Behind every strong soldier, there is an even stronger woman.

Long, AU → NaLu, Gruvia, Gajevy, StingYu, Miraxus, Gerza | rating rosso

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    Behind every strong soldier,
    there is an even stronger woman.




    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.




    Riassunto dei capitoli precedenti
    Natsu, Gray e Sting frequentano il corso di addestramento per diventare militari.
    In occasione del primo ritorno a casa, Natsu litiga con Lucy perché turbato da un’inspiegabile attrazione nei suoi confronti, che non sembra ricambiata. I due, alla fine, fanno pace.
    Gray decide di non tornare a casa perché si vergogna dei continui rimproveri del Caporale Clive. Nel frattempo, Juvia va a fare visita al vecchio Silver e incontra Lyon, innamorato di lei.
    Sting, appena tornato a casa, viene accolto con una festicciola organizzata dai suoi amici e da Yukino. Quest’ultima passa la notte da lui (non succede nulla oltre i baci) e al mattino Sting legge per sbaglio un messaggio sul cellulare di Yukino scoprendo che Sorano è stata appena licenziata e che Yukino cercherà un lavoretto part-time.
    Luxus, Gajeel ed Erza si trovano in missione in Libano.
    Mirajane ha dimenticato di mettere nella valigia di Luxus il medaglione simbolo della loro unione e questo sembra turbare entrambi.
    Gajeel si sente per telefono con Levy grazie all’intercessione di nonna Metallicana.
    Attraverso un flashback, è emerso che Gerard ha un passato oscuro (faceva parte della gang di Acnologia), dal quale però si è liberato grazie a Erza.



    #12. L’addestramento congiunto



    Base militare di Shama, Libano ► Missione UNIFIL

    Luxus si tolse l’uniforme abbandonandola su una sedia, si fece una doccia veloce e poi si gettò a capofitto sul materasso. Certamente non era comodo e spazioso come il grande letto matrimoniale che condivideva a casa con sua moglie (e spesso anche con sua figlia), ma in tempi di guerra e dopo una giornata così sfiancante altro non poteva desiderare se non un modesto giaciglio su cui riposare le membra stanche e indolenzite.
    Era passato circa un mese dall’arrivo in Libano e fortunatamente al momento la situazione sembrava piuttosto stabile. Alcune giornate – quelle meno impegnative – scorrevano in maniera talmente lenta da risultare estenuante, altre – molto più intense e frenetiche – volavano via quasi senza che se ne accorgesse.
    Monitorare la cessazione delle ostilità tra Libano e Israele, supportare le Forze Armate Libanesi e sostenere la popolazione civile del Sud: erano queste le funzioni principali della missione UNIFIL continuamente propagandate dai telegiornali. La prima e la terza, le più semplici, erano già in corso: da una parte, numerosi VTT corazzati svolgevano quotidianamente pattugliamenti nei pressi della Blue Line, la linea di demarcazione tra Libano e Israele, alla ricerca di eventuali pericoli da stroncare sul nascere; dall’altra parte, si cercava di migliorare le condizioni di vita della popolazione locale attraverso finanziamenti, donazioni, interventi per le infrastrutture civili, assistenza medica e infermieristica e molto altro ancora.
    La seconda funzione della missione, la più difficile, sarebbe stata messa in pratica a partire dall’indomani grazie ad un programma di addestramento congiunto tra i militari libanesi e le forze UNIFIL, un addestramento che avrebbe richiesto sforzo comune e grande collaborazione da entrambe le parti al fine di migliorare il controllo e la sicurezza interna del territorio.
    Luxus si voltò su un fianco e chiuse gli occhi: se voleva guidare i suoi uomini al successo, aveva bisogno di riposare e riacquistare le forze. In un gesto istintivo, si portò una mano al petto per tastare il medaglione ma ovviamente non lo trovò.
    «Dai, non è una tragedia», aveva cercato di tranquillizzare Mirajane quando lei lo aveva chiamato al telefono per avvisarlo della sua (ennesima) dimenticanza con tono estremamente allarmato. «Me lo darai appena tornerò in licenza».
    Ma la verità era che nemmeno Luxus si sentiva completamente a suo agio senza quel portafortuna legato al collo durante la notte. Mirajane glielo consegnava prima di ogni missione, come se quel ciondolo avesse il potere di proteggerlo, e poi se lo riprendeva non appena tornava a casa con qualche anno di vita in meno e qualche cicatrice in più.
    Luxus non ricordava esattamente quando fosse iniziato quel particolare “scambio” (da fidanzati? da sposati?), ma aveva ben impresso nella mente un momento preciso in cui quel medaglione aveva assunto per lui un significato davvero speciale.

