Behind every strong soldier, there is an even stronger woman.

Long, AU → NaLu, Gruvia, Gajevy, StingYu, Miraxus, Gerza | rating rosso

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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #01. La notte prima della partenza (parte 1)




    Lucy odiava l’estate. I vestiti si appiccicavano al corpo a causa del sudore, il caldo asfissiante non le permetteva di studiare con l’adeguata concentrazione e la obbligava a tenere i capelli legati per tutto il giorno, le zanzare non le davano tregua. Preferiva di gran lunga l’inverno con il freddo, la neve, le coperte, il fuoco acceso nel camino, le cioccolate calde.
    Per fortuna l’estate era quasi finita, era ormai settembre inoltrato e l’aria cominciava a rinfrescarsi. Quella sera Lucy si disse che poteva lasciare il condizionatore spento e dormire con la finestra aperta. Indossò la canotta e i pantaloncini e si mise a letto girata su un fianco, dando le spalle alla finestra. Chiuse gli occhi dopo una lunga giornata di studio, cullata dal venticello leggero che entrava da fuori.
    Aveva quasi raggiunto le braccia di Morfeo quando sentì l’altro lato del materasso piegarsi e sprofondare. Sgranò gli occhi impaurita e si voltò di scatto mettendosi a sedere. La stanza era buia ma la luce della luna che filtrava attraverso le tende le permetteva di distinguere un paio di occhi verdi e un sorriso birichino tremendamente familiare. «Natsu!», urlò tappandosi la bocca subito dopo, quando si ricordò di non essere sola in casa. «Che diamine ci fai qui?! Se ti scopre mio padre, ti ammazza!», aggiunse a bassa voce.
    «Sono troppo euforico, Lucy! Non riuscivo a starmene tranquillo a casa...».
    Avendo frequentato per anni la stessa classe, lei e Natsu erano amici praticamente da sempre. Lucy pensò a quando erano piccoli... Capitava spesso che Natsu entrasse dalla finestra della sua stanza e si coricasse al suo fianco dicendo che il suo letto era molto più comodo del proprio. Poi il padre di Lucy li aveva beccati raggomitolati l’uno all’altro nel cuore della notte e aveva rispedito Natsu dritto a casa con un bel calcio nel sedere, urlando di non farsi più rivedere nel letto di sua figlia. Natsu, ubbidente ma a malincuore, non era mai più tornato. Di conseguenza, se a distanza di anni Lucy se lo ritrovava nuovamente nel suo letto, il motivo doveva essere più che valido. E lei ne era perfettamente a conoscenza.
    «Natsu, ho paura che tu stia prendendo questa cosa con troppa superficialità... come se fosse un gioco», gli fece notare.
    Il ragazzo si sporse verso di lei e la afferrò per le spalle guardandola dritta negli occhi.
    «Non è un gioco, Lucy, è il mio sogno! Domani parto per l’esercito, capisci? L’esercito! È quello che ho sempre voluto fare!».
    Lucy non potè fare a meno di sorridere. Le dita di Natsu premevano bollenti sulla sua pelle, gli occhi brillavano d’aspettativa. Ripensò a quando, sempre da bambini, erano soliti giocare al soldato e all’infermiera nel giardino di casa Hearthfilia ed ora lui stava davvero per entrare nell’esercito mentre lei studiava medicina. I loro sogni iniziavano a farsi più reali, più tangibili. Lucy sperava solo che Natsu, a causa della sua vena infantile, non prendesse la vita militare troppo sotto gamba.
    «L’esercito, eh?». La ragazza portò una mano sul petto di Natsu immaginando di tastare la stoffa verde militare che avrebbe indossato di lì a poco. «Chissà che strage di cuori farai con la divisa addosso...».
    Natsu le afferrò il polso con una mano sorridendole di sbieco. «Che c’è, Lucy, sei gelosa?».
    La ragazza arrossì, ma per fortuna la penombra mascherava il suo imbarazzo. «Non dire stupidaggini!». Natsu le teneva il polso ancora ben stretto e non sembrava intenzionato né a lasciarla andare, né ad abbandonare la questione gelosia.
    «Aaah, ammettilo una buona volta! Tu mi vuoi tutto per te!».
    «Ma smettila...!». Lucy afferrò il cuscino e glielo tirò dritto in faccia. Natsu si lasciò cadere sul materasso con una risata cristallina e a nulla valsero i tentativi di Lucy di intimargli di fare silenzio per non incorrere nelle ire di suo padre.
