrebbe voluto tornare a quel Natale per poter giocare liberamente lontano dal mondo degli adulti, lontano da cose complesse come l’amore o il futuro. Ma la vera domanda era…
    «Perché mi stai facendo vedere questo?», disse Shiki confuso, abbassando lo sguardo su Pino.
    O forse avrebbe dovuto dire: perché mi sto mostrando questo? Ormai gli era chiaro che Pino era la voce della sua coscienza, la personificazione del suo io interiore o qualcosa di simile, ma perché gli stava facendo rivivere simili ricordi sepolti nella sua mente?
    «Non hai ancora visto niente, mio caro Shiki», rispose Pino con un sorriso furbo facendogli segno di seguirla in corridoio.
    E a Shiki non rimase altro che obbedire.
    Svoltando l’angolo, trovò se stesso e Rebecca l’uno di fronte all’altro e Homura che manteneva in aria la sua spada laser indicando con la punta della lama un rametto di vischio appeso al lampadario sopra le teste di Shiki e Rebecca.
    «Forse non dovrei dirlo», disse Homura sghignazzando. «Ma credo che ora dovreste baciarvi».
    «Cosa?!», esclamò il piccolo e ingenuo Shiki un po’ imbarazzato, mentre Rebecca arrossiva fino alle punte dei capelli. «Non ci penso nemmeno! Sono cose da grandi queste! Forza, andiamo a giocare…» e così dicendo, Shiki se ne tornò in sala da pranzo lasciando le due ragazzine da sole.
    Homura abbassò la spada e scrollò le spalle. «Mi dispiace, Rebecca, io ci ho provato».
    Rebecca minimizzò con una risatina nervosa e un gesto della mano. «Ma figurati, non volevo veramente un bacio da quello stupido…» e poi anche lei corse via con le guance rosse come mele mature e una lacrima impigliata tra le ciglia.
    Con gli occhi pieni di stupore, Shiki – quello ventenne – si rivolse a Pino alla ricerca di spiegazioni.
    «Io questo non me lo ricordo. Cioè, mi ricordo più o meno il momento in cui Homura ha tentato di far baciare me e Rebecca, ma il dopo… quello no».
    «È perché non sei stato tu a viverlo! Te l’ho detto, Shiki, ci sono un sacco di cose che non hai ancora visto…», chiarì Pino sempre più enigmatica, per poi allontanarsi dal corridoio.
    «E-ehi, aspetta!», disse Shiki seguendola a passo svelto.
    In conclusione, ciò che aveva visto non appena il piccolo Shiki era uscito fuori di scena, non faceva parte dei suoi ricordi. Ma allora cos’era? Un ricordo di Rebecca? E lui come aveva fatto a finire improvvisamente nei ricordi di qualcun altro? Shiki scosse la testa: no, non era possibile, quello era un sogno, era solo il frutto della sua immaginazione. Eppure la scena gli era sembrata così dannatamente reale che, di fronte alla delusione di Rebecca per quel bacio mancato, per un attimo aveva sentito il cuore stringersi in una morsa dolorosa.


    Quando Shiki e Pino rientrarono in sala da pranzo, lo scenario era cambiato: nella solita sala da pranzo, c’era nonno Ziggy un po’ più vecchio rispetto allo scenario precedente e Xiao Mei che ormai sgambettava per la casa.
    «È il Natale dei miei quindici anni, vero?», chiese Shiki rivolto a Pino che annuì.
    La pubertà aveva cambiato radicalmente tanto Shiki, quanto Rebecca e Homura: il primo era cresciuto notevolmente in altezza e aveva sviluppato spalle più ampie, mentre a Rebecca era spuntato un bel seno gonfio e Homura aveva abbandonato i vestiti da maschiaccio e le spade laser. In piedi di fronte all’albero di Natale, tutti e tre si sforzavano di fare in modo che il primo video di Rebecca per il suo canale YouTube riuscisse alla perfezione.
    «Ciao, ragazzi! Sono Rebecca e lui è Happy!», disse la youtuber con un sorriso a trentadue denti stringendo tra le braccia il suo gattino. «Benvenuti su Aoneko Channel!».
    Shiki e Homura riprendevano il tutto con due telecamere diverse in modo da inquadrare Rebecca da diverse angolazioni.
    «Questo me lo ricordo», ammise lo Shiki ventenne divertito. «Mi annoiavo da morire, eppure ero sempre pronto ad aiutare Rebecca con quei ridicoli video…».
    «Si vede che ti annoiavi…», commentò Pino indicando lo Shiki quindicenne che sbadigliava assonnato da interi minuti, tanto che la telecamera rischiava di scivolargli dalle mani da un momento all’altro.
    «Ehi, non è colpa mia! Sono narcolettico!», precisò Shiki indispettito.
    A conferma di quelle parole, il se stesso in versione adolescente aveva definitivamente chiuso gli occhi, dando l’impressione di essersi appena addormentato in piedi.
    «Shiki!», protestò la giovane Rebecca saltando su tutte le furie e strappandogli la telecamera dalle mani, ma questo non servì a far rinsavire l’amico.
    A quel punto, la youtuber, seppur a malincuore, fu costretta ad interrompere il video. Nonno Ziggy si scusò per l’inconveniente spiegando che Shiki quella mattina si era svegliato molto presto per aiutarlo ad aggiustare un’auto, quindi se lo caricò in spalla e con l’approvazione dei padroni di casa lo portò al piano di sopra per infilarlo nel letto degli ospiti e lasciarlo dormire tranquillamente.
    Shiki pensò che in quello scenario non sembrava esserci nulla di particolarmente eclatante, o almeno fin quando non si accorse che Rebecca, approfittando della confusione generale, si era avviata su per le scale con passo felpato. Incuriosito, Shiki la seguì e insieme arrivarono di fronte alla stanza degli ospiti.
    Rebecca aprì la porta, entrò nella stanza buia e accese l’abat-jour, la cui luce illuminò il volto del giovane Shiki dormiente e ignaro.
    Il silenzioso e invisibile spettatore si avvicinò ai due adolescenti desiderando osservare meglio la scena a lui sconosciuta. Anche questa, al pari della scena successiva al mancato bacio dei suoi undici anni, non faceva parte dei suoi ricordi e per questo Shiki non riusciva ancora a capacitarsi che si trattasse di qualcosa di realmente accaduto. Eppure era lì, curioso di vedere e di sentire cosa sarebbe avvenuto.
    Rebecca si inginocchiò ai piedi del letto sfiorando con la mano la fronte del bell’addormentato.
    «Shiki?».
    «…becca», farfugliò Shiki rigirandosi nel letto verso di lei.
    «Mi senti, allora», sussurrò Rebecca con un sorriso imbarazzato. «Mi dispiace per essermi innervosita prima. Non sapevo che avessi lavorato tutto il giorno…».
    Shiki non rispose, ma Rebecca non si scoraggiò. Continuando ad accarezzargli i capelli neri, avvicinò il volto a quello rilassato di Shiki e prese a parlargli ad un soffio dalle sue labbra.
    A quel punto, lo spettatore, incuriosito più che mai, si avvicinò ancora di più ai due per sentire cosa si dicessero.
    «Shiki… c’è una cosa che io devo assolutamente dirti e che probabilmente non ti direi se tu non fossi mezzo addormentato».
    A conferma delle ultime parole, Shiki si limitò a strofinare il naso contro il cuscino.
    «Ma forse…», continuò Rebecca arrossendo deliziosamente sulle guance. «…più che dirtela, farei meglio a mostrartela».
    Protendendo le labbra in avanti, Rebecca sfiorò appena quelle di Shiki in un bacio casto e innocente, attendendo una reazione che però non arrivò. Avendo avvertito la pressione sulle labbra, Shiki si limitò a fare una smorfia, poi strattonò le coperte e si voltò dall’altro lato dando le spalle a Rebecca.
    «Shiki…», sussurrò la ragazza tirandosi indietro un po’ delusa.
    «Svegliami, dannazione! Non vedi che sto dormendo?!», esclamò lo Shiki ventenne rivolto alla giovane Rebecca, ma lei ovviamente non poteva sentirlo.
    Amareggiata, Rebecca si allontanò dal letto, spense l’abat-jour e uscì dalla stanza per tornarsene al piano di sotto facendo finta che nulla fosse accaduto.
    E Shiki, ormai non più convinto di trovarsi in un sogno, capì finalmente perché Pino gli stesse mostrando pezzi dei Natali passati di cui lui non era a conoscenza. La verità era che Rebecca teneva a lui molto più di quanto pensasse, ma Shiki – un po’ per ingenuità, un po’ per distrazione – non se n’era mai minimamente accorto e alla fine se l’era pure lasciata sfuggire dalle braccia fino ad affidarla, anche se involontariamente, a quelle di qualcun altro.
    Nello scenario successivo, il terzo ed ultimo, Shiki sapeva già cosa ci avrebbe trovato, ma non era sicuro di volerlo rivedere.


    «Natale dell’anno scorso», annunciò Pino dando voce ai pensieri di Shiki.
    La sala da pranzo era la solita di sempre così come gli invitati alla festa, ma quel Natale aveva una novità rispetto ai precedenti, una novità alta un metro e ottanta che recava il nome di Weisz Steiner e non smetteva di tenere Rebecca per mano nemmeno per un secondo, quasi avesse paura di lasciarsela sfuggire.
    Con gli occhi fissi su quelle mani intrecciate, i due Shiki – tanto quello del Natale precedente, quanto quello del Natale attuale – si ritrovarono ad abbassare lo sguardo nello stesso momento, incapaci di sostenere un’immagine così dolorosa.
    Shiki se lo ricordava benissimo quel Natale. E come avrebbe potuto dimenticarsene, d’altronde? Era stato il peggior Natale della sua vita. E se riusciva a malapena a pensarci, figuriamoci a rivivere quei ricordi dall’esterno…
    «Questo non voglio vederlo», affermò perentorio rivolto a Pino.
    «Io invece sì», rispose Pino mettendosi comoda sul divano accanto a nonno Ziggy che non poteva vederla. «Quindi me ne starò qui a guardare. Tu fa’ come vuoi».
    Shiki sbuffò. Pino voleva forse fargliela pagare per non essersi accorto in tempo dei sentimenti di Rebecca nei suoi confronti? Be’, ci stava riuscendo alla grande!
    Shiki strinse i pugni lungo i fianchi, invaso da un certo nervosismo. «L’ho capita la lezione, sai?».
    «Ma io non volevo darti nessuna lezione», protestò Pino con tono innocente. «Volevo solo mostrarti come stanno realmente le cose, affinché tu possa sistemarle».
    «Sistemare le cose?!», esclamò Shiki infuriandosi. «Non capisci che ormai è tardi? Rebecca ama Weisz ora!». Per quanto gli costasse dirlo, quella era la dura verità.
    «Ti ricordo che Rebecca e Weisz si sono lasciati», disse Pino con aria chi la sa lunga.
    «Sì, ma i sentimenti non muoiono così, dall’oggi al domani…».
    Pino, all’improvviso, sorrise dolcemente. «Esatto, Shiki, è proprio così: i sentimenti non muoiono dall’oggi al domani».
    Shiki si ammutolì, non capendo dove Pino volesse andare a parare con quel tono così allusivo.
    «Osserva cosa è successo veramente lo scorso Natale, Shiki. Sono sicura che rimarresti molto sorpreso», continuò Pino. «Te l’ho detto all’inizio, no? Ci sono un sacco di cose che tu non hai visto».
    E Shiki volle crederci sul serio, volle fidarsi di quelle parole, per cui decise che sarebbe rimasto lì ad attendere pazientemente il momento più tragico di quel Natale con la speranza di scoprire qualcosa di nuovo, di diverso, in grado di poter ribaltare le carte in tavola, come Pino si ostinava a fargli credere.
    Ad un certo punto della serata, come lo Shiki spettatore ben ricordava, Weisz e Rebecca sparirono con la scusa di dover andare entrambi in bagno e dopo qualche minuto anche lo Shiki protagonista di quel ricordo fece lo stesso, desideroso di potersi rintanare nella stanza degli ospiti per poter sbollire in solitudine un po’ di gelosia e sofferenza.
    A quel punto, anche lo Shiki spettatore salì le scale seguito da Pino e rivisse attimo dopo attimo ciò che aveva reso il Natale precedente il peggiore della sua intera vita: aprire la porta della stanza degli ospiti e scoprire che Rebecca e Weisz, anziché recarsi in bagno come avevano detto, erano finiti a baciarsi stretti l’uno all’altra sullo stesso letto dove Rebecca, anni prima, aveva strappato a Shiki il suo primo bacio.
    Era stato allora che il cuore di Shiki del Natale precedente era andato in frantumi. Perché un conto era guardare Rebecca e Weisz tenersi per mano e scambiarsi di tanto in tanto brevi baci a stampo, e un conto era trovarli avvinghiati in quel modo, l’uno addosso all’altro, con le labbra incollate e le mani che scorrevano curiose e disinibite al di sotto dei vestiti, come se avessero voglia di fare l’amore lì, a casa di Xiao Mei, alla vigilia di Natale, a riprova del fatto che loro l’amore l’avevano già fatto. Che Rebecca non era più una bambina, perché Weisz l’aveva resa donna.
    Quando Weisz e Rebecca si accorsero di essere stati beccati, Rebecca spalancò gli occhi e buttò Weisz fuori dal letto con una spinta. «S-Shiki!», esclamò paonazza sistemandosi al meglio i vestiti stropicciati, mentre Weisz, accasciato sul pavimento, si massaggiava la schiena dolorante.
    «S-scusate…», balbettò Shiki altrettanto rosso in volto, stringendo la maniglia della porta con tanta forza che avrebbe potuto distruggerla. Voleva disperatamente andarsene, ma non riusciva a staccare gli occhi dalla figura di Rebecca, da quei capelli biondi arruffati e da quel collo arrossato di baci ad opera di Weisz.
    «Nessun problema, Shiki», rispose Weisz rimettendosi in piedi. «Vai pure, tranquillo».
    Suonava quasi come un invito ad andarsene e Shiki, incapace di sopportare quella situazione un secondo di più, non se lo fece ripetere due volte. Tirando vigorosamente la maniglia verso di sé, richiuse la porta della stanza quasi sbattendola e ignorando la voce di Rebecca che lo chiamava («Aspetta, Shiki!»).
    E mentre lo Shiki dell’anno precedente correva giù dalle scale in preda al dolore, lo Shiki spettatore si addentrava invece con coraggio nella stanza degli ospiti dove Rebecca e Weisz si stavano parlando animatamente dai due lati opposti del letto.
    «Perché l’hai mandato via in quel modo?!», diceva Rebecca con la fronte aggrottata e le braccia incrociate sotto il seno florido.
    «In che modo? Mi sembra di essere stato abbastanza gentile!», replicò Weisz perplesso. «Non smetteva di fissarti! Che dovevo fare, chiedergli di unirsi a noi?».
    Rebecca arrossì e voltò gli occhi in un’altra direzione.
    «Amore, ti prego, non voglio litigare per così poco», ammise poi Weisz con tono tenero, facendo il giro del letto per raggiungere Rebecca. «Dov’eravamo rimasti…?», aggiunse cercando di baciarla nuovamente.
    Rebecca voltò la testa dall’altro lato. «Non mi va più», concluse inaspettatamente, allontanando Weisz con le mani.
    «Perché?», chiese Weisz turbato.
    «Mi è passata la voglia».
    Weisz, dopo un attimo di esitazione, sorrise comprensivo. «Va bene, ho capito, non è la serata adatta. Io vado un attimo in bagno ora, okay?».
    Rebecca annuì e Weisz la lasciò sola.
    Ciò che Shiki non si aspettava era di vedere Rebecca accasciarsi per terra ai piedi del letto con il volto tra le mani nel tentativo di trattenere i singhiozzi che le opprimevano il petto.
    «Oh, Shiki…», la sentì mormorare tra le lacrime.
    E ogni sua lacrima era come una pugnalata per il cuore di Shiki. Ora gli era tutto più chiaro: nonostante si fosse fidanzata con Weisz, in realtà Rebecca non l’aveva mai veramente dimenticato. E se solo lei avesse potuto vederlo, sentirlo, toccarlo, Shiki sarebbe andato dritto ad abbracciarla, a dirle che andava tutto bene perché lui l’amava, l’aveva sempre amata e non era tardi per vivere quell’amore rimasto a lungo segreto. Ma purtroppo quegli eventi che Pino gli stava mostrando erano già accaduti e quindi immodificabili.
    Nonostante ciò, Shiki si sentì inondato di una forza nuova: se non poteva cambiare i Natali passati, poteva almeno sfruttare ciò che aveva scoperto su di essi per cambiare i Natali futuri.
    «Pino», disse rivolto alla sua piccola amica. «Ti ringrazio».
    «Oh, non c’è di che», rispose Pino orgogliosa del lavoro svolto. «Pronto a tornare alla realtà?»
    «Certo, ma prima voglio sapere una cosa: perché l’hai fatto?».
    «Te l’ho detto, per aiutarti!», spiegò Pino come se fosse la cosa più naturale del mondo.
    «Sì, ma perché proprio a me?».
    «Perché era mio compito aiutarti! Sono o non sono il fantasma dei tuoi Natali passati?!»
    Shiki sorrise capendo che non avrebbe avuto risposte chiare da quella creatura che con ogni probabilità esisteva solo nella sua mente, ma comunque al momento non gli importava: aveva assoluta urgenza di tornare alla realtà e dare una svolta alla sua vita.
    «Andiamo», concluse sollevando Pino da terra e mettendosela in spalla.