    Non appena Luxus si chiuse la porta alle spalle annunciando «Sono a casa», Mirajane gli corse incontro sorridente e commossa di rivederlo dopo ben tre mesi di lontananza. A Luxus parve ancora più bella di come l’aveva lasciata: c’era qualcosa di ancora più incantevole nei suoi grandi occhi azzurri, qualcosa di ancora più confortante nelle sue braccia pronte ad accoglierlo.
    «Sei qui», la sentì mormorare scossa dai singhiozzi mentre si aggrappava a due lembi della sua giacca, come per paura di vederlo fuggire via di nuovo. «Sei qui», ripeté Mirajane premendo la fronte contro il suo petto.
    Luxus la strinse forte a sé accarezzandole i lunghi capelli bianchi impregnati di quel dolce profumo capace di calmare il suo animo inquieto. Nel corso degli anni, il lavoro lo aveva portato lontano dai suoi cari diverse volte (per due, tre o anche quattro mesi), ma mai come quella volta aveva sentito forte e chiara la mancanza di casa e l’impellente bisogno di tornarci quanto prima. Forse perché “casa”, per lui, non equivaleva più a genitori e amici, ma a Mirajane, che era sua moglie da quasi un anno.
    «Sano e salvo come sempre», specificò Luxus quando si staccarono l’uno dall’altro e le porse la collana da lui conservata con tanta cura.
    «Tu o il medaglione?», chiese ironicamente Mirajane.
    Luxus sorrise. «Entrambi, fortunatamente».
    Quando, però, si accorse che Mirajane aveva aperto il medaglione stretto tra le sue dita e che lo stava fissando con sguardo decisamente troppo serio, Luxus ebbe davvero paura di averlo graffiato e di non essersene accorto. «C’è qualcosa che non va, Mira?», chiese sporgendosi verso di lei.
    Mirajane sollevò lo sguardo. «Credo… credo che presto dovremo cambiare questa foto».
    Luxus, gli occhi fissi sulla minuscola foto che ritraeva una giovane coppia di sposi – lei un tripudio di bianco dalla testa ai piedi, lui un uomo in divisa dall’aspetto impeccabile – si accigliò profondamente. «Cos’ha che non va questa foto?».
    «Sono incinta».
    Al suono di quelle due parole, per Luxus fu come se le pareti della casa, insieme al soffitto, al pavimento e a tutti i mobili, si fossero appena dissolti nel nulla. C’era solo Mirajane, i suoi occhi pieni d’amore e il piccolo ma ora evidente rigonfiamento all’altezza dell’addome, nascosto sotto la maglia aderente.
    Ora gli era tutto più chiaro: Mirajane avrebbe voluto sostituire la foto del loro matrimonio con una foto di loro due insieme al futuro bambino.
    «Da… da quanto?», fu tutto ciò che Luxus riuscì a spiccicare, preda di uno sconvolgimento interiore che mai avrebbe pensato di poter provare.
    «Tre mesi».
    Luxus ingoiò a vuoto. «Prima di partire, allora…».
    Mirajane annuì con un piccolo sorriso.
    «E perché non me l’hai detto prima?».
    «Non volevo che ti preoccupassi troppo».
    Luxus inspirò ed espirò a fondo cercando di riprendere il controllo di se stesso. Nemmeno in missione si era mai sentito tanto teso.
    Era stato via tre mesi senza sapere che nel ventre di sua moglie germogliava il frutto del loro amore. Si era perso la sorpresa di scoprirlo subito, la felicità di alzarsi la mattina e coricarsi la sera con il pensiero che sarebbe diventato padre. Si era perso la prima ecografia, la gioia di ascoltare il battito cardiaco e di scoprire il sesso del bambino.
    «Sai già se è maschio o femmina?».
    «Femmina».
    Ma, soprattutto, Mirajane aveva vissuto quei momenti e quelle emozioni da sola. Forse in compagnia di sua sorella e di suo fratello, ma comunque senza il padre di sua figlia.
    «Come la chiameremo?», chiese ancora Luxus.
    Di colpo, Mirajane si trasformò nella sua versione diavolessa, come la definiva scherzosamente Luxus quando si arrabbiava particolarmente: fronte aggrottata, occhi ridotti a due fessure, labbra strette e mani a pugno.
    «LUXUS, MA INSOMMA!».
    Il militare fissò stranito la moglie rossa di rabbia. Cosa le era preso tutto d’un tratto? Se la situazione non fosse stata così delicata, si sarebbe messo a ridere di fronte a quell’angelo che al momento si spacciava per demonio.
    «Sei felice sì o no?!», sbottò Mirajane fulminandolo con lo sguardo.
    Luxus si rese conto che, effettivamente, era rimasto così scioccato dalla lieta notizia – giunta in modo estremamente veloce e inaspettato – che non aveva ancora esternato i suoi sentimenti a riguardo.
    Doveva assolutamente rimediare.
    Con uno scatto repentino, tirò Mirajane verso di sé e la strinse tra le proprie braccia in modo talmente forte da temere di farle male. E tanta fu la sua irruenza ed euforia che addirittura la sollevò da terra di qualche centimetro.
    «Maiya…», mormorò Mirajane al suo orecchio, la voce spezzata dalla commozione per quell’improvviso cambio d’umore. «Ho sempre voluto una figlia di nome Maiya».
    «Vada per Maiya, allora».
    Non era un uomo di molte parole, Luxus, per cui gli venne naturale baciare Mirajane sulle labbra imprimendo in quel contatto tutto l’amore che provava per lei e tutto l’amore che già sentiva di provare per la loro piccola Maiya. Sarebbe stata albina come sua madre o bionda come suo padre? Avrebbe avuto grandi occhioni azzurri? Sarebbe stata dolce e premurosa, o coraggiosa e agguerrita?
    E lui, lui che portava la guerra impressa nel cuore e anche sul corpo, sarebbe stato un bravo papà? Almeno ci avrebbe provato con tutto se stesso. Per il momento, tutto ciò che poteva fare era aspettare con pazienza che quello scricciolo venisse al mondo e nel frattempo godersi finalmente le attenzioni della sua adorata mogliettina.
    Il bacio che ne scaturì fu un incontro di labbra e di lingue tanto atteso e tanto desiderato, capace di far capitolare entrambi. Quando poi Mirajane, stretta al petto del marito, sollevò anche le gambe allacciandogliele alla vita, Luxus non resistette alla voglia di far scivolare le mani sul fondoschiena tornito e tastarle i glutei da sopra la gonna. All’improvviso quei tre lunghi mesi di astinenza – lontano dalle labbra soffici di Mirajane, dal suo petto morbido e dal suo grembo caldo e accogliente – gli piombarono addosso come una doccia bollente.
    «Mira…», sussurrò Luxus, avvertendo i pantaloni cominciare a stringere all’altezza del cavallo.
    «Possiamo ancora divertirci», lo rassicurò Mirajane con sguardo furbo. «Ho già chiesto al dottore».
    E quello bastò affinché Luxus partisse a passo di carica per la camera da letto con tutta l’intenzione di festeggiare – ovviamente con la dovuta delicatezza – tanto il suo ritorno a casa quanto la lieta, lietissima notizia che da quel momento “casa” avrebbe significato Mirajane… e anche Maiya.

    Luxus sorrise immerso in quel ricordo così nitido e prezioso, quasi impresso sulla sua pelle.
    Il medaglione, ora, non conteneva più la foto di due giovani sposini, ma il ritratto di un’allegra famiglia felice. Eppure, nonostante per lui quel portafortuna fosse tanto importante, proprio non riusciva a incolpare Mirajane per la sua dimenticanza… Era qualcosa che sarebbe potuta capitare a chiunque. Sperava solo che il medaglione fosse in grado di vegliare su di lui anche da lontano, legato al collo di sua moglie anziché al proprio.
    E con quei pensieri Luxus si addormentò, cullato dalla brezza tiepida di una notte autunnale libanese.

    ***



    Addestramento congiunto. Nonostante l’espressione suonasse piuttosto bene e promettesse grandi cose, Erza non era poi così entusiasta all’idea di collaborare con i militari libanesi. Non perché avesse qualcosa contro di loro, ma perché aveva sempre preferito lavorare da sola, in maniera indipendente. La cooperazione non era tra le sue doti migliori.
    Ignorando palesemente le sue proteste, il generale Dreyar l’aveva comunque inserita nel gruppo di supervisione dell’addestramento perché «Sei Titania, sei uno dei soldati migliori che abbiamo» ed Erza non aveva potuto ribattere.
    Fu così che, quella mattina, si ritrovò insieme ai suoi colleghi in un ampio spiazzo sterrato poco lontano dalla base militare che da quel momento in poi avrebbe assunto la funzione di campo d’addestramento. “Come se non fossi già stata addestrata come si deve” pensò sbuffando. E a giudicare dalle facce accigliate dei militari libanesi che attendevano disposizioni sul da farsi, nemmeno loro dovevano essere particolarmente felici di venire addestrati da e con le forze armate UNIFIL.
    Il fatto era che ne avevano urgentemente bisogno. Si vociferava infatti che l’ostilità tra Libano e Israele sarebbe potuta sfociare a breve in un nuovo scontro sulla questione del confine marino: Israele aveva unilateralmente fissato una demarcazione delle proprie acque che invadeva per vari metri quelle libanesi e il motivo sembrava essere la scoperta di un giacimento di gas naturale sul fondale, forse il più grande dell’area. Bisognava mobilitarsi al più presto per far sì che i militari libanesi fossero pronti al nuovo scontro.
    Nel frattempo, il generale Dreyar, affiancato dalla sua controparte a capo delle forze libanesi e dall’interprete che si sarebbe occupato di mediare i rapporti tra le due fazioni, aveva cominciato a dare direttive sull’addestramento: «Si tratterà di esercizi di check-point, perquisizioni veicolari e personali, controllo areale e puntuale, difesa personale ed evacuazione medica…».
    L’interprete, un uomo dai lineamenti molto fini che Erza conosceva con il nome di Freed Justine, traduceva ogni tre/quattro frasi in perfetto arabo, mimandone l’accento, il ritmo e l’intonazione come fosse la sua lingua madre.
    «Oggi cominceremo con una simulazione», proseguì Luxus. «L’esfiltrazione di un ferito, cioè il processo di rimozione di un ferito da situazioni ostili o pericolose affinché sia condotto al sicuro».
    Esfiltrazione di un ferito.
    Quelle parole rimbombarono nella mente di Erza come un’eco in lontananza e suonarono molto, molto peggio di “addestramento congiunto”. Forse perché, anni prima, aveva assistito ad una vera esfiltrazione di feriti. Non una simulazione, non un esercizio di addestramento, ma un’esperienza reale, terribile, che l’aveva segnata profondamente.