    Okay, forse era un tantino gelosa di Natsu, ma solo perché lui era il suo migliore amico! In quasi venti anni di vita non aveva mai dimostrato chissà quanto interesse per il genere femminile se non per una ragazzina con cui era uscito alle superiori (una certa Lisanna, se non ricordava male) ma Lucy era certa che non fosse mai andato oltre i baci con lei, dal momento che Natsu le raccontava praticamente tutto (o almeno ci sperava). Lo stesso valeva per Lucy che era uscita per un po’ di tempo con Loki, un ragazzo poco più grande di lei, ma la loro non era stata una relazione ufficiale, solo una breve storiella durata il tempo di rendersi conto che nel frattempo Loki ci provava con metà scuola. Insomma, Lucy desiderava per Natsu una fidanzata con la testa sulle spalle, non una ragazzina civettuola attirata solo dalla sua divisa militare. Cosa o meglio chi Lucy desiderasse per stessa, ancora non le era ben chiaro. Per il momento il suo cuore era libero. Chissà, magari un giorno avrebbe conosciuto un medico famoso...
    «Natsu, credo proprio che ora dovresti andare», consigliò all’amico quando si rese conto che si era fatta una certa ora.
    Natsu la implorò con lo sguardo. «Non posso restare a dormire qui con te? Lo sai, Lucy, il tuo letto è...».
    «...più comodo del mio». Lucy sospirò sconsolata. «E va bene, ma non starmi appiccicato. Sai che...».
    «...odi il caldo, lo so, lo so», terminò Natsu.
    Lucy sorrise. C’era sempre stata quell’assurda telepatia tra lei e Natsu, l’uno riusciva sempre a prevedere le parole o addirittura i pensieri dell’altro. Forse perché si conoscevano da sempre ed erano in perfetta sintonia, forse perché erano più simili di quanto non apparissero.
    I due si stesero sul materasso l’uno accanto all’altro. Lucy si girò su un fianco e chiuse gli occhi.
    «Buonanotte, Natsu», sussurrò contro il cuscino.
    Natsu si voltò a sua volta dal lato opposto dandole la schiena. «’Notte, Lu».
    Lucy non udì più alcun rumore, né avvertì alcun movimento, e pensò che Natsu si fosse addormentato. Si sbagliava di grosso: non molto tempo dopo si ritrovò con la schiena premuta contro il petto di Natsu, un suo braccio intorno alla vita e la punta del suo naso che le solleticava la nuca. Lucy non sapeva se fosse stato un gesto volontario o inconscio ma di una cosa era abbastanza certa. A cominciare dal nome, Natsu sprizzava estate da tutti i pori, Natsu era l’estate: sia nell’anima, un’anima infuocata di vita, di sogni e di speranze; sia nel corpo, che sembrava irradiare calore da tutte le parti data la temperatura costantemente al di sopra della media (Lucy non ricordava nemmeno un giorno in cui Natsu non avesse avuto le mani bollenti, nemmeno nel giorno più gelido dell’inverno). Nonostante Lucy odiasse l’estate, Natsu riusciva in qualche modo a fargliela piacere. Innumerevoli erano le volte in cui lui l’aveva trascinata a fare un giro in bici per le campagne o l’aveva portata al mare ricordandole che l’estate non era solo insopportabile sudore e fastidiose zanzare, ma anche tuffi rinfrescanti e gelati deliziosi.
    Perfino in quel momento, Lucy non riusciva proprio a lamentarsi del calore che Natsu le trasmetteva standole così addosso. Poggiò a sua volta il braccio su quello di lui e si addormentarono stretti l’uno all’altro. In fondo era sempre stato così tra loro: troppo intimi per definirsi solo amici, ma non abbastanza da potersi definire qualcosa di più. E comunque Lucy non si era mai davvero soffermata a pensarci. Natsu era solo Natsu, il suo Natsu, una presenza costante e fondamentale nella sua vita, e dormire abbracciata a lui, nonostante non fosse propriamente un comportamento da amici, le sembrava la cosa più semplice e naturale e bella del mondo.
    La mattina dopo, riaprendo gli occhi, Lucy trovò il letto vuoto e immaginò Natsu tutto indaffarato nel ricontrollare il borsone prima della partenza.
    Doveva sbrigarsi o non sarebbe arrivata in tempo per salutarlo.