    Quando Shiki aprì gli occhi, si ritrovò con la guancia premuta contro il tavolo e di questo se ne rallegrò: per lo meno, non si era addormentato con il viso spiaccicato nel piatto come aveva supposto all’inizio.
    Sollevando la testa e stropicciandosi gli occhi, però, non poté fare a meno di chiedersi se ciò che aveva vissuto era stato semplicemente un sogno o qualcosa di più – una sorta di visione mistica o magari un miracolo di Natale. Non era nemmeno sicuro che i ricordi che Pino gli aveva fatto rivivere fossero del tutto veri, ma valeva la pena tentare di trarne qualcosa di positivo. Nel migliore dei casi, Rebecca gli avrebbe gettato le braccia al collo confermando di amarlo da quando aveva undici anni; nel peggiore dei casi, gli avrebbe tirato uno schiaffo in faccia chiedendogli come gli fosse venuto in mente di pensare una cosa del genere e allora Shiki avrebbe capito di essersi immaginato tutto quanto, Pino compreso.
    «Dormito bene?».
    Shiki incrociò gli occhi azzurri di Rebecca che gli sorrideva dal lato opposto del tavolo, mentre il resto della tavolata continuava a mangiare e chiacchierare.
    «Benissimo». Shiki le sorrise raggiante. «Quanto ho dormito?».
    «Circa cinque minuti. Non se n’è accorto nessuno, tranquillo», rispose Rebecca ridacchiando.
    Shiki annuì senza dire nulla e – nonostante il cuore gli dicesse di trascinare Rebecca in qualche angolo isolato della casa e comportarsi finalmente da uomo – si impose di aspettare, di rimanere fermo al proprio posto finché il cenone non fosse giunto al termine, altrimenti la sua assenza e quella di Rebecca avrebbero destato sospetti in tutti gli invitati, soprattutto le sue quattro zie ficcanaso. Non doveva avere fretta, c’era ancora tempo.
    Per tutto il resto della serata, quindi, Shiki si limitò ad osservare Rebecca alla ricerca di qualche indizio che confermasse ciò che aveva sognato, ma ottenne solo occhiate veloci e sorrisi appena accennati. Allo scoccare della mezzanotte, quando finalmente il cenone sembrava essere giunto al termine, Shiki scattò dalla sedia a dir poco euforico.
    La prima a cui si rivolse fu Homura: le sussurrò poche parole all’orecchio e lei, con gli occhi a cuore, annuì vigorosamente dando segno di aver capito. In seguito, Shiki raggiunse Rebecca posandole una mano sulla spalla. «Posso parlarti un secondo?».
    Incuriosita, Rebecca annuì e si alzò dalla sedia per seguirlo.
    Quando tutti e tre si ritrovarono da soli in corridoio lontano dalla festa, prima che Rebecca chiedesse cosa stesse succedendo, Shiki diede il via ad Homura con un occhiolino e quest’ultima, seguendo le sue precedenti indicazioni, indicò con una mano il rametto di vischio che pendeva, di nuovo, sulle teste di Shiki e Rebecca.
    «Forse non dovrei dirlo, ma credo che ora dovreste baciarvi».
    Rebecca ebbe appena il tempo di metabolizzare quelle parole, che Shiki si lanciò letteralmente su di lei e le stampò sulle labbra dischiuse un lungo bacio mozzafiato. E mentre Homura dietro di loro batteva felicemente le mani, Shiki avvertiva il proprio cuore esplodere dall’emozione nel sentire finalmente quella bocca tanto bramata premere contro la propria.
    Quando Shiki si scostò, trovò Rebecca rigida come un pezzo di marmo, le guance arrossate e gli occhi sgranati per lo stupore. «S-Shiki…?».
    «Avrei dovuto farlo molto tempo fa, Rebecca».
    Rebecca rimase in silenzio per diversi secondi e lì Shiki ebbe seriamente paura di essersi immaginato tutto quanto, ma poi le labbra della ragazza si piegarono in un bellissimo sorriso. «Te ne ricordi allora…», mormorò Rebecca con gli occhi che si riempivano di lacrime di felicità, mentre si avvicinava a Shiki e nascondeva la testa nel suo petto.
    «Certo che me lo ricordo». Shiki la circondò con le braccia e la strinse forte a sé. «E sai cos’altro mi ricordo?».
    Rebecca cercò il suo sguardo. «Cosa?».
    Mimando con le labbra un «grazie» rivolto ad Homura che gli sorrise dileguandosi, Shiki afferrò la mano di Rebecca e la condusse lungo le scale fino alla stanza degli ospiti. Non appena aprì la porta e accese la luce, Shiki si buttò a capofitto nel letto sistemandosi su un fianco e fece segno a Rebecca di avvicinarsi.
    Rebecca, avendo compreso, sgranò nuovamente gli occhi e si coprì la bocca con una mano.
    «Ti ricordi addirittura questo…?».
    «Ricordo tutto», precisò Shiki in attesa che lei lo raggiungesse.
    Tra un sorriso emozionato e una lacrima rotolata lungo la guancia, Rebecca si inginocchiò ai piedi del letto e allungò una mano verso la fronte di Shiki che faceva finta di dormire. Infine, ripeté le esatte parole che aveva pronunciato la notte del Natale dei suoi quindici anni, parole che mai avrebbe dimenticato perché avevano preceduto il loro primo bacio.
    «Shiki… c’è una cosa che io devo assolutamente dirti e che probabilmente non ti direi se tu non fossi mezzo addormentato».
    Shiki sorrise ad occhi chiusi, perfettamente conscio di cosa stesse accadendo. Questa volta non si sarebbe girato dall’altro parte, no, tutt’altro.
    «Ma forse…», continuò Rebecca, «…più che dirtela, farei meglio a mostrartela».
    Le labbra di Rebecca si posarono nuovamente su quelle di Shiki, il quale altro non aspettava se non di ricambiare quel bacio con tutta la passione che aveva represso fino a quel momento. Svelto, aprì gli occhi e attirò Rebecca sul letto fino a spalmarsela addosso per sentire finalmente cosa si provasse a stringere tra le braccia il corpo della ragazza amata. Con la lingua si fece spazio nella bocca calda e disponibile di Rebecca, mentre con le mani prese ad accarezzarle la schiena fasciata dal vestito azzurro. Sentirsela addosso, poterla finalmente baciare e toccare come preferiva, gli faceva nascere voglie e desideri da uomo che non aveva mai provato per nessun’altra ragazza. All’improvviso, Shiki sentì il bisogno di stringerle il volto tra le mani e guardarla direttamente negli occhi azzurri come il cielo d’estate.
    «Io ti amo, Rebecca, e avrei tanto voluto rendermene conto prima. Ma se tu mi ami quanto ti amo io, se per te Weisz non significa più niente, allora noi…».
    Rebecca non gli diede il tempo di dire altro, perché lo baciò sulle labbra quasi con disperazione infilando le dita tra i suoi capelli.
    «Sono stata io a lasciare Weisz perché non riuscivo più a mentire a me stessa…», gli soffiò direttamente sulle labbra, guardandolo da sotto le lunghe ciglia bionde. «Per quanto io ci abbia provato, non sono mai riuscita a mettere da parte ciò che provo per te».
    Shiki ingoiò a vuoto, improvvisamente a corto di fiato. «Rebecca…».
    «Facciamo l’amore, Shiki».
    Quelle parole, pronunciate con un tono così dolce eppure così sensuale, ebbero il potere di spiazzarlo ed eccitarlo al tempo stesso. «Qui…?». Se i genitori di Xiao Mei li avessero scoperti, li avrebbero certamente cacciati dalla loro casa a calci.
    «Sì, ti prego». Rebecca gli accarezzò amorevolmente il volto. «Ne ho bisogno ora. Non ci scoprirà nessuno».
    «Aspetta… lo sai che per me tu sarai la prima, vero?», si sentì in dovere di specificare, non perché si vergognasse di essere ancora vergine a vent’anni, ma perché voleva farle capire che lui non aveva l’esperienza di Weisz, che non sapeva nemmeno da dove cominciare, ma che comunque era disposto ad offrirle tutto ciò che voleva, ogni respiro e ogni bacio.
    Rebecca sorrise intenerita. «Sì, Shiki, lo so. E tu lo sai che io… invece…». Abbassò lo sguardo, quasi sentendosi colpevole. «Credevo veramente di amare anche lui e gli ho concesso tutta me stessa, ma se io avessi saputo che tu…».
    Shiki lo sapeva che lui per Rebecca non sarebbe stato il primo, ma al momento non gli importava più nulla del passato.
    «Vorrà dire che io per te sarò l’ultimo, quello definitivo».
    Di fronte a quella promessa di amore eterno, Rebecca annuì emozionata e le loro bocche si ricongiunsero in un nuovo bacio lento e umido. Più tardi, ribaltarono le posizioni sul materasso e Shiki, ritrovandosi Rebecca sotto di sé, fu libero di baciarla e accarezzarla in ogni parte del viso e in ogni parte del corpo, a mano a mano che i vestiti di entrambi scivolavano via e si afflosciavano ai piedi del letto con un fruscio.
    Quando finalmente Shiki, guidato da Rebecca, affondò con impazienza nel suo corpo caldo e fremente pronto ad accoglierlo, pensò che ne era davvero valsa la pena aspettare e anche soffrire pur di ritrovarsi stretto tra le braccia e le gambe nude di Rebecca che gli sussurrava all’orecchio che lo amava da tutta la vita, che era sua e di nessun altro, e che non aveva mai, mai provato sensazioni del genere.
    “Questo”, pensarono entrambi guardandosi negli occhi al culmine del piacere, “è davvero il più bel Natale di sempre”.


    Ciò che Shiki non si aspettava era che, tornando al piano di sotto seguito da Rebecca, avrebbe trovato Xiao Mei inginocchiata ai piedi dell’albero che stringeva tra le mani una bambola in tutto e per tutto uguale a Pino.
    «Guarda, Shiki, è il mio regalo di Natale!», esclamò la ragazzina con gli occhi che brillavano, per poi mettere la bambola in piedi per terra e schiacciare un pulsante dietro la sua schiena.
    «Ciao, sono Pino! Vuoi essere mio amico?», disse la bambola con voce robotica, drizzando le lunghe orecchie da coniglio.
    Shiki sussultò sul posto, gli occhi fissi in quelli immobili della bambola. Forse, pensò con un sorriso, non si era immaginato proprio tutto…









    Note dell'autrice:
    Grazie a chi ha letto tutto fino alla fine, circa 6500 parole... un parto, davvero, ma ne è valsa la pena! Spero che vi sia piaciuto il modo in cui ho cercato di adeguare i personaggi, i loro lavori e interessi, al nostro mondo (l'unica un po' OOC forse è Pino, ma mi serviva ai fini della trama). Soprattutto spero che non vi siate persi tra i ricordi dei Natali passati, ho cercato di essere il più chiara possibile anche usando il corsivo per le battute dei personaggi del passato. Inoltre mi sembrava giusto limitare la parte dell'amplesso a poche righe, dato che il succo della storia sta più che altro nel viaggio di Shiki attraverso i ricordi.
    Mi dispiace solo di essermi servita di Weisz come "antagonista", ma sappiate che non era mia intenzione abbattere la coppia Rebecca/Weisz, anzi, la trovo molto carina! Però nella mia storia, Weisz doveva fare la parte del rimpiazzo per pure esigenze di copione.
    Grazie a chi leggerà e vorrà farmi sapere cosa ne pensa. Alla prossima!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 29/12/2019, 13:55
  7. .
    Ecco le mie recensioni!