    Erza guidava verso casa, la divisa addosso e i capelli acconciati in un perfetto chignon. Aveva da poco terminato il suo primo anno di addestramento e non vedeva l’ora di tornare all’orfanotrofio nel quale aveva trascorso la sua adolescenza per raccontare tutto al caro Makarov, che le aveva fatto da padre in tutti quegli anni.
    Dopo la curva, Erza arrivò dietro una lunga fila di macchine e notò in fondo alla strada la sirena luminosa di un’ambulanza. Doveva esserci stato un incidente piuttosto grave.
    Ad una ad una, le macchine facevano inversione e tornavano indietro, e così avrebbe fatto anche Erza se, arrivando di fronte all’auto e alle tre moto coinvolte nell’incidente, non avesse notato che una di esse – quella più malridotta – era in tutto e per tutto uguale a quella di Gerard.
    “Non può essere” pensò cercando di mandare giù il fastidioso nodo che sentiva in gola, ma non resistette al bisogno di accostarsi al lato della strada e scendere dall’auto per accertarsi che quella non fosse davvero la moto di Gerard. Tenendo d’occhio gli infermieri che trasportavano i feriti sulle barelle all’interno dell’ambulanza, Erza raggiunse un poliziotto, un uomo basso dalla folta chioma arancione e dal viso squadrato.
    «Ehm, mi scusi…».
    «Agente Ichiya, al suo servizio», rispose l’uomo facendole l’occhiolino ed esibendosi in una strana posa che Erza cercò di ignorare.
    «Posso sapere cos’è successo?».
    «Siamo appena arrivati, in realtà. È in corso l’esfiltrazione dei feriti. Dovrebbe sapere di cosa parlo, no?», le disse il poliziotto ammiccando alla sua divisa.
    Esfiltrazione dei feriti. Erza ricordava di aver fatto una simulazione al centro d’addestramento.
    «Senta, ho paura di conoscere una delle persone coinvolte e volevo sapere se…».
    «Stia tranquilla», cercò di rassicurarla il poliziotto. «Sono sicuro che una signorina per bene come lei e con un parfum buono come il suo, non ha nulla a che fare con la banda di teppisti che ha provocato tutto questo».
    Inviperita dall’atteggiamento fin troppo leggero del poliziotto, Erza si chinò verso di lui e lo afferrò per la collottola trafiggendolo con lo sguardo. «Mi dica i nomi dei feriti», disse minacciosa. «Ora».
    Ichiya sussultò spaventato. «M-mi pare che ci sia un certo Acnologia o qualcosa del genere, e poi…».
    «Gerard Fernandes, il figlio del pasticcere di Crime Sorciere!», urlò Erza scuotendo il poliziotto per le spalle. «C’è anche lui?!».
    «S-sì, credo di averlo intravist-».
    Con il cuore in gola, Erza mollò Ichiya e in poche, veloci falcate attraversò il tratto di strada in cui era avvenuto l’incidente ignorando le proteste del poliziotto che la pregava di tornare subito indietro. L’auto coinvolta aveva tutto il parabrezza schiacciato, mentre le moto giacevano per terra mezze frantumate.
    «GERARD!», urlò Erza sgomitando tra gli infermieri che le bloccavano la strada per poter balzare sull’ambulanza.
    Il corpo di Gerard giaceva inerme sulla barella. Dalla fronte colava sangue denso fino agli occhi chiusi confondendosi con il tatuaggio che gli attraversava metà del viso, mentre altre ferite e contusioni spiccavano sulle braccia e sulle gambe coperte dai vestiti lacerati in più parti.
    «G-Gerard…», esalò Erza muovendo a fatica le gambe tremanti verso la barella e sentendo le lacrime pizzicare fastidiosamente agli angoli degli occhi.
    «Signorina, è una sua parente?», le chiese un’infermiera posandole una mano sulla schiena.
    «A-amica», sussurrò Erza accasciandosi per terra, totalmente priva di forze.
    «La portiamo con noi, allora», concluse l’infermiera. «Abbiamo provato a chiamare il padre del ragazzo, ma non risponde».
    Le porte dell’ambulanza si chiusero ed Erza assistette impotente alle procedure di soccorso maledicendo tanto il giorno in cui Gerard aveva iniziato a rovinarsi con le sue stesse mani, tanto quello in cui si era accorta di tenere a lui molto più di quanto pensasse.
    Il tragitto verso l’ospedale fu molto rapido. Facendosi strada tra pazienti, infermieri e dottori, Erza seguì la barella di Gerard che veniva trasportata per i corridoi bianchi dell’edificio, per poi vederla sparire dietro una porta dalla quale sicuramente non sarebbe uscito tanto presto.
    Non potendo stare accanto a Gerard, ad Erza non rimase altro che accasciarsi su una sedia in sala d’attesa, aspettare e sperare che tutto andasse per il meglio.
    Dopo alcune ore che sembrarono durare un’eternità, una dottoressa dai capelli rosa e dal viso gentile uscì dalla sala di Gerard seguita da un paio di infermieri. Erza scattò dalla sedia quasi urlando un «COME STA?» che rimbombò in tutto il corridoio.
    «Qualche contusione, qualche costola rotta e un leggero trauma cranico, ma se la caverà», rispose la dottoressa accennando un sorriso contornato di rughe. «Se vuole, può entrare».
    Erza si asciugò gli occhi umidi con il dorso della mano. «Grazie».
    La dottoressa annuì e si allontanò. Erza entrò nella sala chiudendosi silenziosamente la porta alle proprie spalle. Gerard riposava con la testa fasciata e altre bende sul resto del corpo, il suo viso era una maschera di stanchezza e sofferenza. Mai ad Erza era successo di sentire le gambe tremare, ma si fece forza e avvicinò una sedia al letto per sedersi accanto a Gerard.
    Gli prese una mano e la strinse nelle sue, poi altro non le rimase da fare se non poggiare la testa sul materasso accanto al fianco di Gerard e chiudere gli occhi.
    Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma ad un certo punto fu Gerard stesso a svegliarla.
    «Non saresti dovuta venire».
    Sollevando la testa, Erza notò che Gerard fissava indifferente la finestra. Poi, rendendosi conto che gli stava ancora stringendo la mano, Erza arrossì di botto e ritirò la propria mano come scottata.
    Da una parte era sollevata che Gerard avesse almeno un filo di voce per parlare, ma dall’altra era delusa dalle sue parole. «È così che mi ringrazi per esserti stata accanto?».
    «Non devi immischiarti nei miei guai, lo dico per il tuo bene», spiegò Gerard, l’espressione contratta in una smorfia di dolore mentre cercava di mettersi a sedere.
    «Fermo…». Erza gli bloccò le spalle per farlo tornare giù e così si ritrovò a pochi centimetri dal viso pallido e sofferente di Gerard che continuava a fissare la finestra. Erza, in cuor suo, se ne dispiacque: cosa ci trovava Gerard di tanto interessante in quella dannata finestra da non voler incrociare il suo sguardo nemmeno per sbaglio?
    «Guardami», lo implorò Erza, premendogli una mano sulla guancia fino a fargli voltare il viso verso di lei. I loro occhi si incrociarono per la prima volta da quando Erza era lì dentro: quelli di Gerard erano colmi di una tremenda malinconia ed Erza pensò che avrebbe tanto voluto spazzargliela via, per vederlo tornare il ragazzino innocente e allegro di un tempo.
    Ma quel Gerard sembrava scomparso, come risucchiato dalle grinfie di Acnologia.
    «Quando la smetterai di farti del male da solo?», gli chiese esasperata, la mano ancora premuta sulla sua guancia. «Oggi ti è andata bene, ma domani…».
    L’espressione di Gerard non fece una piega. «Perché, Erza?», la interruppe.
    «Perché cosa?».
    «Perché ti preoccupi tanto per me?».
    «Lo sai benissimo perché».
    Perché era da anni che vegliavano l’uno sull’altro spinti da un sentimento reciproco nato in tenera età che non erano mai riusciti a confessarsi, forse per paura o per timidezza, forse perché si erano convinti che stare lontani l’uno dall’altro sarebbe stato meglio per entrambi. L’una conduceva un lavoro pieno di sacrifici dove c’era poco spazio per i sentimenti, l’altro si era ritrovato in un giro poco raccomandabile da cui sarebbe stato meglio tenere lontana qualsiasi brava ragazza.
    «Erza», sussurrò Gerard implorante. «Non complicarmi le cose, ti prego».
    Ma ad Erza le cose semplici non era mai piaciute, perciò fu con uno slancio di coraggio e con un velo di rossore sulle guance che si chinò sul viso di Gerard e posò le labbra sulle sue.
    Gerard sgranò impercettibilmente gli occhi: non si oppose, ma nemmeno ricambiò.
    «Torna in te, Gerard», soffiò Erza sulle sue labbra. «E poi vieni da me».
    Rimasero così, occhi negli occhi, fino a quando l’arrivo dell’infermiere non li separò.
    Erza tornò il giorno dopo e quello dopo e quello dopo ancora. Non parlarono di quel bacio e di ciò che si erano detti, anzi, non parlarono affatto. Erza si limitava a stargli accanto, Gerard a fissare la finestra incapace di sostenere il suo sguardo.
    «Grazie», fu l’unica parola che lui le rivolse quando fu dimesso dall’ospedale e poté tornare a casa.
    Erza non lo vide più per parecchio tempo. Non sapeva ancora che quel bacio avrebbe cambiato per sempre le sorti di entrambi e che Gerard, nel frattempo, stava davvero cercando di tornare in sé per essere degno di stare al suo fianco.

    «Tenente Scarlett», la voce tuonante di Dreyar la riportò alla realtà. «Ci vuole dare una dimostrazione pratica?».
    «Eh…?».
    «L’esfiltrazione di un ferito», la rimbeccò il generale con tono di rimprovero.
    Erza rinsavì tutta d’un tratto. «S-subito!», esclamò scattando sull’attenti.
    Doveva proprio smetterla di sognare Gerard ad occhi aperti, altrimenti prima o poi Dreyar l’avrebbe rimandata a casa. E se non fosse stato per i soldi e per la sua reputazione, la cosa non le sarebbe dispiaciuta poi così tanto…
    “Mi sto davvero rammollendo” fu l’ultimo pensiero di Erza accompagnato da un sorriso, prima di prepararsi a soccorrere un vecchio e tutt’altro che realistico manichino sotto gli occhi dei suoi colleghi libanesi.

    ***



    L’addestramento congiunto era davvero una minaccia per la sua sanità mentale. Dopo essersi sottomesso per anni ed anni alla volontà dei vertici militari per prepararsi ad entrare nell’esercito ed ottenere un posto fisso, ecco che la parola “addestramento” tornava a tormentargli la vita. La cosa più fastidiosa, però, era quel “congiunto”: i militari libanesi con i quali bisognava collaborare lo fissavano in mono strano, alcuni con aria intimorita, altri con fare minaccioso. E pensare che non l’avevano nemmeno visto nelle sue vere vesti, con gli orecchini, i piercing, la voglia di fare a pugni e tutto il resto…
    Sarebbero stati cinque mesi lunghi e difficili, pensò Gajeel mentre prendeva parte ad una simulazione di esfiltrazione di un ferito insieme al tenente Scarlett e a qualche altro collega. Perché poi dovesse mettersi a soccorrere un ferito proprio lui che di assistenza medica non ne sapeva nulla, proprio non l’aveva capito. Avrebbe preferito di gran lunga dare una dimostrazione pratica dello sminamento dei campi armati, procedura in cui eccelleva e con la quale si trovava molto più a suo agio, ma il generale Dreyar aveva dato precise disposizioni: «La forza bruta non è tutto, sergente Redfox. In battaglia potresti anche aver bisogno di soccorrere un tuo collega». E di certo Gajeel non era così così stupido da tirarsi indietro, dato che si era già beccato una prima ramanzina il giorno dell’arrivo in Libano a causa di una mezza rissa con Bloodman. Per questo, testa bassa e pugni stretti, Gajeel aveva fatto il suo dovere sperando che quella giornata così inutile e fastidiosa finisse al più presto.
    A cena, però, quella stessa giornata sembrò prendere una piega decisamente più… piacevole. Dimaria Yesta, una delle poche donne del loro reparto e una delle tante che già si era scopato, sembrava divorarlo con gli occhi. Gajeel conosceva bene quello sguardo, era lo sguardo voglioso di una donna che voleva prendersi una pausa dal lavoro e divertirsi un po’. E chi era lui per vietarle un tale svago?
    Dopo cena, infatti, attraversando il corridoio vuoto, Gajeel se la ritrovò alle proprie spalle.
    «Redfox», lo chiamò Dimaria con voce melliflua. «Che fai di bello?».
    Gajeel la squadrò dalla testa ai piedi: per quanto Dimaria si sforzasse di legare i selvaggi capelli dorati in una coda e di coprire i fianchi torniti con i pantaloni della tuta militare come ogni donna soldato che si rispetti, proprio non ce la faceva a non indossare canotte sottili e aderenti che mettessero in risalto quel seno abbondante che Gajeel aveva già ispezionato un paio di volte durante altre missioni.
    «Me ne vado a letto», rispose con un ghigno. «Vuoi unirti a me?».
    E tra sguardi maliziosi, palpate e baci lascivi, i due si ritrovarono avvinghiati l’uno all’altro nella stanza di Gajeel, le bocche che sembravano risucchiarsi a vicenda con avidità e i vestiti che cadevano silenziosamente ai loro piedi. Quando Gajeel sbatté Dimaria contro il muro sentendo quelle forme nude, generose e accoglienti, aderire al suo corpo marmoreo e alla sua erezione pulsante, si rese conto che era da tanto – troppo – tempo che non faceva sesso e che gli era parecchio mancato. Presto avrebbe afferrato i fianchi di Dimaria e avrebbe affondato in lei con irruenza, più e più volte, facendole provare il più bel sesso della sua vita.
    Sì, Gajeel lo avrebbe fatto subito se solo non si fosse soffermato a pensare a come sarebbe stato stringere tra le mani, al posto dei seni grossi e del culo rotondo di Dimaria, un paio di seni piccoli ma stuzzicanti e un culetto altrettanto piccolo ma sodo. Affondare lentamente e gradualmente in un corpo minuto ma invitante godendo di uno sguardo imbarazzato ed eccitato, ben diverso da quello sporco e provocante di Dimaria, e di guance rosse come mele mature, che nulla avevano a che fare con quelle totalmente prive di pudore della sua scopamica.
    «Gajeel!».
    «Che c’è?».
    «Che cazzo ti prende?!».
    Solo allora Gajeel si rese conto che per qualche attimo aveva immaginato – desiderato – di avere Levy e non di Dimaria sotto di sé: di divorarle la bocca, infilarle prepotentemente la lingua in gola e spingere in lei sempre più forte fino a farla urlare il suo nome. E che quelle fantasie lo avevano eccitato più del corpo nudo di Dimaria pronto ad accoglierlo.
    Con un colpo di reni, Gajeel penetrò la soldatessa all’improvviso mozzandole il fiato, ma in cuor suo continuò a immaginare di muoversi e godere insieme a Levy.
    Ora Gajeel ne era davvero certo: nei dieci giorni di licenza in cui sarebbe tornato a casa, lui e la sua vicina di appartamento – al momento impegnata ad occuparsi del suo gatto – avrebbero avuto parecchio da… raccontarsi.










    Note dell'autrice:
    Non aggiorno da 3 MESI, ma spero che con questo capitolo ne sia valsa la pena aspettare. I dati sulla missione in Libano e sull'addestramento congiunto, come ben sapete, sono reali perchè mi sono informata per bene.
    Non ho molto altro da dire, se non che ovviamente Dimaria mi serviva solo per mettere in evidenza l'attrazione di Gajeel per Levy, ma credo che non la incontreremo quasi più.
    Fatemi sapere cosa ne pensate <3 Nel prossimo capitolo #13. Il giuramento troveremo le coppie più giovani. Conto di aggiornare di nuovo intorno a Natale.

    Soly Dea
     