    Recensione a "Piccoli brividi" di Zomi
    Recensione a "Christmas time" di Funlove96
    Recensione a "Talk to me" di kamy
    Recensione a "In un modo o nell'altro" di yaoifack

    Devo dire che è stato bello poter finalmente recensire storie che avevo in mente da tanto tempo e anche dispensare un paio di consigli che mi ronzavano in testa. Grazie per questa possibilità <3
  8. .
    Questa fanfiction partecipa alla Xmas Countdown Challenge organizzata qui sul forum.
    Giornata: 22 dicembre - NATALE IN ROSSO
    Prompt: biancheria intima natalizia.

    2Zdve


    Let me show you my reindeer



    Il giorno di Natale si avviava al termine e, dopo una lunga festa a base di cibo, musica e tanto divertimento, ogni componente dell’equipaggio della Edens Zero si apprestava ad andare a dormire.
    Rebecca, però, riflettendo sullo scambio dei regali avvenuto giusto qualche ora prima, si rese conto che Weisz aveva dispensato gadget tecnologici da lui stesso costruiti a tutti loro tranne che a Shiki. Che si fosse dimenticato? O magari quei due avevano litigato e Weisz ce l’aveva ancora con Shiki tanto da non volergli fare un regalo di Natale? Eppure a Rebecca non sembrava di aver notato sguardi contrariati tra loro, anzi: avevano riso e scherzato per tutta la festa come al solito…
    Perplessa e curiosa di scoprire la verità, Rebecca seguì Shiki in corridoio e lo fermò poco prima che entrasse nella sua stanza. «Shiki?».
    Il Re Demone si voltò con un sorriso, la mano premuta sulla maniglia della porta. «Rebecca! Che ci fai qui?».
    «È successo qualcosa tra te e Weisz?», chiese la B-Cuber senza perdere tempo. «Ho notato che non ti ha regalato nulla».
    «Veramente mi ha dato il suo regalo in privato», rispose Shiki con tutta la naturalezza e l’innocenza del mondo, eppure a Rebecca quella frase suonò particolarmente ambigua. Scosse la testa come per scacciare quei pensieri assurdi e ridicoli: no, non poteva essere... Weisz aveva più volte mostrato di apprezzare il genere femminile ed era assolutamente impossibile che il suo regalo per Shiki fosse di natura... sessuale!?
    «Se vuoi, te lo faccio vedere», esordì all’improvviso Shiki.
    «C-cosa?».
    «Il regalo che mi ha fatto Weisz!».
    Rebecca, dopo un attimo di esitazione, tirò un lungo sospiro di sollievo. Se quel regalo poteva essere visto, allora era qualcosa di materiale, ben lontano da ciò che lei aveva stupidamente pensato. Ridacchiò tra sé e sé per poi rispondere all’invito di Shiki con un breve «Okay», curiosa di scoprire perché Weisz avesse deciso di dare il suo regalo a Shiki lontano da occhi indiscreti.
    «Vieni con me», concluse il Re Demone facendole segno di entrare in camera sua.
    Rebecca lo seguì, elaborando nel frattempo qualche ipotesi sulla natura del regalo. Chissà, magari era un qualche aggeggio in grado di potenziare abilità e poteri che però sarebbe stato meglio tirare fuori al momento opportuno, in occasione di un combattimento particolarmente difficile... Rebecca sorrise tra sé e sé: il pensiero che Shiki si fidasse di lei a tal punto da volerla rendere partecipe di quella piccola sorpresa la rendeva piuttosto felice.
    Tuttavia, quando Shiki si chiuse la porta alle proprie spalle, Rebecca si sentì, suo malgrado, un po’ tesa all’idea di rimanere da sola con lui nella sua stanza. Raramente si era ritrovata in un’occasione del genere e, se da una parte la cosa la allettava parecchio, dall’altra le dispiaceva pensare che forse Shiki, nella sua ingenuità, non ci trovasse nulla di particolare o interessante nel ritrovarsi da solo con lei. Ma forse era meglio non pensarci... non erano lì per passare del tempo insieme o cose del genere.
    Con un sorriso un po’ più tirato rispetto a un minuto prima, Rebecca attese che Shiki tirasse fuori il regalo da qualche cassetto o magari dall’armadio, ma inaspettatamente il Re Demone non si mosse affatto dal punto in cui si trovava. Fermo al centro della stanza proprio di fronte a Rebecca, Shiki fece la cosa più inaspettata che la B-Cuber avesse mai potuto immaginarsi: con un gesto veloce, si piegò leggermente su se stesso e si calò i pantaloni sulle caviglie.
    «SHIKI!!!».
    A quella vista, Rebecca si coprì il viso paonazzo con le mani e urlò così forte da farsi sentire molto probabilmente in ogni angolo della Edens Zero. «Ma che diamine stai facendo?!», esclamò subito dopo con una nota stridula nella voce, spiando il volto di Shiki attraverso gli spazi tra le dita che le coprivano il viso.
    Che cosa gli era preso all’improvviso? Possibile che il regalo che Weisz aveva fatto a Shiki fosse un piano per… portarsi a letto una ragazza?! Ma soprattutto, possibile che Shiki, così puro e innocente, lo stesse realmente mettendo in pratica proprio con lei? Non che la cosa le dispiacesse poi tanto – le era chiaro da mesi di provare forti sentimenti per il suo Re – ma avrebbe preferito trovarsi in una situazione del genere con Shiki ben più consapevole di cosa stesse facendo, con Shiki innamorato di lei e non semplicemente guidato dalla voglia di scoprire l’universo femminile attraverso gli spudorati e del tutto inappropriati suggerimenti di Weisz.
    «Ti sto solo mostrando il regalo. Perché urli tanto?», chiese Shiki sinceramente perplesso.
    Di fronte alla naturalezza di quelle parole e di quel tono di voce, Rebecca si chiese se per caso non fosse andata un po’ troppo avanti con la fantasia. E se il regalo di Weisz consistesse semplicemente in...?
    Di colpo, Rebecca si tolse le mani dal viso e posò lo sguardo sulla parte inferiore del corpo di Shiki: un paio di mutande nere con l’immagine di una simpatica renna dal naso rosso gli fasciavano perfettamente il bacino.
    «Carine, no?», commentò Shiki divertito, lo sguardo rivolto in basso verso la sua nuova biancheria intima natalizia. «Certo, avrei preferito qualcosa di più tecnologico simile ai vostri regali, ma Weisz ha detto che...».
    A quel punto, Rebecca si lasciò andare ad una risata isterica svuotandosi di tutta la tensione accumulata fino a quel momento tra ipotesi surreali e pensieri sconci. Che stupida era stata a credere possibile che...
    «...che tu avresti potuto aiutarmi a far prendere vita alla renna e che avremmo potuto giocarci insieme», concluse Shiki con lo sguardo fisso su di lei.
    «...Eh?».
    Rebecca smise improvvisamente di ridere, gli occhi spalancati mentre deglutiva a vuoto. Neanche il tempo di riprendersi dallo shock precedente che Shiki le sganciava una nuova bomba in grado di far crollare il suo già precario autocontrollo. «I-in che senso?».
    «Non so in che senso. Dimmelo tu. Weisz ha detto che tu avresti capito».
    A quel punto Rebecca avvertì le guance scaldarsi e il cuore cominciare a battere come un forsennato. Il suo sesto senso, in fin dei conti, aveva avuto ragione fin dall’inizio. Quel brutto… bastardo di Weisz, stavolta, l’aveva combinata proprio grossa. Come diamine gli era venuto in mente di architettare un piano del genere e soprattutto perché? Aveva forse intuito i suoi sentimenti per Shiki e di conseguenza si era adoperato per aiutarla?
    Rebecca non sapeva proprio cosa dire o fare, e l’immagine di Shiki con i pantaloni calati giù e il muso di una renna disegnato proprio al centro dell’inguine non l’aiutava di certo a restare lucida.
    «Shiki…», cominciò, massaggiandosi la fronte con le dita. «Non è che potresti rialzarti i pantaloni?».
    «Ma io voglio vedere la renna prendere vita!», protestò Shiki con il tono di un bambino desideroso di poter utilizzare il suo giocattolo nuovo al più presto. «Si tratta di una magia, non è vero? In effetti, forse dovrei chiedere a Witch…».
    «NO!», esplose Rebecca fuori di sé al solo pensiero di Shiki in mutande di fronte alla bella androide. «Tu non sai nemmeno di cosa stai parlando! La renna non prenderà vita davvero, era solo una maledettissima metafora!».
    Shiki piegò la testa da un lato con aria confusa. «Cos’è una metafora?».
    Rebecca respirò profondamente, cercando di riprendere la calma ed essere più paziente. A volte dimenticava di trovarsi di fronte ad un ragazzino che aveva vissuto per tutta la vita in un parco divertimenti popolato da robot…
    «Una metafora è un modo di dire qualcosa usando altre parole».
    «Mmh… e quindi cosa intendeva Weisz?».
    Rebecca si morse il labbro inferiore, completamente a disagio. Cosa avrebbe dovuto fare a quel punto? Mandare tutto al diavolo o spiegare a Shiki come stavano veramente le cose? Nel primo caso, Shiki ci sarebbe rimasto piuttosto male e forse avrebbero finito per litigare, mentre nel secondo caso Rebecca si sarebbe cacciata nella situazione più imbarazzante della sua intera vita… o forse, nel migliore dei casi, con un po’ di fortuna lei e Shiki avrebbero finito davvero per… NO! Non doveva di nuovo lasciarsi trasportare dalla sua fervida immaginazione, non doveva approfittare della situazione che Weisz le aveva servito su un piatto d’argento. Non era quello che voleva, o almeno non era così che lo voleva.
    «Shiki…», esordì Rebecca chiamando a raccolta tutto il coraggio di cui disponeva. «Ti ricordi quando abbiamo parlato della differenza tra amicizia e amore?».
    Shiki le sorrise di rimando. «Certo».
    «E ti ricordi cosa ti ho detto a proposito del… dell’amore… fisico?».
    Shiki si portò una mano sotto il mento con aria profondamente riflessiva, poi nella sua mente sembrò accendersi una lampadina e le sue guance si colorarono di una deliziosa sfumatura rossa. «Intendi quella cosa che va oltre i baci e le carezze, no?».
    «E-esatto». Rebecca abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello fin troppo curioso di Shiki. «Allora… se tu ti trovassi coinvolto in una situazione del genere con la ragazza che ti piace, certe parti del tuo corpo reagirebbero in maniera… come dire?... visibile. Ed ecco perché la renna prenderebbe vita. Ti è chiaro?».
    Shiki si guardò in mezzo alle gambe come per immaginarsi la cosa, poi tornò a fronteggiare Rebecca grattandosi la nuca con un sorriso imbarazzato. «Ora sì, ti ringrazio».
    «Bene». Rebecca si lisciò pieghe inesistenti sulla gonna, quindi cercò di abbozzare anche lei un falso sorriso. «Ora che sai di cosa si tratta, potrai usare il tuo regalo come meglio credi. Io vado, okay?».
    La situazione era diventata talmente insostenibile che Rebecca non vedeva l’ora di fuggire via per prendere aria e magari anche picchiare Weisz per il guaio in cui l’aveva cacciata. Tuttavia, non fece in tempo a voltarsi che Shiki le afferrò un polso e la tirò verso di sé costringendola a guardarlo più da vicino.
    Tanta fu l’irruenza di quel gesto che Rebecca rischiò quasi di sbattere contro il petto di Shiki che ora la fissava con sguardo talmente serio da farle sentire le gambe molli.
    «Io voglio usare il mio regalo con te, Rebecca».
    «Shiki…».
    Rebecca avvertì gli occhi inumidirsi. In una situazione ben più felice, un invito del genere non avrebbe potuto farle nient’altro che piacere, ma in quel momento Shiki, un po’ perché era curioso di scoprire territori a lui sconosciuti, un po’ perché forse la trovava attraente, stava semplicemente seguendo le direttive di Weisz. «Ti prego, non complicare le cose...».
    Shiki assunse un’espressione dispiaciuta. «Non vuoi?».
    «Non posso», lo corresse Rebecca abbassando lo sguardo per evitare che lui notasse le lacrime impigliate tra le sue ciglia.
    «Perché?».
    «Perché per fare questa cosa, per fare l’amore, bisogna amarsi. Capisci?».
    Shiki le strinse più forte il polso, ma senza farle male. «Quindi tu non puoi perché non mi ami?».
    A quel punto Rebecca sollevò nuovamente lo sguardo mostrandosi in tutto il suo dolore e batté le mani strette a pugno sul petto ampio di Shiki i cui occhi si spalancarono nel vederla in lacrime.
    «S-sì che ti amo, stupido!», singhiozzò. «Il problema è capire cosa provi tu».
    «Ti prego, non piangere, lo sai che non lo sopporto…». L’espressione di Shiki traboccava di senso di colpa, mentre con le proprie mani copriva quelle della ragazza ancora posate sul suo petto. «Ascoltami, Rebecca. Io voglio bene a tutti voi: a Homura, Weisz, Pino, le Stelle Luminose… insomma, tutti». E lì Rebecca avvertì una fitta allo stomaco credendo che Shiki volesse mettere in chiaro di non provare nient’altro che affetto nei suoi confronti. «…Ma per te io sento qualcosa di diverso, di più forte, qualcosa che non ho mai provato prima», le spiegò invece, spiazzandola completamente e facendole rimbalzare il cuore in gola. «E tu non puoi nemmeno immaginare cosa mi sta passando per la testa di farti da quando mi hai svelato quella cosa della renna…».
    Rebecca smise improvvisamente di respirare, sbalordita per quelle parole così importanti, così mature, che mai si sarebbe aspettata di sentir uscire dalla bocca di Shiki, e soprattutto incantata da quegli occhi neri accesi di desiderio che ora fissavano insistentemente le sue labbra.
    «Oh, Shiki...».
    Il Re Demone le sorrise con calore, asciugandole con il pollice una lacrima rotolata lungo la guancia.
    «Posso baciarti ora, Rebecca?»
    La B-Cuber non riuscì ad aspettare oltre. Inondata da un tripudio di emozioni nuove, si gettò di slancio su Shiki aggrappandosi con le braccia alle sue spalle e poggiò le labbra su quelle del giovane strappandogli quel bacio tanto sofferto e agognato. Shiki rimase inizialmente pietrificato per quel gesto tanto veloce e intraprendente, poi gli venne naturale circondare Rebecca con entrambe le braccia e rispondere al bacio un po’ impacciatamente, mentre lei a sua volta gli allacciava le gambe intorno al bacino per lasciarsi sollevare con facilità da terra.
    Quando si staccarono a corto di fiato, Rebecca si asciugò gli occhi umidi con il dorso della mano, poi indicò con sguardo malizioso il letto di Shiki, il quale annuì con un sorriso mostrando di aver capito e calciò via i pantaloni già abbassati insieme alle scarpe che in quel tragitto gli sarebbero stati d’intralcio.
    Trasportata attraverso la stanza dalle braccia forti dell’uomo che amava e che la amava, Rebecca poté stendersi comodamente sul materasso mentre Shiki le saliva addosso mantenendosi con i gomiti ai lati della sua testa per non schiacciarla con il proprio peso. Infilando le dita tra quei morbidi capelli neri, Rebecca lo baciò di nuovo, questa volta più a lungo e con più ardore: le loro labbra presero a modellarsi reciprocamente come fatte apposta per completarsi, le loro lingue si intrecciarono desiderose e fameliche. Dapprima goffo e inesperto, Shiki imparò in fretta come usare la bocca per strappare a Rebecca qualche mugolio d’approvazione, tanto da farle desiderare di sentire quella stessa bocca anche in altre zone del corpo. Quando la B-Cuber ruotò la testa di lato e strinse la testa di Shiki tra le mani guidandolo a baciarle il collo, il Re Demone la accontentò piuttosto felicemente lasciando baci soffici e umidi su quella porzione di pelle così delicata e sensibile.
    «Quanto in basso posso spingermi, Rebecca?».
    «Quanto in basso vuoi».
    «Allora credo che dovrai toglierti questo prima che te lo tolga io», specificò Shiki tirando un lembo del maglione di Rebecca all’altezza del petto.
    La B-Cuber ridacchiò e, sotto lo sguardo affamato di Shiki, si tolse il maglione. A quel punto, il Re Demone riprese il suo lavoro da dove l’aveva interrotto, continuando a baciare, succhiare e leccare il collo teso di Rebecca fino ad arrivare alle clavicole e all’incavo tra i seni. Impaziente di sentirsi addosso le mani di Shiki, con coraggio Rebecca si tolse anche il reggiseno buttandolo ai piedi del letto, quindi afferrò le mani del ragazzo e se le piazzò sui seni grandi e sodi guidandone i movimenti in senso rotatorio.
    «Morbide…», commentò Shiki con gli occhi leggermente sgranati e le pupille dilatate, strappandole un nuovo sorriso divertito e allo stesso tempo emozionato.
    Quando Rebecca lo lasciò libero di sperimentare come meglio credeva, Shiki strinse bramosamente le sue rotondità tra i palmi aperti delle mani e le massaggiò con avida insistenza. Successivamente, scese a baciarne una e lì Rebecca sospirò appagata sentendo quella lingua umida e calda lambirle deliziosamente il capezzolo. Dopo che Shiki riservò lo stesso trattamento anche all’altro seno, Rebecca non poté fare a meno di reclamare quelle labbra nuovamente contro le proprie.
    «Ti sta piacendo, Shiki?», sussurrò la B-Cuber tra un bacio e l’altro.
    «Tantissimo. E a te?».
    «Tantissimo», ripeté Rebecca. «Ma sarebbe ancora più bello se anche tu ti togliessi il maglione…».
    E Shiki non se lo fece ripetere due volte: dato che si era già precedentemente liberato dei pantaloni, con pochi movimenti si mostrò quasi completamente nudo davanti agli occhi di Rebecca, la quale si gustò la vista dei suoi addominali scolpiti fino a soffermarsi sul bacino. L’eccitazione di Shiki intrappolata nelle mutande aveva gonfiato la stoffa proprio nel punto in cui era disegnato il muso della renna che in quel modo sporgeva in avanti sembrando più… realistica.
    «Hai visto?», disse rossa in volto. «Weisz aveva ragione, la renna ha preso vita».
    Shiki si guardò l’inguine. «Anche troppo», rispose ridacchiando, per poi tornare serio subito dopo e sfiorare con le dita una guancia accaldata di Rebecca. «Ho paura di farti male...».
    Intenerita, Rebecca si sporse verso di lui per stringergli il volto tra le mani. «Farà un po’ male, è vero, ma non significa che non sarà bello». Lo baciò appena sulle labbra. «E sarà bello perché sarà con te».
    Quelle parole ebbero il potere di infuocare nuovamente Shiki, il quale, spalmandosi addosso a Rebecca, riprese a baciarla in più punti: sulla bocca, sul collo, sui seni, sul ventre piatto fino ad arrivare al bordo della gonna. Rebecca se la tolse velocemente e gettò via anche quella, presto seguita dai collant che le fasciavano le gambe. Ciò che non si aspettava era che Shiki, vedendola addosso solo con le mutandine (rosse in occasione di Natale ma molto più sobrie delle sue), si sarebbe sporto in avanti e ne avrebbe scostato l’orlo per poter spiare cosa celasse quel triangolino di stoffa.
    «Sei così diversa da me…».
    «C-certo che sono diversa da te! Sono una ragazza!».
    Shiki annuì, squadrando l’intero corpo nudo di Rebecca come incantato. «Sei così bella che vorrei baciarti proprio tutta…».
    Rebecca sentì il cuore accelerare i battiti al pensiero di cosa Shiki le avrebbe fatto di lì a poco se solo lei gliene avesse dato il permesso.
    «E allora fallo…».
    Rinvigorito da quella risposta, Shiki sfilò con entrambe le mani le mutandine di Rebecca senza incontrare opposizione e si abbassò su di lei incastrando la testa tra le sue cosce. Quando la baciò delicatamente sul monte di Venere, Rebecca si lasciò sfuggire un languido sospiro e sollevò il bacino per facilitargli l’impresa. Curioso e disinibito, Shiki avvicinò la bocca a quelle grandi labbra pronte per lui. Le leccò e ci giocò in modo tremendamente piacevole, tanto che Rebecca si ritrovò a stringere due lembi delle lenzuola in preda al piacere che quella lingua calda e umida era in grado di procurarle lì dove nessuno era mai arrivato.
    In seguito, Rebecca richiamò Shiki a sé baciandolo appassionatamente sulle labbra e si spinse contro di lui fino a far aderire i loro bacini percorsi da tremiti d’eccitazione. Nel momento in cui l’erezione di Shiki ancora intrappolata nella stoffa di quelle strambe mutande incontrò l’intimità nuda e bagnata di Rebecca, il Re Demone mugugnò compiaciuto contro le sue labbra.
    «Rebecca...», disse con tono implorante. «La renna ora è davvero impazzita».
    Agli occhi di Rebecca, la situazione appariva così buffa e allo stesso tempo così eccitante da non sapere se mettersi a ridere o pregare Shiki di farla sua subito.
    «È un buon segno, Shiki».
    Il Re Demone abbozzò un sorriso un po’ incerto. «Non so esattamente come continuare, però…».
    «Nemmeno io, ma possiamo scoprirlo insieme».
    Shiki annuì e Rebecca lo aiutò ad abbassarsi le mutande liberando l’erezione dura e impaziente, così gonfia che Rebecca si ritrovò ad arrossire e a spostare gli occhi da tutt’altra parte. In fondo, non era molto più esperta di Shiki...
    Il Re Demone, vedendola tentennare, le accarezzò dolcemente il volto. «Hai paura?».
    «Un po’».
    «Vuoi che smettiamo?», le chiese preoccupato.
    Rebecca negò con la testa. Le labbra e le mani di Shiki che scivolavano calde sulla sua pelle erano tutto ciò che desiderava. Era solo un po’ agitata all’idea di sentirsi per la prima volta un tutt’uno con l’uomo che amava.
    «Okay, allora…».
    Vedendo Shiki in evidente difficoltà, Rebecca divaricò coraggiosamente le cosce e circondò con le dita tremanti il membro di Shiki che a quel contatto sussultò sgranando impercettibilmente gli occhi. Quando Rebecca lo guidò verso la propria intimità, Shiki cominciò a spingere, più e più volte, ma senza riuscire veramente ad entrare.
    «Rebecca, non ce la faccio... sei davvero troppo stretta. Se spingo più forte, rischio seriamente di farti male ed io non voglio vederti piangere di nuovo».
    «Forse...». Accaldata e ansimante, Rebecca prese una mano di Shiki e se la portò in mezzo alle cosce. «Cominciamo così e poi...».
    Shiki annuì mostrando di aver compreso. Qualche secondo dopo, sentendo un dito del ragazzo sfiorarla languidamente, Rebecca si ritrovò a sospirare e a chiedere di più. Sollevato da quei versi di apprezzamento, Shiki la accarezzò più a fondo, per poi aggiungere un secondo dito grazie al quale riuscì ad allargarla un po’ senza farle male.
    Quando Shiki ritirò le dita umettate e si sistemò meglio con la virilità puntata tra le sue cosce, Rebecca capì che era arrivato il momento di accoglierlo e chiuse gli occhi per assaporarsi a pieno l’unione. Con una spinta decisa e un gemito di puro piacere strozzato tra i denti, Shiki riuscì a farsi spazio dentro di lei, ma nonostante l’avesse preparata con le dita, un dolore acuto la colpì in pieno, tanto da farla irrigidire.
    «P-piano, Shiki…».
    Sentendosi in colpa per averla fatta soffrire, Shiki abbandonò immediatamente il suo corpo, le si spalmò addosso e cercò il suo sguardo con aria preoccupata.
    Rebecca, trovandoselo così vicino, non poté evitare di sorridere. «Continuiamo… appena mi abituo, non farà più male», lo rassicurò.
    E fu così che tra dolci baci, parole rassicuranti e piccoli colpi di bacino, Shiki affondò nuovamente in lei giungendo finalmente a riempirla tutta. La sensazione dei loro corpi uniti nel modo più intimo possibile spiazzò entrambi, portandoli a soffocare i gemiti l’uno nella bocca dell’altro.
    «Va… va meglio ora, Rebecca?».
    «Decisamente».
    I minuti successivi Rebecca li passò ad assecondare le spinte ritmiche e i baci umidi di Shiki, a guardarlo negli occhi neri e profondi come lo spazio, ad accarezzargli la fronte imperlata di sudore, mentre il dolore scivolava via dal suo bassoventre sostituito da una sensazione infinitamente più piacevole, la stessa che portava Shiki a gemere ad ogni nuovo affondo.
    «Rebecca, sento qualcosa… come se stessi per… esplodere».
    «Anche io, Shiki, significa che abbiamo quasi finito…».
    Shiki ne approfittò per nascondere il viso nel petto caldo e accogliente di Rebecca che protendeva verso di lui. «Ma io non voglio che finiamo… voglio continuare… è così bello», mormorò contro la sua pelle.
    «Possiamo riprendere dopo, o domani, o dopodomani ancora… tutti i giorni che vorra–». A quel punto Rebecca inarcò all’improvviso la schiena per via di una spinta più potente e intensa delle altre, capace di far tremare entrambi da capo a piedi.
    Quando raggiunsero il culmine del piacere, Shiki si abbandonò esausto al fianco di Rebecca e coprì entrambi con le lenzuola, non prima di averle regalato un ultimo bacio a fior di labbra.
    «Ti amo, Rebecca».
    Rebecca sorrise, sentendosi finalmente felice e completa. «Ti amo anche io, Shiki. Buon Natale».
    «Lo è davvero…», mormorò Shiki per poi posare la testa sul petto di Rebecca.
    Entrambi pensarono che avrebbero proprio dovuto ringraziare Weisz per averli spinti, seppur in modo decisamente insolito, a dichiararsi a vicenda i propri sentimenti e ad abbandonarsi l’uno alle braccia dell’altro.