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    there is an even stronger woman.




    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #13. Il giuramento (parte 1)



    Centro Addestramento Volontari ► VFP1

    Cinque settimane. Erano passate solo cinque settimane da quando Natsu aveva messo piede per la prima volta nel centro d’addestramento, eppure da quel momento erano cambiate così tante cose nella sua vita che gli sembrava fosse trascorso molto più tempo.
    Innanzitutto, aveva imparato così tanto sulla vita militare da sentirsi già pronto per partecipare ad una vera missione, cosa ovviamente impossibile per un semplice volontario del RAV*, ma prima o poi sarebbe arrivato anche il suo momento, doveva solo attendere. Inoltre, aveva appena superato con il massimo dei voti la prima valutazione intermedia delle reclute che consisteva in prove di corsa piana sui 2.000 metri, piegamenti sulle braccia, flessioni addominali, salto in alto e così via. Le successive cinque settimane, invece, avrebbero avuto carattere più tattico, comprendendo esercitazioni a fuoco e continuative, ma per il momento era meglio concentrarsi sull’imminente cerimonia del giuramento durante la quale lui e i suoi compagni avrebbero dovuto giurare fedeltà alla patria in presenza dei loro superiori, ma anche dei loro amici e familiari.
    In secondo luogo, Natsu era cresciuto sia fisicamente che mentalmente. A forza di marciare e svolgere quotidianamente sfiancanti sessioni di esercizio fisico, le sue braccia e le sue gambe si erano parecchio irrobustite, le sue spalle e il suo petto erano diventati più ampi, i suoi addominali molto più evidenti. Aveva imparato il valore dell’ordine e della disciplina, dell’obbedienza e del sacrificio. Non era più il ragazzino rumoroso e impaziente di cinque settimane prima, ma un uomo forte pronto a raggiungere i propri obiettivi.
    Già, un uomo… L’unica a non essersi accorta di quei suoi cambiamenti sembrava Lucy, proprio la persona che Natsu desiderava impressionare più di tutti. Da quando Sting, quella notte di guardia nel cortile del centro, gli aveva aperto gli occhi su quanto fosse labile il confine tra amicizia e amore, per Natsu Lucy non era più la stessa. Certo, rimaneva sempre la sua migliore amica, quella che gli era rimasta accanto per lunghi anni condividendo con lui gioie e dolori, sogni e paure, momenti di spensieratezza e momenti di serietà, ma Natsu aveva da poco scoperto quanto Lucy, con quelle curve così generose e quella sensualità così naturale, così pulita, fosse irrimediabilmente donna. E bella, così bella da diventare la protagonista dei suoi pensieri più reconditi e meno innocenti, che poco si addicevano alla parola “amicizia”. Ma con che coraggio avrebbe potuto confessare simili pensieri a Lucy, che non sembrava provare per lui qualcosa di diverso dall’affetto e dall’ammirazione?
    Per salvaguardare il bene della propria sanità mentale, Natsu si era sentito costretto a stabilire un limite tra le cose che Lucy poteva e non poteva fare in sua presenza: una di queste, mostrarsi mezza nuda davanti ai suoi occhi (cosa che a Lucy sembrava normale, ma che per lui era a dir poco intollerabile), era stata la causa del loro primo vero litigio. Fortunatamente, alla fine avevano fatto pace e tutto tra loro due sembrava tornato come prima, ma la verità era che Natsu in cuor suo avrebbe desiderato una piega diversa per il loro rapporto. Una piega più piacevole, più intima, che nemmeno lui avrebbe saputo definire a parole. Non gli era ancora ben chiaro cosa volesse esattamente da Lucy, ma in ogni caso Natsu aveva deciso di tenersi tutto dentro per non minare la loro amicizia.
    Il problema era che, dal fatidico giorno del litigio, le sue nuove sensazioni per Lucy non si erano affatto attenuate, anzi. Tutto sembrava essersi amplificato al massimo, alimentato dalla lontananza e dai ricordi.
    Se di giorno, concentrato sul suo allenamento, Natsu riusciva a non pensarci, di notte l’immagine di Lucy tornava a popolare i suoi sogni da nuovi punti di vista, con nuove sfumature, nuove luci, nuovi colori, nuovi dettagli. Lucy che gli sorrideva, che lo chiamava, che lo abbracciava. Lucy che lo baciava, che lo toccava, che lo spogliava, che si spogliava. Lucy nuda, bellissima, così disponibile e arrendevole, così poco amica e così tanto donna da sconquassargli la testa, il cuore e soprattutto il bassoventre.
    Il mattino dopo, Natsu si svegliava sudato e ansimante, con il pigiama che gli tirava terribilmente in mezzo alle cosce, e doveva ricorrere ad una lunga doccia congelata per disfarsi di quel grosso ed evidente problema prima dell’inizio di una nuova giornata di addestramento.
    Una mattina, però, mentre l’acqua si riversava sulla sua testa avvolgendolo da capo a piedi, Natsu si ritrovò a battere i pugni sulle mattonelle della doccia, gli occhi fissi su quell’erezione prepotente, dolorosa, che pur bagnata dal getto freddo dell’acqua non accennava a sparire per nulla, complice anche la lunga astinenza (Lisanna per lui era stata la prima e l’ultima, e in generale non era uno che si toccava spesso).
    Arrivato al culmine della sopportazione, quella mattina Natsu decise di aspettare che tutti i suoi compagni sparissero dalle docce in modo da rimanere solo con se stesso e potersi liberare di quell’enorme peso, anche a costo di arrivare in ritardo all’adunata delle 7.45 e beccarsi una severa punizione da Clive. Con la fronte poggiata alle mattonelle della doccia, Natsu portò una mano sul membro già eretto e si lasciò sfuggire un gemito di puro sollievo misto a piacere nel momento in cui cominciò ad accarezzarlo su e giù per tutta la sua lunghezza e a passare le dita bagnate tra i testicoli gonfi. Gli bastò, poi, immaginare Lucy che si contorceva eccitata sotto di lui, che godeva e gemeva ad opera sua, per venire copiosamente nella sua stessa mano, accasciarsi svuotato con le ginocchia sul pavimento della doccia e capire che la sua amicizia con lei stava decisamente giungendo al capolinea.
    Con che coraggio avrebbe sostenuto lo sguardo ignaro e innocente di Lucy in occasione del giuramento, Natsu proprio non lo sapeva.

    ***



    Quando Juvia sentì il suono del clacson, segno che Lyon si era appena parcheggiato in fondo al vialetto, si diede un’ultima occhiata allo specchio ravvivandosi i capelli blu con la mano, afferrò la borsa e si avviò verso la porta.
    «Esci con un ragazzo, tesoro?».
    Juvia si voltò trovando suo padre affacciato dietro l’angolo e non poté a fare a meno di sorridere divertita.
    «Certo che no, papà! Juvia va al giuramento di Gray-sama insieme a Silver-sama e a Lyon-sama».
    «Lyon, eh?», replicò il signor Lockser accarezzandosi il mento ispido di barba scura. «Ultimamente parli spesso di lui…».
    «Papà!». Juvia arrossì di botto. «Lyon-sama è solo un buon amico. Se Juvia ne parla spesso, è perché lo trova sempre a casa di Silver-sama quando va a fargli visita… E poi lo sai che il cuore di Juvia appartiene già a Gray-sama!».
    «Ma tesoro…». Il signor Lockser finse un’espressione dispiaciuta. «…il tuo adorato papino dove lo metti?».
    Juvia sorrise intenerita e in poche falcate raggiunse il padre per lasciargli un dolce bacio sulla guancia. «Tu rimarrai sempre il mio eroe, papà», gli sussurrò in un orecchio stando ben attenta a parlare in prima persona piuttosto che in terza.
    E tanto bastò per far sparire il signor Lockser nel suo studio con tanto di occhi a cuore e nuove idee per i suoi romanzi.
    A quel punto, a Juvia non rimase altro che uscire di casa e percorrere il vialetto del giardino. Lyon la aspettava in macchina con Silver seduto al suo fianco; la sedia a rotelle giaceva nel bagagliaio, pronta per essere tirata nuovamente fuori al momento opportuno.
    «Buongiorno», disse la ragazza infilandosi sul sedile posteriore dell’auto.
    «Buongiorno, Juvia-chan», rispose Lyon rivolgendole un’occhiata imbarazzata attraverso lo specchietto retrovisore che a Juvia non sfuggì affatto.
    «Ma com’è elegante oggi la nostra Juvia», fu il saluto di Silver. «Non è vero, Lyon?»
    «Già». Lyon fece ripartire bruscamente la macchina. «Molto… elegante, sì».
    Juvia, suo malgrado, si ritrovò ad arrossire. Sembrava quasi che tanto suo padre, quanto il padre di Gray, si fossero messi d’accordo per far nascere la scintilla tra lei e Lyon approfittando dell’assenza di Gray, ma Juvia non era affatto intenzionata a cercare di dimenticare Gray trovando conforto nelle braccia di Lyon. Primo: i suoi sentimenti per Gray erano radicati nel suo cuore da così tanto tempo che non sarebbero svaniti così facilmente. Secondo: nonostante Gray l’avesse rifiutata poco prima di intraprendere l’addestramento, le aveva comunque dato modo di sperare che un giorno tra loro due sarebbe potuto cambiare qualcosa e Juvia non era disposta ad abbandonare quelle speranze così allettanti, non per il momento almeno.
    Il viaggio in auto durò quasi un paio d’ore. Gli unici a parlare furono quasi esclusivamente Lyon e Silver, mentre Juvia se ne rimase in silenzio per la maggior parte del tempo chiedendosi come sarebbe stato far parte, almeno per qualche ora, della nuova vita di Gray al centro d’addestramento. Juvia era certa che Gray non li avrebbe accolti con chissà quale grande entusiasmo, non perché non apprezzasse la loro presenza, ma perché aveva insistito affinché tutti e tre se ne rimanessero a casa per il bene di Silver. «È una cerimonia lunga e noiosissima, non ne vale la pena», aveva più volte ribadito tanto a lei quanto a Lyon. «Inoltre, far venire papà sarebbe faticoso e problematico sia per voi che per lui».
    Juvia, Lyon e Silver, però, non avevano voluto sentire ragioni. Il giuramento, per quanto “lungo e noiosissimo”, era una cerimonia importante per i neo-militari. Inoltre, Silver stesso era stato un militare da giovane e niente l’avrebbe potuto rendere più orgoglioso che assistere al giuramento del suo unico figlio.
    Arrivati al centro d’addestramento, un edificio immenso dall’aspetto antico e austero, Juvia e Lyon scesero dall’auto e aiutarono Silver a tornare sulla sedia a rotelle, quindi si incamminarono verso il piazzale del giuramento facendosi largo tra eleganti uomini in divisa circondati dai loro amici e familiari. Quando videro Gray girato di spalle insieme a Natsu e ad altri compagni, Juvia e Lyon affrettarono il passo per raggiungerli.
    «Gray-sama!». Juvia si lanciò letteralmente su Gray abbracciandolo da dietro: erano cinque settimane che non lo vedeva, dal momento che lui – a differenza di Natsu – aveva preferito non approfittare del primo weekend libero per tornare a casa. I motivi di una simile scelta a Juvia non erano ancora ben chiari, ma non era quello il momento di stare a rimuginarci.
    «Juvia…». Gray pronunciò il suo nome ancora prima di rigirarsi nell’abbraccio e Juvia, ritrovandoselo finalmente di fronte, bellissimo nella sua divisa verde militare adatta alle occasioni più formali, pensò che per quello sguardo profondo e quel sorriso appena accennato avrebbe aspettato anche tutta una vita.
    «Stai… molto bene», commentò Gray indugiando con lo sguardo sul vestito viola di Juvia e sui suoi boccoli azzurri, per poi spostare gli occhi da tutt’altra parte in evidente imbarazzo.
    «G-grazie», rispose Juvia sentendosi arrossire per quel complimento tanto inaspettato. Faceva bene, allora, a sperare… «Anche tu», aggiunse subito dopo sfiorandogli il petto con una mano.
    Rimasero a guardarsi occhi negli occhi finché Gray non captò l’immagine di Lyon che spingeva la sedia a rotelle di Silver e di conseguenza la sua espressione cambiò totalmente. «Papà!», urlò furioso sorpassando Juvia. «Ti avevo detto di startene a casa!».
    «Su su, è così che accogli il tuo vecchio dopo più di un mese?», scherzò Silver tirando un pizzicotto al fianco di Gray che a sua volta mandò un’occhiataccia sia a lui che a Lyon, complice di quella situazione.
    «Non te la prendere, Gray. Sapevi che saremmo venuti…», disse Lyon sfoderando un sorriso.
    Gray sospirò frustrato e Juvia, guardandolo, si chiese se per caso non ci fosse qualcosa che lo tormentava nel profondo, qualcosa di ben più personale e preoccupante dell’arrivo di Silver contro la sua volontà. Infatti, ad eccezione del momento in cui Juvia lo aveva abbracciato, Gray sembrava particolarmente teso. Che fosse in ansia per il giuramento stesso? Eppure si trattava di una semplice cerimonia… In fondo la valutazione intermedia l’aveva passata a pieni voti al pari di Natsu, l’aveva detto lui stesso!
    «Andrà tutto bene, Gray-sama», le venne istintivamente da dire accarezzando un braccio del suo amato. Gray, dopo un attimo di esitazione, si limitò ad annuire.