    In un’altra stanza della Edens Zero, Weisz, spaparanzato sul suo letto, se la rideva sotto i baffi da quando aveva sentito Rebecca urlare il nome di Shiki.
    «Weisz?».
    L’interpellato sollevò lo sguardo trovando il volto di Homura che sbucava da dietro la porta lasciata socchiusa.
    «Homura?», rispose sorpreso ma compiaciuto per quell’inaspettata intrusione, mentre si metteva a sedere sul letto per sentire cosa avesse da dirgli la spadaccina.
    «Hai sentito anche tu?», gli chiese Homura vagamente turbata. «Un urlo proveniente dalla stanza di Shiki…».
    Weisz ridacchiò. «Sta’ tranquilla, era solo Shiki che mostrava la sua biancheria intima natalizia a Rebecca».
    Homura sgranò gli occhi e arrossì sulle gote, poi assunse uno sguardo vitreo, riflessivo, e Weisz capì che stava per dirne una delle sue.
    «Beata Rebecca…», la sentì mormorare. «Oh, Weisz, se solo anche tu volessi mostrarmi la tua biancheria intima natalizia…».
    «HOMURA!».
    «Ops!». La spadaccina, da rossa, diventò letteralmente paonazza. «Ho di nuovo parlato ad alta voc–MMH!».
    Veloce come un fulmine, Weisz era saltato giù dal letto, aveva tirato Homura all’interno della stanza e l’aveva sbattuta contro il muro rubandole un bacio mozzafiato con tutta l’intenzione di far avverare il suo desiderio espresso ad alta voce. E mentre il kimono della spadaccina si afflosciava per terra insieme ai vestiti di Weisz, quest’ultimo non poté far altro che rallegrarsi per il doppio finale felice che un semplice paio di mutande buffe aveva portato sulla Edens Zero in occasione di quel Natale.
  9. .
    Questa rimarrà probabilmente l'unica mia storia destinata a questa challenge (maledetta febbre!), ma ci ho messo l'anima per scriverla :mellorie:

    Let me show you my reindeer (Edens Zero)

    E se vi state chiedendo "C'è un doppio senso nel titolo?", la risposta è sì :laxus:
  10. .