    ***



    Erano passate tre settimane da quando Natsu era rientrato a casa per il suo weekend libero, tre settimane da quando Lucy e lui avevano litigato furiosamente per un motivo totalmente futile, tre settimane da quando lei aveva scoperto che Natsu, con Lisanna, ci aveva fatto l’amore. Che Natsu non era più un bambino.
    Al di là del litigio, che alla fine si era comunque risolto con un abbraccio e la silenziosa promessa di non urlarsi mai più addosso, Lucy non riusciva a smettere di chiedersi perché Natsu non le avesse confessato di non essere più vergine fin da subito. Certo, si trattava di una cosa intima, personale, ma anche la loro amicizia lo era! Insomma, erano anni che si confidavano l’un l’altro segreti, paure, dubbi, speranze, sogni. Perché Natsu, all’improvviso, aveva deciso di nasconderle un dettaglio così importante? Se Lucy fosse stata al posto suo, se con Loki – il suo ragazzo delle superiori – si fosse spinta oltre i baci, era certa che la prima persona a cui l’avrebbe raccontato sarebbe stato proprio Natsu, suo confidente, suo complice… Senza contare che Lucy non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Natsu e Lisanna nudi, abbracciati l’uno all’altro nel letto di lui, né a scacciare il senso di dispiacere e amarezza che quell’immagine era in grado di procurarle alla bocca dello stomaco. La verità era che Lucy aveva scoperto di essere tremendamente, inspiegabilmente gelosa del suo migliore amico, e che da giorni combatteva contro quel nuovo, potente e spiacevole sentimento che forse sarebbe stato meglio nascondere per il bene della sua amicizia con Natsu, amicizia che già una volta si era ritrovata a barcollare pericolosamente.
    Avvolta nel suo elegante vestito rosso, Lucy seguì Zeref e Igneel fino a raggiungere Natsu che muoveva una mano da lontano per attirare la loro attenzione. Con addosso quegli abiti così formali, sembrava un uomo di tutto rispetto, maturo, bello, affascinante.
    «Ce ne avete messo di tempo, eh!», esclamò Natsu raggiante quando fu accerchiato dai tre.
    «È colpa di Lucy», specificò Igneel scherzosamente. «Quando siamo andati a prenderla, ci ha fatto aspettare mezz’ora perché doveva finire di farsi bella».
    Lucy arrossì. In generale non era una che si agghindava molto, ma in quell’occasione aveva dato il meglio di se stessa per cercare di rendere il suo viso più luminoso attraverso il trucco e mettere in risalto le sue curve attraverso un bel vestito. E quando Natsu, incoraggiato dalla spiegazione di Igneel, indugiò un po’ più del dovuto sulle sue labbra lucide di rossetto, Lucy non poté fare a meno di sentirsi soddisfatta e lusingata per quella silenziosa attenzione.
    «Ma bando alle ciance!», esclamò all’improvviso Igneel. «Sbrighiamoci se vogliamo trovare posto!». E così dicendo, l’uomo si allontanò seguito dal figlio maggiore lasciando Natsu e Lucy da soli, alle prese con un imbarazzante silenzio.
    Lucy fece finta di sistemarsi alcune pieghe del vestito. «Allora, sei pronto?».
    «Sì… credo». Natsu si grattò la testa con un sorriso e in quel momento a Lucy parve tornare l’innocente ragazzino che era stato prima di cominciare l’addestramento.
    «Credi?», ribatté Lucy incredula. Natsu era sempre stato l’emblema della convinzione e dell’ottimismo. Possibile che l’idea di giurare fedeltà alla sua patria, come aveva sempre desiderato fare, gli mettesse ansia?
    «È che… è accaduto tutto così velocemente che a malapena me ne sono accorto».
    A quel punto, Lucy mise da parte tutto ciò che di negativo era successo tra loro, tutto ciò che di strano e nuovo aveva scaturito in lei il loro litigio, per ritrovare la vera essenza della loro amicizia: sostenersi l’un l’altro. Avvicinandosi maggiormente a Natsu, Lucy gli posò entrambe le mani sul viso incatenando i loro sguardi. Gli occhi di Natsu erano appena sgranati, luminosi, colmi di sorpresa per quel gesto intimo ma anche di qualcosa che Lucy al momento non riusciva a identificare.
    «Andrà tutto bene, Natsu», sussurrò con un sorriso ad un palmo dal suo naso.