    Behind every strong soldier,
    there is an even stronger woman.




    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #13. Il giuramento (parte 1)



    Centro Addestramento Volontari ► VFP1

    Cinque settimane. Erano passate solo cinque settimane da quando Natsu aveva messo piede per la prima volta nel centro d’addestramento, eppure da quel momento erano cambiate così tante cose nella sua vita che gli sembrava fosse trascorso molto più tempo.
    Innanzitutto, aveva imparato così tanto sulla vita militare da sentirsi già pronto per partecipare ad una vera missione, cosa ovviamente impossibile per un semplice volontario del RAV*, ma prima o poi sarebbe arrivato anche il suo momento, doveva solo attendere. Inoltre, aveva appena superato con il massimo dei voti la prima valutazione intermedia delle reclute che consisteva in prove di corsa piana sui 2.000 metri, piegamenti sulle braccia, flessioni addominali, salto in alto e così via. Le successive cinque settimane, invece, avrebbero avuto carattere più tattico, comprendendo esercitazioni a fuoco e continuative, ma per il momento era meglio concentrarsi sull’imminente cerimonia del giuramento durante la quale lui e i suoi compagni avrebbero dovuto giurare fedeltà alla patria in presenza dei loro superiori, ma anche dei loro amici e familiari.
    In secondo luogo, Natsu era cresciuto sia fisicamente che mentalmente. A forza di marciare e svolgere quotidianamente sfiancanti sessioni di esercizio fisico, le sue braccia e le sue gambe si erano parecchio irrobustite, le sue spalle e il suo petto erano diventati più ampi, i suoi addominali molto più evidenti. Aveva imparato il valore dell’ordine e della disciplina, dell’obbedienza e del sacrificio. Non era più il ragazzino rumoroso e impaziente di cinque settimane prima, ma un uomo forte pronto a raggiungere i propri obiettivi.
    Già, un uomo… L’unica a non essersi accorta di quei suoi cambiamenti sembrava Lucy, proprio la persona che Natsu desiderava impressionare più di tutti. Da quando Sting, quella notte di guardia nel cortile del centro, gli aveva aperto gli occhi su quanto fosse labile il confine tra amicizia e amore, per Natsu Lucy non era più la stessa. Certo, rimaneva sempre la sua migliore amica, quella che gli era rimasta accanto per lunghi anni condividendo con lui gioie e dolori, sogni e paure, momenti di spensieratezza e momenti di serietà, ma Natsu aveva da poco scoperto quanto Lucy, con quelle curve così generose e quella sensualità così naturale, così pulita, fosse irrimediabilmente donna. E bella, così bella da diventare la protagonista dei suoi pensieri più reconditi e meno innocenti, che poco si addicevano alla parola “amicizia”. Ma con che coraggio avrebbe potuto confessare simili pensieri a Lucy, che non sembrava provare per lui qualcosa di diverso dall’affetto e dall’ammirazione?
    Per salvaguardare il bene della propria sanità mentale, Natsu si era sentito costretto a stabilire un limite tra le cose che Lucy poteva e non poteva fare in sua presenza: una di queste, mostrarsi mezza nuda davanti ai suoi occhi (cosa che a Lucy sembrava normale, ma che per lui era a dir poco intollerabile), era stata la causa del loro primo vero litigio. Fortunatamente, alla fine avevano fatto pace e tutto tra loro due sembrava tornato come prima, ma la verità era che Natsu in cuor suo avrebbe desiderato una piega diversa per il loro rapporto. Una piega più piacevole, più intima, che nemmeno lui avrebbe saputo definire a parole. Non gli era ancora ben chiaro cosa volesse esattamente da Lucy, ma in ogni caso Natsu aveva deciso di tenersi tutto dentro per non minare la loro amicizia.
    Il problema era che, dal fatidico giorno del litigio, le sue nuove sensazioni per Lucy non si erano affatto attenuate, anzi. Tutto sembrava essersi amplificato al massimo, alimentato dalla lontananza e dai ricordi.
    Se di giorno, concentrato sul suo allenamento, Natsu riusciva a non pensarci, di notte l’immagine di Lucy tornava a popolare i suoi sogni da nuovi punti di vista, con nuove sfumature, nuove luci, nuovi colori, nuovi dettagli. Lucy che gli sorrideva, che lo chiamava, che lo abbracciava. Lucy che lo baciava, che lo toccava, che lo spogliava, che si spogliava. Lucy nuda, bellissima, così disponibile e arrendevole, così poco amica e così tanto donna da sconquassargli la testa, il cuore e soprattutto il bassoventre.
    Il mattino dopo, Natsu si svegliava sudato e ansimante, con il pigiama che gli tirava terribilmente in mezzo alle cosce, e doveva ricorrere ad una lunga doccia congelata per disfarsi di quel grosso ed evidente problema prima dell’inizio di una nuova giornata di addestramento.
    Una mattina, però, mentre l’acqua si riversava sulla sua testa avvolgendolo da capo a piedi, Natsu si ritrovò a battere i pugni sulle mattonelle della doccia, gli occhi fissi su quell’erezione prepotente, dolorosa, che pur bagnata dal getto freddo dell’acqua non accennava a sparire per nulla, complice anche la lunga astinenza (Lisanna per lui era stata la prima e l’ultima, e in generale non era uno che si toccava spesso).
    Arrivato al culmine della sopportazione, quella mattina Natsu decise di aspettare che tutti i suoi compagni sparissero dalle docce in modo da rimanere solo con se stesso e potersi liberare di quell’enorme peso, anche a costo di arrivare in ritardo all’adunata delle 7.45 e beccarsi una severa punizione da Clive. Con la fronte poggiata alle mattonelle della doccia, Natsu portò una mano sul membro già eretto e si lasciò sfuggire un gemito di puro sollievo misto a piacere nel momento in cui cominciò ad accarezzarlo su e giù per tutta la sua lunghezza e a passare le dita bagnate tra i testicoli gonfi. Gli bastò, poi, immaginare Lucy che si contorceva eccitata sotto di lui, che godeva e gemeva ad opera sua, per venire copiosamente nella sua stessa mano, accasciarsi svuotato con le ginocchia sul pavimento della doccia e capire che la sua amicizia con lei stava decisamente giungendo al capolinea.
    Con che coraggio avrebbe sostenuto lo sguardo ignaro e innocente di Lucy in occasione del giuramento, Natsu proprio non lo sapeva.

    ***



    Quando Juvia sentì il suono del clacson, segno che Lyon si era appena parcheggiato in fondo al vialetto, si diede un’ultima occhiata allo specchio ravvivandosi i capelli blu con la mano, afferrò la borsa e si avviò verso la porta.
    «Esci con un ragazzo, tesoro?».
    Juvia si voltò trovando suo padre affacciato dietro l’angolo e non poté a fare a meno di sorridere divertita.
    «Certo che no, papà! Juvia va al giuramento di Gray-sama insieme a Silver-sama e a Lyon-sama».
    «Lyon, eh?», replicò il signor Lockser accarezzandosi il mento ispido di barba scura. «Ultimamente parli spesso di lui…».
    «Papà!». Juvia arrossì di botto. «Lyon-sama è solo un buon amico. Se Juvia ne parla spesso, è perché lo trova sempre a casa di Silver-sama quando va a fargli visita… E poi lo sai che il cuore di Juvia appartiene già a Gray-sama!».
    «Ma tesoro…». Il signor Lockser finse un’espressione dispiaciuta. «…il tuo adorato papino dove lo metti?».
    Juvia sorrise intenerita e in poche falcate raggiunse il padre per lasciargli un dolce bacio sulla guancia. «Tu rimarrai sempre il mio eroe, papà», gli sussurrò in un orecchio stando ben attenta a parlare in prima persona piuttosto che in terza.
    E tanto bastò per far sparire il signor Lockser nel suo studio con tanto di occhi a cuore e nuove idee per i suoi romanzi.
    A quel punto, a Juvia non rimase altro che uscire di casa e percorrere il vialetto del giardino. Lyon la aspettava in macchina con Silver seduto al suo fianco; la sedia a rotelle giaceva nel bagagliaio, pronta per essere tirata nuovamente fuori al momento opportuno.
    «Buongiorno», disse la ragazza infilandosi sul sedile posteriore dell’auto.
    «Buongiorno, Juvia-chan», rispose Lyon rivolgendole un’occhiata imbarazzata attraverso lo specchietto retrovisore che a Juvia non sfuggì affatto.
    «Ma com’è elegante oggi la nostra Juvia», fu il saluto di Silver. «Non è vero, Lyon?»
    «Già». Lyon fece ripartire bruscamente la macchina. «Molto… elegante, sì».
    Juvia, suo malgrado, si ritrovò ad arrossire. Sembrava quasi che tanto suo padre, quanto il padre di Gray, si fossero messi d’accordo per far nascere la scintilla tra lei e Lyon approfittando dell’assenza di Gray, ma Juvia non era affatto intenzionata a cercare di dimenticare Gray trovando conforto nelle braccia di Lyon. Primo: i suoi sentimenti per Gray erano radicati nel suo cuore da così tanto tempo che non sarebbero svaniti così facilmente. Secondo: nonostante Gray l’avesse rifiutata poco prima di intraprendere l’addestramento, le aveva comunque dato modo di sperare che un giorno tra loro due sarebbe potuto cambiare qualcosa e Juvia non era disposta ad abbandonare quelle speranze così allettanti, non per il momento almeno.
    Il viaggio in auto durò quasi un paio d’ore. Gli unici a parlare furono quasi esclusivamente Lyon e Silver, mentre Juvia se ne rimase in silenzio per la maggior parte del tempo chiedendosi come sarebbe stato far parte, almeno per qualche ora, della nuova vita di Gray al centro d’addestramento. Juvia era certa che Gray non li avrebbe accolti con chissà quale grande entusiasmo, non perché non apprezzasse la loro presenza, ma perché aveva insistito affinché tutti e tre se ne rimanessero a casa per il bene di Silver. «È una cerimonia lunga e noiosissima, non ne vale la pena», aveva più volte ribadito tanto a lei quanto a Lyon. «Inoltre, far venire papà sarebbe faticoso e problematico sia per voi che per lui».
    Juvia, Lyon e Silver, però, non avevano voluto sentire ragioni. Il giuramento, per quanto “lungo e noiosissimo”, era una cerimonia importante per i neo-militari. Inoltre, Silver stesso era stato un militare da giovane e niente l’avrebbe potuto rendere più orgoglioso che assistere al giuramento del suo unico figlio.
    Arrivati al centro d’addestramento, un edificio immenso dall’aspetto antico e austero, Juvia e Lyon scesero dall’auto e aiutarono Silver a tornare sulla sedia a rotelle, quindi si incamminarono verso il piazzale del giuramento facendosi largo tra eleganti uomini in divisa circondati dai loro amici e familiari. Quando videro Gray girato di spalle insieme a Natsu e ad altri compagni, Juvia e Lyon affrettarono il passo per raggiungerli.
    «Gray-sama!». Juvia si lanciò letteralmente su Gray abbracciandolo da dietro: erano cinque settimane che non lo vedeva, dal momento che lui – a differenza di Natsu – aveva preferito non approfittare del primo weekend libero per tornare a casa. I motivi di una simile scelta a Juvia non erano ancora ben chiari, ma non era quello il momento di stare a rimuginarci.
    «Juvia…». Gray pronunciò il suo nome ancora prima di rigirarsi nell’abbraccio e Juvia, ritrovandoselo finalmente di fronte, bellissimo nella sua divisa verde militare adatta alle occasioni più formali, pensò che per quello sguardo profondo e quel sorriso appena accennato avrebbe aspettato anche tutta una vita.
    «Stai… molto bene», commentò Gray indugiando con lo sguardo sul vestito viola di Juvia e sui suoi boccoli azzurri, per poi spostare gli occhi da tutt’altra parte in evidente imbarazzo.
    «G-grazie», rispose Juvia sentendosi arrossire per quel complimento tanto inaspettato. Faceva bene, allora, a sperare… «Anche tu», aggiunse subito dopo sfiorandogli il petto con una mano.
    Rimasero a guardarsi occhi negli occhi finché Gray non captò l’immagine di Lyon che spingeva la sedia a rotelle di Silver e di conseguenza la sua espressione cambiò totalmente. «Papà!», urlò furioso sorpassando Juvia. «Ti avevo detto di startene a casa!».
    «Su su, è così che accogli il tuo vecchio dopo più di un mese?», scherzò Silver tirando un pizzicotto al fianco di Gray che a sua volta mandò un’occhiataccia sia a lui che a Lyon, complice di quella situazione.
    «Non te la prendere, Gray. Sapevi che saremmo venuti…», disse Lyon sfoderando un sorriso.
    Gray sospirò frustrato e Juvia, guardandolo, si chiese se per caso non ci fosse qualcosa che lo tormentava nel profondo, qualcosa di ben più personale e preoccupante dell’arrivo di Silver contro la sua volontà. Infatti, ad eccezione del momento in cui Juvia lo aveva abbracciato, Gray sembrava particolarmente teso. Che fosse in ansia per il giuramento stesso? Eppure si trattava di una semplice cerimonia… In fondo la valutazione intermedia l’aveva passata a pieni voti al pari di Natsu, l’aveva detto lui stesso!
    «Andrà tutto bene, Gray-sama», le venne istintivamente da dire accarezzando un braccio del suo amato. Gray, dopo un attimo di esitazione, si limitò ad annuire.

    ***



    Erano passate tre settimane da quando Natsu era rientrato a casa per il suo weekend libero, tre settimane da quando Lucy e lui avevano litigato furiosamente per un motivo totalmente futile, tre settimane da quando lei aveva scoperto che Natsu, con Lisanna, ci aveva fatto l’amore. Che Natsu non era più un bambino.
    Al di là del litigio, che alla fine si era comunque risolto con un abbraccio e la silenziosa promessa di non urlarsi mai più addosso, Lucy non riusciva a smettere di chiedersi perché Natsu non le avesse confessato di non essere più vergine fin da subito. Certo, si trattava di una cosa intima, personale, ma anche la loro amicizia lo era! Insomma, erano anni che si confidavano l’un l’altro segreti, paure, dubbi, speranze, sogni. Perché Natsu, all’improvviso, aveva deciso di nasconderle un dettaglio così importante? Se Lucy fosse stata al posto suo, se con Loki – il suo ragazzo delle superiori – si fosse spinta oltre i baci, era certa che la prima persona a cui l’avrebbe raccontato sarebbe stato proprio Natsu, suo confidente, suo complice… Senza contare che Lucy non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Natsu e Lisanna nudi, abbracciati l’uno all’altro nel letto di lui, né a scacciare il senso di dispiacere e amarezza che quell’immagine era in grado di procurarle alla bocca dello stomaco. La verità era che Lucy aveva scoperto di essere tremendamente, inspiegabilmente gelosa del suo migliore amico, e che da giorni combatteva contro quel nuovo, potente e spiacevole sentimento che forse sarebbe stato meglio nascondere per il bene della sua amicizia con Natsu, amicizia che già una volta si era ritrovata a barcollare pericolosamente.
    Avvolta nel suo elegante vestito rosso, Lucy seguì Zeref e Igneel fino a raggiungere Natsu che muoveva una mano da lontano per attirare la loro attenzione. Con addosso quegli abiti così formali, sembrava un uomo di tutto rispetto, maturo, bello, affascinante.
    «Ce ne avete messo di tempo, eh!», esclamò Natsu raggiante quando fu accerchiato dai tre.
    «È colpa di Lucy», specificò Igneel scherzosamente. «Quando siamo andati a prenderla, ci ha fatto aspettare mezz’ora perché doveva finire di farsi bella».
    Lucy arrossì. In generale non era una che si agghindava molto, ma in quell’occasione aveva dato il meglio di se stessa per cercare di rendere il suo viso più luminoso attraverso il trucco e mettere in risalto le sue curve attraverso un bel vestito. E quando Natsu, incoraggiato dalla spiegazione di Igneel, indugiò un po’ più del dovuto sulle sue labbra lucide di rossetto, Lucy non poté fare a meno di sentirsi soddisfatta e lusingata per quella silenziosa attenzione.
    «Ma bando alle ciance!», esclamò all’improvviso Igneel. «Sbrighiamoci se vogliamo trovare posto!». E così dicendo, l’uomo si allontanò seguito dal figlio maggiore lasciando Natsu e Lucy da soli, alle prese con un imbarazzante silenzio.
    Lucy fece finta di sistemarsi alcune pieghe del vestito. «Allora, sei pronto?».
    «Sì… credo». Natsu si grattò la testa con un sorriso e in quel momento a Lucy parve tornare l’innocente ragazzino che era stato prima di cominciare l’addestramento.
    «Credi?», ribatté Lucy incredula. Natsu era sempre stato l’emblema della convinzione e dell’ottimismo. Possibile che l’idea di giurare fedeltà alla sua patria, come aveva sempre desiderato fare, gli mettesse ansia?
    «È che… è accaduto tutto così velocemente che a malapena me ne sono accorto».
    A quel punto, Lucy mise da parte tutto ciò che di negativo era successo tra loro, tutto ciò che di strano e nuovo aveva scaturito in lei il loro litigio, per ritrovare la vera essenza della loro amicizia: sostenersi l’un l’altro. Avvicinandosi maggiormente a Natsu, Lucy gli posò entrambe le mani sul viso incatenando i loro sguardi. Gli occhi di Natsu erano appena sgranati, luminosi, colmi di sorpresa per quel gesto intimo ma anche di qualcosa che Lucy al momento non riusciva a identificare.
    «Andrà tutto bene, Natsu», sussurrò con un sorriso ad un palmo dal suo naso.


    Fu in quel momento che Natsu, forse a causa dell’euforia per l’occasione tanto importante o forse a causa dell’agitazione per quella pericolosa quanto piacevole vicinanza che ormai popolava da giorni i suoi sogni, perse completamente il controllo di se stesso. Quasi senza accorgersene, si ritrovò a fissare insistentemente le labbra rosse, carnose e terribilmente invitanti di Lucy che sembravano protendere verso di lui, chiedendosi se fossero morbide come apparivano o quale sapore avessero.
    L’attimo dopo, Natsu quelle stesse labbra le stava baciando. Non un bacio intenso, passionale, ma un tocco lieve, appena accennato, eppure capace di rimescolargli tutto all’altezza dello stomaco.
    Lucy, dapprima pietrificata per quel gesto, lo spinse via premendogli le mani sul petto con forza e contemporaneamente indietreggiò come se si fosse appena scottata.
    «N-Natsu…», disse con gli occhi spalancati per lo stupore e una mano a coprire la bocca.
    «Lucy...».
    Natsu si rese conto di ciò che aveva fatto solo in quel momento. Non sapeva assolutamente cosa dire (scusarsi? inventare una giustificazione?), ma fortunatamente ci pensò lo squillo delle trombe, segno che il giuramento stava per iniziare, a salvarlo da quella situazione così assurda… o almeno momentaneamente. Perché era certo di aver appena messo un punto alla sua lunga amicizia con Lucy e che da quel momento le cose tra loro due non sarebbero più state le stesse.
    Si era rovinato con le sue stesse mani, ma la cosa peggiore era che non se ne trovava nemmeno pentito, che l’avrebbe rifatto anche cento volte pur di sentire il sapore delle labbra di Lucy impresso sulle proprie e il suo profumo delicato direttamente nelle narici.

    ***



    Allo squillo delle trombe, mentre anche i familiari più ritardatari raggiungevano i posti adibiti al pubblico per assistere alla cerimonia, tutti i militari che quel giorno avrebbe dovuto giurare si sistemarono ordinatamente al centro del piazzale: indossavano la stessa uniforme verde e lo stesso copricapo nero, e sorreggevano un fucile in verticale con la mano destra coperta dal guanto bianco.
    Quando la banda cessò di suonare la musica d’apertura, fu il Caporale Gildarts Clive a prendere parola al microfono. In primis salutò e ringraziò le famiglie per aver deciso di assistere alla cerimonia, poi si rivolse ai suoi soldati con sguardo fiero e voce solenne.
    «Giurandi, voi siete la speranza del domani, siete la risorsa umana nuova, sana, motivata, che la nostra Nazione proietta verso le sfide del futuro, affinché siano garantite per tutti la giustizia, la pacifica convivenza, la migliore qualità della vita. Quella di oggi sarà una giornata che lascerà un segno indelebile nella vostra memoria e nei vostri cuori. A breve, con un atto solenne, vi impegnerete di fronte alla vostra coscienza come individui, come cittadini e come soldati. Quanto state per fare, determinerà non solo il vostro percorso professionale ma soprattutto il vostro essere Uomini e Donne di questo meraviglioso Paese».
    Il discorso andò avanti per diversi minuti, ma il momento di maggiore pathos arrivò nel momento in cui Clive, al cospetto della bandiera del reggimento, chiese a gran voce «Lo giurate voi?».
    Fu in quel momento che Gray, testa alta e mano stretta saldamente sul fucile, ripensò a quelle prime cinque settimane trascorse al campo d’addestramento con Natsu, Sting e tutti gli altri. Ripensò a quanto avesse faticato per convincere il burbero Clive del suo valore e per passare la valutazione intermedia con risultati decenti, a quanto si fosse impegnato per rendere fiero suo padre che ora lo guardava da lontano talmente euforico da protendersi quasi fuori dalla sedia a rotelle. Nonostante fosse ormai vecchio, stanco e malato, Silver Fullbuster appariva ancora come l’emblema della carriera militare: un’intera vita dedicata alla patria, al sacrificio fisico e mentale, dove l’amore aveva tentato (invano) di attecchire e poi ne era stato completamente escluso.
    Ma era questo ciò che Gray voleva? Intraprendere un lavoro che molto probabilmente gli avrebbe risucchiato ogni energia vitale, che non gli avrebbe permesso di costruire una relazione solida o che peggio ancora lo avrebbe portato al divorzio e alla paralisi come era avvenuto per suo padre?
    Talmente sovrappensiero da dimenticare dove si trovasse e cosa stesse facendo, Gray tornò con i piedi per terra solo nel momento in cui i volontari ruppero improvvisamente il silenzio rispondendo in coro «Lo giuro!» e diventando ufficialmente parte dell’esercito nazionale. Natsu aveva giurato, Sting aveva giurato, ogni singolo volontario del reggimento aveva giurato. Ma non Gray.
    Gray non aveva fatto in tempo.
    Una fastidiosa oppressione al petto gli mozzò improvvisamente il respiro, costringendolo a strizzare gli occhi e a piegarsi leggermente su se stesso rischiando di far cadere il fucile. E mentre Natsu gli toccava la spalla preoccupato, Clive concludeva indisturbato il suo discorso.
    «Così avete giurato di voler essere cittadini speciali, con responsabilità più grandi rispetto agli altri; vi siete impegnati ad essere dei Soldati. Spirito di sacrificio, lealtà, coraggio, onestà e disciplina dovranno essere gli elementi guida delle vostre decisioni ed azioni nel servizio quotidiano come negli eventi eccezionali».
    Eppure, Gray non poteva fare a meno di pensare che lui, quel bel discorso e quella sincera fiducia non li meritava. Perché, anche se nessuno se ne era accorto, lui non aveva giurato, né ad alta voce né dentro di sé, e per un uomo votato alla sua patria non c’era cosa più spregevole che sottrarsi a tale giuramento.
    Se solo Silver lo avesse scoperto, probabilmente l’avrebbe diseredato dal ruolo di figlio.







    *RAV: Reggimento Addestramento Volontari

    Note dell'autrice:
    Sono felicissima di essere stata puntuale con l'aggiornamento, ho ritrovato molta ispirazione per questa storia e spero di avere abbastanza tempo per continuarla in modo più o meno regolare.
    Ho pensato di risparmiarvi la prova intermedia al termine delle prime 5 settimane di addestramento perchè sarebbe stata troppo tecnica e quindi noiosa, mentre il giuramento è un'ottima occasione di rivedere le nostre quasi coppie unite. Di questo capitolo, mi preme focalizzare l'attenzione su ciò che è successo a Gray: non ha giurato ad alta voce perchè troppo preso dai suoi pensieri e questa è l'ennesima prova dei suoi dubbi riguardo la carriera militare (dubbi che ho già presentato fin dal primo capitolo). Come ne uscirà il nostro Gray?
    Nel prossimo capitolo #14. Il giuramento (parte 2), vedremo ancora la NaLu alle prese con ciò che è avvenuto in questo capitolo, la StingYu che oggi non ho trattato e forse anche un po' di Gruvia con Lyon di mezzo.
    Alla prossima! Conto di aggiornare tra Capodanno e la Befana.
    Soly Dea
  11. .

    Behind every strong soldier,
    there is an even stronger woman.




    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.




    Riassunto dei capitoli precedenti
    Natsu, Gray e Sting frequentano il corso di addestramento per diventare militari.
    In occasione del primo ritorno a casa, Natsu litiga con Lucy perché turbato da un’inspiegabile attrazione nei suoi confronti, che non sembra ricambiata. I due, alla fine, fanno pace.
    Gray decide di non tornare a casa perché si vergogna dei continui rimproveri del Caporale Clive. Nel frattempo, Juvia va a fare visita al vecchio Silver e incontra Lyon, innamorato di lei.
    Sting, appena tornato a casa, viene accolto con una festicciola organizzata dai suoi amici e da Yukino. Quest’ultima passa la notte da lui (non succede nulla oltre i baci) e al mattino Sting legge per sbaglio un messaggio sul cellulare di Yukino scoprendo che Sorano è stata appena licenziata e che Yukino cercherà un lavoretto part-time.
    Luxus, Gajeel ed Erza si trovano in missione in Libano.
    Mirajane ha dimenticato di mettere nella valigia di Luxus il medaglione simbolo della loro unione e questo sembra turbare entrambi.
    Gajeel si sente per telefono con Levy grazie all’intercessione di nonna Metallicana.
    Attraverso un flashback, è emerso che Gerard ha un passato oscuro (faceva parte della gang di Acnologia), dal quale però si è liberato grazie a Erza.



    #12. L’addestramento congiunto



    Base militare di Shama, Libano ► Missione UNIFIL

    Luxus si tolse l’uniforme abbandonandola su una sedia, si fece una doccia veloce e poi si gettò a capofitto sul materasso. Certamente non era comodo e spazioso come il grande letto matrimoniale che condivideva a casa con sua moglie (e spesso anche con sua figlia), ma in tempi di guerra e dopo una giornata così sfiancante altro non poteva desiderare se non un modesto giaciglio su cui riposare le membra stanche e indolenzite.
    Era passato circa un mese dall’arrivo in Libano e fortunatamente al momento la situazione sembrava piuttosto stabile. Alcune giornate – quelle meno impegnative – scorrevano in maniera talmente lenta da risultare estenuante, altre – molto più intense e frenetiche – volavano via quasi senza che se ne accorgesse.
    Monitorare la cessazione delle ostilità tra Libano e Israele, supportare le Forze Armate Libanesi e sostenere la popolazione civile del Sud: erano queste le funzioni principali della missione UNIFIL continuamente propagandate dai telegiornali. La prima e la terza, le più semplici, erano già in corso: da una parte, numerosi VTT corazzati svolgevano quotidianamente pattugliamenti nei pressi della Blue Line, la linea di demarcazione tra Libano e Israele, alla ricerca di eventuali pericoli da stroncare sul nascere; dall’altra parte, si cercava di migliorare le condizioni di vita della popolazione locale attraverso finanziamenti, donazioni, interventi per le infrastrutture civili, assistenza medica e infermieristica e molto altro ancora.
    La seconda funzione della missione, la più difficile, sarebbe stata messa in pratica a partire dall’indomani grazie ad un programma di addestramento congiunto tra i militari libanesi e le forze UNIFIL, un addestramento che avrebbe richiesto sforzo comune e grande collaborazione da entrambe le parti al fine di migliorare il controllo e la sicurezza interna del territorio.
    Luxus si voltò su un fianco e chiuse gli occhi: se voleva guidare i suoi uomini al successo, aveva bisogno di riposare e riacquistare le forze. In un gesto istintivo, si portò una mano al petto per tastare il medaglione ma ovviamente non lo trovò.
    «Dai, non è una tragedia», aveva cercato di tranquillizzare Mirajane quando lei lo aveva chiamato al telefono per avvisarlo della sua (ennesima) dimenticanza con tono estremamente allarmato. «Me lo darai appena tornerò in licenza».
    Ma la verità era che nemmeno Luxus si sentiva completamente a suo agio senza quel portafortuna legato al collo durante la notte. Mirajane glielo consegnava prima di ogni missione, come se quel ciondolo avesse il potere di proteggerlo, e poi se lo riprendeva non appena tornava a casa con qualche anno di vita in meno e qualche cicatrice in più.
    Luxus non ricordava esattamente quando fosse iniziato quel particolare “scambio” (da fidanzati? da sposati?), ma aveva ben impresso nella mente un momento preciso in cui quel medaglione aveva assunto per lui un significato davvero speciale.