    Fu in quel momento che Natsu, forse a causa dell’euforia per l’occasione tanto importante o forse a causa dell’agitazione per quella pericolosa quanto piacevole vicinanza che ormai popolava da giorni i suoi sogni, perse completamente il controllo di se stesso. Quasi senza accorgersene, si ritrovò a fissare insistentemente le labbra rosse, carnose e terribilmente invitanti di Lucy che sembravano protendere verso di lui, chiedendosi se fossero morbide come apparivano o quale sapore avessero.
    L’attimo dopo, Natsu quelle stesse labbra le stava baciando. Non un bacio intenso, passionale, ma un tocco lieve, appena accennato, eppure capace di rimescolargli tutto all’altezza dello stomaco.
    Lucy, dapprima pietrificata per quel gesto, lo spinse via premendogli le mani sul petto con forza e contemporaneamente indietreggiò come se si fosse appena scottata.
    «N-Natsu…», disse con gli occhi spalancati per lo stupore e una mano a coprire la bocca.
    «Lucy...».
    Natsu si rese conto di ciò che aveva fatto solo in quel momento. Non sapeva assolutamente cosa dire (scusarsi? inventare una giustificazione?), ma fortunatamente ci pensò lo squillo delle trombe, segno che il giuramento stava per iniziare, a salvarlo da quella situazione così assurda… o almeno momentaneamente. Perché era certo di aver appena messo un punto alla sua lunga amicizia con Lucy e che da quel momento le cose tra loro due non sarebbero più state le stesse.
    Si era rovinato con le sue stesse mani, ma la cosa peggiore era che non se ne trovava nemmeno pentito, che l’avrebbe rifatto anche cento volte pur di sentire il sapore delle labbra di Lucy impresso sulle proprie e il suo profumo delicato direttamente nelle narici.

    ***



    Allo squillo delle trombe, mentre anche i familiari più ritardatari raggiungevano i posti adibiti al pubblico per assistere alla cerimonia, tutti i militari che quel giorno avrebbe dovuto giurare si sistemarono ordinatamente al centro del piazzale: indossavano la stessa uniforme verde e lo stesso copricapo nero, e sorreggevano un fucile in verticale con la mano destra coperta dal guanto bianco.
    Quando la banda cessò di suonare la musica d’apertura, fu il Caporale Gildarts Clive a prendere parola al microfono. In primis salutò e ringraziò le famiglie per aver deciso di assistere alla cerimonia, poi si rivolse ai suoi soldati con sguardo fiero e voce solenne.
    «Giurandi, voi siete la speranza del domani, siete la risorsa umana nuova, sana, motivata, che la nostra Nazione proietta verso le sfide del futuro, affinché siano garantite per tutti la giustizia, la pacifica convivenza, la migliore qualità della vita. Quella di oggi sarà una giornata che lascerà un segno indelebile nella vostra memoria e nei vostri cuori. A breve, con un atto solenne, vi impegnerete di fronte alla vostra coscienza come individui, come cittadini e come soldati. Quanto state per fare, determinerà non solo il vostro percorso professionale ma soprattutto il vostro essere Uomini e Donne di questo meraviglioso Paese».
    Il discorso andò avanti per diversi minuti, ma il momento di maggiore pathos arrivò nel momento in cui Clive, al cospetto della bandiera del reggimento, chiese a gran voce «Lo giurate voi?».
    Fu in quel momento che Gray, testa alta e mano stretta saldamente sul fucile, ripensò a quelle prime cinque settimane trascorse al campo d’addestramento con Natsu, Sting e tutti gli altri. Ripensò a quanto avesse faticato per convincere il burbero Clive del suo valore e per passare la valutazione intermedia con risultati decenti, a quanto si fosse impegnato per rendere fiero suo padre che ora lo guardava da lontano talmente euforico da protendersi quasi fuori dalla sedia a rotelle. Nonostante fosse ormai vecchio, stanco e malato, Silver Fullbuster appariva ancora come l’emblema della carriera militare: un’intera vita dedicata alla patria, al sacrificio fisico e mentale, dove l’amore aveva tentato (invano) di attecchire e poi ne era stato completamente escluso.
    Ma era questo ciò che Gray voleva? Intraprendere un lavoro che molto probabilmente gli avrebbe risucchiato ogni energia vitale, che non gli avrebbe permesso di costruire una relazione solida o che peggio ancora lo avrebbe portato al divorzio e alla paralisi come era avvenuto per suo padre?
    Talmente sovrappensiero da dimenticare dove si trovasse e cosa stesse facendo, Gray tornò con i piedi per terra solo nel momento in cui i volontari ruppero improvvisamente il silenzio rispondendo in coro «Lo giuro!» e diventando ufficialmente parte dell’esercito nazionale. Natsu aveva giurato, Sting aveva giurato, ogni singolo volontario del reggimento aveva giurato. Ma non Gray.
    Gray non aveva fatto in tempo.
    Una fastidiosa oppressione al petto gli mozzò improvvisamente il respiro, costringendolo a strizzare gli occhi e a piegarsi leggermente su se stesso rischiando di far cadere il fucile. E mentre Natsu gli toccava la spalla preoccupato, Clive concludeva indisturbato il suo discorso.
    «Così avete giurato di voler essere cittadini speciali, con responsabilità più grandi rispetto agli altri; vi siete impegnati ad essere dei Soldati. Spirito di sacrificio, lealtà, coraggio, onestà e disciplina dovranno essere gli elementi guida delle vostre decisioni ed azioni nel servizio quotidiano come negli eventi eccezionali».
    Eppure, Gray non poteva fare a meno di pensare che lui, quel bel discorso e quella sincera fiducia non li meritava. Perché, anche se nessuno se ne era accorto, lui non aveva giurato, né ad alta voce né dentro di sé, e per un uomo votato alla sua patria non c’era cosa più spregevole che sottrarsi a tale giuramento.
    Se solo Silver lo avesse scoperto, probabilmente l’avrebbe diseredato dal ruolo di figlio.







    *RAV: Reggimento Addestramento Volontari

    Note dell'autrice:
    Sono felicissima di essere stata puntuale con l'aggiornamento, ho ritrovato molta ispirazione per questa storia e spero di avere abbastanza tempo per continuarla in modo più o meno regolare.
    Ho pensato di risparmiarvi la prova intermedia al termine delle prime 5 settimane di addestramento perchè sarebbe stata troppo tecnica e quindi noiosa, mentre il giuramento è un'ottima occasione di rivedere le nostre quasi coppie unite. Di questo capitolo, mi preme focalizzare l'attenzione su ciò che è successo a Gray: non ha giurato ad alta voce perchè troppo preso dai suoi pensieri e questa è l'ennesima prova dei suoi dubbi riguardo la carriera militare (dubbi che ho già presentato fin dal primo capitolo). Come ne uscirà il nostro Gray?
    Nel prossimo capitolo #14. Il giuramento (parte 2), vedremo ancora la NaLu alle prese con ciò che è avvenuto in questo capitolo, la StingYu che oggi non ho trattato e forse anche un po' di Gruvia con Lyon di mezzo.
    Alla prossima! Conto di aggiornare tra Capodanno e la Befana.
    Soly Dea
     
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