    Non appena Luxus si chiuse la porta alle spalle annunciando «Sono a casa», Mirajane gli corse incontro sorridente e commossa di rivederlo dopo ben tre mesi di lontananza. A Luxus parve ancora più bella di come l’aveva lasciata: c’era qualcosa di ancora più incantevole nei suoi grandi occhi azzurri, qualcosa di ancora più confortante nelle sue braccia pronte ad accoglierlo.
    «Sei qui», la sentì mormorare scossa dai singhiozzi mentre si aggrappava a due lembi della sua giacca, come per paura di vederlo fuggire via di nuovo. «Sei qui», ripeté Mirajane premendo la fronte contro il suo petto.
    Luxus la strinse forte a sé accarezzandole i lunghi capelli bianchi impregnati di quel dolce profumo capace di calmare il suo animo inquieto. Nel corso degli anni, il lavoro lo aveva portato lontano dai suoi cari diverse volte (per due, tre o anche quattro mesi), ma mai come quella volta aveva sentito forte e chiara la mancanza di casa e l’impellente bisogno di tornarci quanto prima. Forse perché “casa”, per lui, non equivaleva più a genitori e amici, ma a Mirajane, che era sua moglie da quasi un anno.
    «Sano e salvo come sempre», specificò Luxus quando si staccarono l’uno dall’altro e le porse la collana da lui conservata con tanta cura.
    «Tu o il medaglione?», chiese ironicamente Mirajane.
    Luxus sorrise. «Entrambi, fortunatamente».
    Quando, però, si accorse che Mirajane aveva aperto il medaglione stretto tra le sue dita e che lo stava fissando con sguardo decisamente troppo serio, Luxus ebbe davvero paura di averlo graffiato e di non essersene accorto. «C’è qualcosa che non va, Mira?», chiese sporgendosi verso di lei.
    Mirajane sollevò lo sguardo. «Credo… credo che presto dovremo cambiare questa foto».
    Luxus, gli occhi fissi sulla minuscola foto che ritraeva una giovane coppia di sposi – lei un tripudio di bianco dalla testa ai piedi, lui un uomo in divisa dall’aspetto impeccabile – si accigliò profondamente. «Cos’ha che non va questa foto?».
    «Sono incinta».
    Al suono di quelle due parole, per Luxus fu come se le pareti della casa, insieme al soffitto, al pavimento e a tutti i mobili, si fossero appena dissolti nel nulla. C’era solo Mirajane, i suoi occhi pieni d’amore e il piccolo ma ora evidente rigonfiamento all’altezza dell’addome, nascosto sotto la maglia aderente.
    Ora gli era tutto più chiaro: Mirajane avrebbe voluto sostituire la foto del loro matrimonio con una foto di loro due insieme al futuro bambino.
    «Da… da quanto?», fu tutto ciò che Luxus riuscì a spiccicare, preda di uno sconvolgimento interiore che mai avrebbe pensato di poter provare.
    «Tre mesi».
    Luxus ingoiò a vuoto. «Prima di partire, allora…».
    Mirajane annuì con un piccolo sorriso.
    «E perché non me l’hai detto prima?».
    «Non volevo che ti preoccupassi troppo».
    Luxus inspirò ed espirò a fondo cercando di riprendere il controllo di se stesso. Nemmeno in missione si era mai sentito tanto teso.
    Era stato via tre mesi senza sapere che nel ventre di sua moglie germogliava il frutto del loro amore. Si era perso la sorpresa di scoprirlo subito, la felicità di alzarsi la mattina e coricarsi la sera con il pensiero che sarebbe diventato padre. Si era perso la prima ecografia, la gioia di ascoltare il battito cardiaco e di scoprire il sesso del bambino.
    «Sai già se è maschio o femmina?».
    «Femmina».
    Ma, soprattutto, Mirajane aveva vissuto quei momenti e quelle emozioni da sola. Forse in compagnia di sua sorella e di suo fratello, ma comunque senza il padre di sua figlia.
    «Come la chiameremo?», chiese ancora Luxus.
    Di colpo, Mirajane si trasformò nella sua versione diavolessa, come la definiva scherzosamente Luxus quando si arrabbiava particolarmente: fronte aggrottata, occhi ridotti a due fessure, labbra strette e mani a pugno.
    «LUXUS, MA INSOMMA!».
    Il militare fissò stranito la moglie rossa di rabbia. Cosa le era preso tutto d’un tratto? Se la situazione non fosse stata così delicata, si sarebbe messo a ridere di fronte a quell’angelo che al momento si spacciava per demonio.
    «Sei felice sì o no?!», sbottò Mirajane fulminandolo con lo sguardo.
    Luxus si rese conto che, effettivamente, era rimasto così scioccato dalla lieta notizia – giunta in modo estremamente veloce e inaspettato – che non aveva ancora esternato i suoi sentimenti a riguardo.
    Doveva assolutamente rimediare.
    Con uno scatto repentino, tirò Mirajane verso di sé e la strinse tra le proprie braccia in modo talmente forte da temere di farle male. E tanta fu la sua irruenza ed euforia che addirittura la sollevò da terra di qualche centimetro.
    «Maiya…», mormorò Mirajane al suo orecchio, la voce spezzata dalla commozione per quell’improvviso cambio d’umore. «Ho sempre voluto una figlia di nome Maiya».
    «Vada per Maiya, allora».
    Non era un uomo di molte parole, Luxus, per cui gli venne naturale baciare Mirajane sulle labbra imprimendo in quel contatto tutto l’amore che provava per lei e tutto l’amore che già sentiva di provare per la loro piccola Maiya. Sarebbe stata albina come sua madre o bionda come suo padre? Avrebbe avuto grandi occhioni azzurri? Sarebbe stata dolce e premurosa, o coraggiosa e agguerrita?
    E lui, lui che portava la guerra impressa nel cuore e anche sul corpo, sarebbe stato un bravo papà? Almeno ci avrebbe provato con tutto se stesso. Per il momento, tutto ciò che poteva fare era aspettare con pazienza che quello scricciolo venisse al mondo e nel frattempo godersi finalmente le attenzioni della sua adorata mogliettina.
    Il bacio che ne scaturì fu un incontro di labbra e di lingue tanto atteso e tanto desiderato, capace di far capitolare entrambi. Quando poi Mirajane, stretta al petto del marito, sollevò anche le gambe allacciandogliele alla vita, Luxus non resistette alla voglia di far scivolare le mani sul fondoschiena tornito e tastarle i glutei da sopra la gonna. All’improvviso quei tre lunghi mesi di astinenza – lontano dalle labbra soffici di Mirajane, dal suo petto morbido e dal suo grembo caldo e accogliente – gli piombarono addosso come una doccia bollente.
    «Mira…», sussurrò Luxus, avvertendo i pantaloni cominciare a stringere all’altezza del cavallo.
    «Possiamo ancora divertirci», lo rassicurò Mirajane con sguardo furbo. «Ho già chiesto al dottore».
    E quello bastò affinché Luxus partisse a passo di carica per la camera da letto con tutta l’intenzione di festeggiare – ovviamente con la dovuta delicatezza – tanto il suo ritorno a casa quanto la lieta, lietissima notizia che da quel momento “casa” avrebbe significato Mirajane… e anche Maiya.

    Luxus sorrise immerso in quel ricordo così nitido e prezioso, quasi impresso sulla sua pelle.
    Il medaglione, ora, non conteneva più la foto di due giovani sposini, ma il ritratto di un’allegra famiglia felice. Eppure, nonostante per lui quel portafortuna fosse tanto importante, proprio non riusciva a incolpare Mirajane per la sua dimenticanza… Era qualcosa che sarebbe potuta capitare a chiunque. Sperava solo che il medaglione fosse in grado di vegliare su di lui anche da lontano, legato al collo di sua moglie anziché al proprio.
    E con quei pensieri Luxus si addormentò, cullato dalla brezza tiepida di una notte autunnale libanese.

    ***



    Addestramento congiunto. Nonostante l’espressione suonasse piuttosto bene e promettesse grandi cose, Erza non era poi così entusiasta all’idea di collaborare con i militari libanesi. Non perché avesse qualcosa contro di loro, ma perché aveva sempre preferito lavorare da sola, in maniera indipendente. La cooperazione non era tra le sue doti migliori.
    Ignorando palesemente le sue proteste, il generale Dreyar l’aveva comunque inserita nel gruppo di supervisione dell’addestramento perché «Sei Titania, sei uno dei soldati migliori che abbiamo» ed Erza non aveva potuto ribattere.
    Fu così che, quella mattina, si ritrovò insieme ai suoi colleghi in un ampio spiazzo sterrato poco lontano dalla base militare che da quel momento in poi avrebbe assunto la funzione di campo d’addestramento. “Come se non fossi già stata addestrata come si deve” pensò sbuffando. E a giudicare dalle facce accigliate dei militari libanesi che attendevano disposizioni sul da farsi, nemmeno loro dovevano essere particolarmente felici di venire addestrati da e con le forze armate UNIFIL.
    Il fatto era che ne avevano urgentemente bisogno. Si vociferava infatti che l’ostilità tra Libano e Israele sarebbe potuta sfociare a breve in un nuovo scontro sulla questione del confine marino: Israele aveva unilateralmente fissato una demarcazione delle proprie acque che invadeva per vari metri quelle libanesi e il motivo sembrava essere la scoperta di un giacimento di gas naturale sul fondale, forse il più grande dell’area. Bisognava mobilitarsi al più presto per far sì che i militari libanesi fossero pronti al nuovo scontro.
    Nel frattempo, il generale Dreyar, affiancato dalla sua controparte a capo delle forze libanesi e dall’interprete che si sarebbe occupato di mediare i rapporti tra le due fazioni, aveva cominciato a dare direttive sull’addestramento: «Si tratterà di esercizi di check-point, perquisizioni veicolari e personali, controllo areale e puntuale, difesa personale ed evacuazione medica…».
    L’interprete, un uomo dai lineamenti molto fini che Erza conosceva con il nome di Freed Justine, traduceva ogni tre/quattro frasi in perfetto arabo, mimandone l’accento, il ritmo e l’intonazione come fosse la sua lingua madre.
    «Oggi cominceremo con una simulazione», proseguì Luxus. «L’esfiltrazione di un ferito, cioè il processo di rimozione di un ferito da situazioni ostili o pericolose affinché sia condotto al sicuro».
    Esfiltrazione di un ferito.
    Quelle parole rimbombarono nella mente di Erza come un’eco in lontananza e suonarono molto, molto peggio di “addestramento congiunto”. Forse perché, anni prima, aveva assistito ad una vera esfiltrazione di feriti. Non una simulazione, non un esercizio di addestramento, ma un’esperienza reale, terribile, che l’aveva segnata profondamente.

    Erza guidava verso casa, la divisa addosso e i capelli acconciati in un perfetto chignon. Aveva da poco terminato il suo primo anno di addestramento e non vedeva l’ora di tornare all’orfanotrofio nel quale aveva trascorso la sua adolescenza per raccontare tutto al caro Makarov, che le aveva fatto da padre in tutti quegli anni.
    Dopo la curva, Erza arrivò dietro una lunga fila di macchine e notò in fondo alla strada la sirena luminosa di un’ambulanza. Doveva esserci stato un incidente piuttosto grave.
    Ad una ad una, le macchine facevano inversione e tornavano indietro, e così avrebbe fatto anche Erza se, arrivando di fronte all’auto e alle tre moto coinvolte nell’incidente, non avesse notato che una di esse – quella più malridotta – era in tutto e per tutto uguale a quella di Gerard.
    “Non può essere” pensò cercando di mandare giù il fastidioso nodo che sentiva in gola, ma non resistette al bisogno di accostarsi al lato della strada e scendere dall’auto per accertarsi che quella non fosse davvero la moto di Gerard. Tenendo d’occhio gli infermieri che trasportavano i feriti sulle barelle all’interno dell’ambulanza, Erza raggiunse un poliziotto, un uomo basso dalla folta chioma arancione e dal viso squadrato.
    «Ehm, mi scusi…».
    «Agente Ichiya, al suo servizio», rispose l’uomo facendole l’occhiolino ed esibendosi in una strana posa che Erza cercò di ignorare.
    «Posso sapere cos’è successo?».
    «Siamo appena arrivati, in realtà. È in corso l’esfiltrazione dei feriti. Dovrebbe sapere di cosa parlo, no?», le disse il poliziotto ammiccando alla sua divisa.
    Esfiltrazione dei feriti. Erza ricordava di aver fatto una simulazione al centro d’addestramento.
    «Senta, ho paura di conoscere una delle persone coinvolte e volevo sapere se…».
    «Stia tranquilla», cercò di rassicurarla il poliziotto. «Sono sicuro che una signorina per bene come lei e con un parfum buono come il suo, non ha nulla a che fare con la banda di teppisti che ha provocato tutto questo».
    Inviperita dall’atteggiamento fin troppo leggero del poliziotto, Erza si chinò verso di lui e lo afferrò per la collottola trafiggendolo con lo sguardo. «Mi dica i nomi dei feriti», disse minacciosa. «Ora».
    Ichiya sussultò spaventato. «M-mi pare che ci sia un certo Acnologia o qualcosa del genere, e poi…».
    «Gerard Fernandes, il figlio del pasticcere di Crime Sorciere!», urlò Erza scuotendo il poliziotto per le spalle. «C’è anche lui?!».
    «S-sì, credo di averlo intravist-».
    Con il cuore in gola, Erza mollò Ichiya e in poche, veloci falcate attraversò il tratto di strada in cui era avvenuto l’incidente ignorando le proteste del poliziotto che la pregava di tornare subito indietro. L’auto coinvolta aveva tutto il parabrezza schiacciato, mentre le moto giacevano per terra mezze frantumate.
    «GERARD!», urlò Erza sgomitando tra gli infermieri che le bloccavano la strada per poter balzare sull’ambulanza.
    Il corpo di Gerard giaceva inerme sulla barella. Dalla fronte colava sangue denso fino agli occhi chiusi confondendosi con il tatuaggio che gli attraversava metà del viso, mentre altre ferite e contusioni spiccavano sulle braccia e sulle gambe coperte dai vestiti lacerati in più parti.
    «G-Gerard…», esalò Erza muovendo a fatica le gambe tremanti verso la barella e sentendo le lacrime pizzicare fastidiosamente agli angoli degli occhi.
    «Signorina, è una sua parente?», le chiese un’infermiera posandole una mano sulla schiena.
    «A-amica», sussurrò Erza accasciandosi per terra, totalmente priva di forze.
    «La portiamo con noi, allora», concluse l’infermiera. «Abbiamo provato a chiamare il padre del ragazzo, ma non risponde».
    Le porte dell’ambulanza si chiusero ed Erza assistette impotente alle procedure di soccorso maledicendo tanto il giorno in cui Gerard aveva iniziato a rovinarsi con le sue stesse mani, tanto quello in cui si era accorta di tenere a lui molto più di quanto pensasse.
    Il tragitto verso l’ospedale fu molto rapido. Facendosi strada tra pazienti, infermieri e dottori, Erza seguì la barella di Gerard che veniva trasportata per i corridoi bianchi dell’edificio, per poi vederla sparire dietro una porta dalla quale sicuramente non sarebbe uscito tanto presto.
    Non potendo stare accanto a Gerard, ad Erza non rimase altro che accasciarsi su una sedia in sala d’attesa, aspettare e sperare che tutto andasse per il meglio.
    Dopo alcune ore che sembrarono durare un’eternità, una dottoressa dai capelli rosa e dal viso gentile uscì dalla sala di Gerard seguita da un paio di infermieri. Erza scattò dalla sedia quasi urlando un «COME STA?» che rimbombò in tutto il corridoio.
    «Qualche contusione, qualche costola rotta e un leggero trauma cranico, ma se la caverà», rispose la dottoressa accennando un sorriso contornato di rughe. «Se vuole, può entrare».
    Erza si asciugò gli occhi umidi con il dorso della mano. «Grazie».
    La dottoressa annuì e si allontanò. Erza entrò nella sala chiudendosi silenziosamente la porta alle proprie spalle. Gerard riposava con la testa fasciata e altre bende sul resto del corpo, il suo viso era una maschera di stanchezza e sofferenza. Mai ad Erza era successo di sentire le gambe tremare, ma si fece forza e avvicinò una sedia al letto per sedersi accanto a Gerard.
    Gli prese una mano e la strinse nelle sue, poi altro non le rimase da fare se non poggiare la testa sul materasso accanto al fianco di Gerard e chiudere gli occhi.
    Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma ad un certo punto fu Gerard stesso a svegliarla.
    «Non saresti dovuta venire».
    Sollevando la testa, Erza notò che Gerard fissava indifferente la finestra. Poi, rendendosi conto che gli stava ancora stringendo la mano, Erza arrossì di botto e ritirò la propria mano come scottata.
    Da una parte era sollevata che Gerard avesse almeno un filo di voce per parlare, ma dall’altra era delusa dalle sue parole. «È così che mi ringrazi per esserti stata accanto?».
    «Non devi immischiarti nei miei guai, lo dico per il tuo bene», spiegò Gerard, l’espressione contratta in una smorfia di dolore mentre cercava di mettersi a sedere.
    «Fermo…». Erza gli bloccò le spalle per farlo tornare giù e così si ritrovò a pochi centimetri dal viso pallido e sofferente di Gerard che continuava a fissare la finestra. Erza, in cuor suo, se ne dispiacque: cosa ci trovava Gerard di tanto interessante in quella dannata finestra da non voler incrociare il suo sguardo nemmeno per sbaglio?
    «Guardami», lo implorò Erza, premendogli una mano sulla guancia fino a fargli voltare il viso verso di lei. I loro occhi si incrociarono per la prima volta da quando Erza era lì dentro: quelli di Gerard erano colmi di una tremenda malinconia ed Erza pensò che avrebbe tanto voluto spazzargliela via, per vederlo tornare il ragazzino innocente e allegro di un tempo.
    Ma quel Gerard sembrava scomparso, come risucchiato dalle grinfie di Acnologia.
    «Quando la smetterai di farti del male da solo?», gli chiese esasperata, la mano ancora premuta sulla sua guancia. «Oggi ti è andata bene, ma domani…».
    L’espressione di Gerard non fece una piega. «Perché, Erza?», la interruppe.
    «Perché cosa?».
    «Perché ti preoccupi tanto per me?».
    «Lo sai benissimo perché».
    Perché era da anni che vegliavano l’uno sull’altro spinti da un sentimento reciproco nato in tenera età che non erano mai riusciti a confessarsi, forse per paura o per timidezza, forse perché si erano convinti che stare lontani l’uno dall’altro sarebbe stato meglio per entrambi. L’una conduceva un lavoro pieno di sacrifici dove c’era poco spazio per i sentimenti, l’altro si era ritrovato in un giro poco raccomandabile da cui sarebbe stato meglio tenere lontana qualsiasi brava ragazza.
    «Erza», sussurrò Gerard implorante. «Non complicarmi le cose, ti prego».
    Ma ad Erza le cose semplici non era mai piaciute, perciò fu con uno slancio di coraggio e con un velo di rossore sulle guance che si chinò sul viso di Gerard e posò le labbra sulle sue.
    Gerard sgranò impercettibilmente gli occhi: non si oppose, ma nemmeno ricambiò.
    «Torna in te, Gerard», soffiò Erza sulle sue labbra. «E poi vieni da me».
    Rimasero così, occhi negli occhi, fino a quando l’arrivo dell’infermiere non li separò.
    Erza tornò il giorno dopo e quello dopo e quello dopo ancora. Non parlarono di quel bacio e di ciò che si erano detti, anzi, non parlarono affatto. Erza si limitava a stargli accanto, Gerard a fissare la finestra incapace di sostenere il suo sguardo.
    «Grazie», fu l’unica parola che lui le rivolse quando fu dimesso dall’ospedale e poté tornare a casa.
    Erza non lo vide più per parecchio tempo. Non sapeva ancora che quel bacio avrebbe cambiato per sempre le sorti di entrambi e che Gerard, nel frattempo, stava davvero cercando di tornare in sé per essere degno di stare al suo fianco.

    «Tenente Scarlett», la voce tuonante di Dreyar la riportò alla realtà. «Ci vuole dare una dimostrazione pratica?».
    «Eh…?».
    «L’esfiltrazione di un ferito», la rimbeccò il generale con tono di rimprovero.
    Erza rinsavì tutta d’un tratto. «S-subito!», esclamò scattando sull’attenti.
    Doveva proprio smetterla di sognare Gerard ad occhi aperti, altrimenti prima o poi Dreyar l’avrebbe rimandata a casa. E se non fosse stato per i soldi e per la sua reputazione, la cosa non le sarebbe dispiaciuta poi così tanto…
    “Mi sto davvero rammollendo” fu l’ultimo pensiero di Erza accompagnato da un sorriso, prima di prepararsi a soccorrere un vecchio e tutt’altro che realistico manichino sotto gli occhi dei suoi colleghi libanesi.

    ***



    L’addestramento congiunto era davvero una minaccia per la sua sanità mentale. Dopo essersi sottomesso per anni ed anni alla volontà dei vertici militari per prepararsi ad entrare nell’esercito ed ottenere un posto fisso, ecco che la parola “addestramento” tornava a tormentargli la vita. La cosa più fastidiosa, però, era quel “congiunto”: i militari libanesi con i quali bisognava collaborare lo fissavano in mono strano, alcuni con aria intimorita, altri con fare minaccioso. E pensare che non l’avevano nemmeno visto nelle sue vere vesti, con gli orecchini, i piercing, la voglia di fare a pugni e tutto il resto…
    Sarebbero stati cinque mesi lunghi e difficili, pensò Gajeel mentre prendeva parte ad una simulazione di esfiltrazione di un ferito insieme al tenente Scarlett e a qualche altro collega. Perché poi dovesse mettersi a soccorrere un ferito proprio lui che di assistenza medica non ne sapeva nulla, proprio non l’aveva capito. Avrebbe preferito di gran lunga dare una dimostrazione pratica dello sminamento dei campi armati, procedura in cui eccelleva e con la quale si trovava molto più a suo agio, ma il generale Dreyar aveva dato precise disposizioni: «La forza bruta non è tutto, sergente Redfox. In battaglia potresti anche aver bisogno di soccorrere un tuo collega». E di certo Gajeel non era così così stupido da tirarsi indietro, dato che si era già beccato una prima ramanzina il giorno dell’arrivo in Libano a causa di una mezza rissa con Bloodman. Per questo, testa bassa e pugni stretti, Gajeel aveva fatto il suo dovere sperando che quella giornata così inutile e fastidiosa finisse al più presto.
    A cena, però, quella stessa giornata sembrò prendere una piega decisamente più… piacevole. Dimaria Yesta, una delle poche donne del loro reparto e una delle tante che già si era scopato, sembrava divorarlo con gli occhi. Gajeel conosceva bene quello sguardo, era lo sguardo voglioso di una donna che voleva prendersi una pausa dal lavoro e divertirsi un po’. E chi era lui per vietarle un tale svago?
    Dopo cena, infatti, attraversando il corridoio vuoto, Gajeel se la ritrovò alle proprie spalle.
    «Redfox», lo chiamò Dimaria con voce melliflua. «Che fai di bello?».
    Gajeel la squadrò dalla testa ai piedi: per quanto Dimaria si sforzasse di legare i selvaggi capelli dorati in una coda e di coprire i fianchi torniti con i pantaloni della tuta militare come ogni donna soldato che si rispetti, proprio non ce la faceva a non indossare canotte sottili e aderenti che mettessero in risalto quel seno abbondante che Gajeel aveva già ispezionato un paio di volte durante altre missioni.
    «Me ne vado a letto», rispose con un ghigno. «Vuoi unirti a me?».
    E tra sguardi maliziosi, palpate e baci lascivi, i due si ritrovarono avvinghiati l’uno all’altro nella stanza di Gajeel, le bocche che sembravano risucchiarsi a vicenda con avidità e i vestiti che cadevano silenziosamente ai loro piedi. Quando Gajeel sbatté Dimaria contro il muro sentendo quelle forme nude, generose e accoglienti, aderire al suo corpo marmoreo e alla sua erezione pulsante, si rese conto che era da tanto – troppo – tempo che non faceva sesso e che gli era parecchio mancato. Presto avrebbe afferrato i fianchi di Dimaria e avrebbe affondato in lei con irruenza, più e più volte, facendole provare il più bel sesso della sua vita.
    Sì, Gajeel lo avrebbe fatto subito se solo non si fosse soffermato a pensare a come sarebbe stato stringere tra le mani, al posto dei seni grossi e del culo rotondo di Dimaria, un paio di seni piccoli ma stuzzicanti e un culetto altrettanto piccolo ma sodo. Affondare lentamente e gradualmente in un corpo minuto ma invitante godendo di uno sguardo imbarazzato ed eccitato, ben diverso da quello sporco e provocante di Dimaria, e di guance rosse come mele mature, che nulla avevano a che fare con quelle totalmente prive di pudore della sua scopamica.
    «Gajeel!».
    «Che c’è?».
    «Che cazzo ti prende?!».
    Solo allora Gajeel si rese conto che per qualche attimo aveva immaginato – desiderato – di avere Levy e non di Dimaria sotto di sé: di divorarle la bocca, infilarle prepotentemente la lingua in gola e spingere in lei sempre più forte fino a farla urlare il suo nome. E che quelle fantasie lo avevano eccitato più del corpo nudo di Dimaria pronto ad accoglierlo.
    Con un colpo di reni, Gajeel penetrò la soldatessa all’improvviso mozzandole il fiato, ma in cuor suo continuò a immaginare di muoversi e godere insieme a Levy.
    Ora Gajeel ne era davvero certo: nei dieci giorni di licenza in cui sarebbe tornato a casa, lui e la sua vicina di appartamento – al momento impegnata ad occuparsi del suo gatto – avrebbero avuto parecchio da… raccontarsi.










    Note dell'autrice:
    Non aggiorno da 3 MESI, ma spero che con questo capitolo ne sia valsa la pena aspettare. I dati sulla missione in Libano e sull'addestramento congiunto, come ben sapete, sono reali perchè mi sono informata per bene.
    Non ho molto altro da dire, se non che ovviamente Dimaria mi serviva solo per mettere in evidenza l'attrazione di Gajeel per Levy, ma credo che non la incontreremo quasi più.
    Fatemi sapere cosa ne pensate <3 Nel prossimo capitolo #13. Il giuramento troveremo le coppie più giovani. Conto di aggiornare di nuovo intorno a Natale.

    Soly Dea
  12. .
    CITAZIONE (Cri cri86 @ 12/12/2019, 20:16) 
    Sì, sì, lo so che non è una competizione, ma sono fatta così quando mi butto in qualcosa di nuovo.
    Tra le altre cose ho scritto la mia prima Red Shicca 🙈 speriamo bene.

    ODDIO NON VEDO L’ORA :lucy:
  13. .
    CITAZIONE (Cri cri86 @ 12/12/2019, 19:53) 
    Anche io sono partita bene, ma ho l'ansia da prestazione ahahhaha.
    È la primissima volta che partecipo a una challenge.

    Tranquilla Cri Cri, non è un contest con un vincitore, ma un’iniziativa per il puro piacere di scrivere :perona: E poi come si fa a non amare le tue storie?!
  14. .
    Io purtroppo non ho scritto ancora nulla, conto di fare tutto all’ultimo come sempre :ichiya:
  15. .
    CITAZIONE (Cri cri86 @ 5/12/2019, 23:35) 
    A proposito. Come funziona? Una volta scritte tutte le storie per la challenge, cosa bisogna fare!? Scusate ma non sono pratica.

    Devi pubblicare ciascuna storia nel giorno prestabilito. Nella giornata “Imprevisti” va pubblicata una storia che si ispira a uno dei prompt proposti, e lo stesso vale per le giornate successive. Una sorta di countdown a botta di storie 😂
817 replies since 1/2/2015
.
Top