    ***



    Quella sera Juvia rigirava nervosamente la cannuccia nel bicchiere ricolmo di tè freddo, giocherellando con il ghiaccio. Il vociare dei clienti del bar le sembrava solo un’eco in lontananza, intenta com’era a chiedersi se fosse stato giusto invitare Gray a quell’appuntamento.
    Juvia conservava con cura il ricordo del suo primo incontro con Gray. Erano entrambi alle medie e lui l’aveva difesa da un gruppetto di bulli che erano soliti prenderla in giro per il colore assurdo dei suoi capelli e per l’abitudine di parlare di se stessa in terza persona (Juvia aveva preso quel vizio quasi per gioco influenzata dai romanzi per bambini scritti da suo padre, tutti incentrati sulla figura di una maghetta con il suo stesso nome: Juvia di qua, Juvia di là, Juvia fa questo, Juvia fa quello). Per ringraziare Gray, il suo salvatore, Juvia gli aveva offerto la propria merenda, poi si era proposta di fare i compiti al posto suo e infine, senza quasi accorgersene, aveva cominciato ad innamorarsi di lui. A distanza di otto anni, il suo amore per Gray non era affatto svanito, anzi non aveva fatto che crescere e rafforzarsi, e Juvia non si faceva molti problemi a sbandierarlo ai quattro venti. Tuttavia Gray non le aveva mai dato una risposta chiara, eludendo l’argomento con varie scuse come «Ho gli allenamenti» e «I miei amici mi aspettano».
    Ma ora Juvia necessitava di quella risposta con assoluta urgenza. L’indomani Gray sarebbe partito per l’esercito e lei desiderava sapere in che modo avrebbe dovuto aspettarlo, se come amica o come... fidanzata. Tutto ciò che desiderava dalla vita era poter stare con Gray, poterlo un giorno sposare e avere da lui dei bambini. Erano pensieri piuttosto precoci, ma Juvia si era sempre sentita un po’ più matura delle sue coetanee sotto questo aspetto. E in fondo Gray non l’aveva mai rifiutata per davvero, anzi mostrava di apprezzare la sua vicinanza e i regali che lei di tanto in tanto gli faceva (una sciarpa cucita a mano, un cuscino, dei biscotti fatti in casa). Juvia era in qualche modo certa di avere una possibilità con lui. Magari non in quel preciso momento, magari in un futuro più o meno prossimo quando Gray si sarebbe perdutamente innamorato di lei accorgendosi dell’ottima fidanzata (e poi moglie) che sarebbe potuta essere per lui.
    «Ehi».
    La ragazza sollevò lo sguardo. Gray era in piedi di fronte a lei e le sorrideva gentile.
    «Gray-sama! Juvia ti stava aspettando, siediti pure».
    Gray si accomodò di fronte a lei e la cameriera del bar giunse subito al loro tavolo per scrivere l’ordine. Si fecero portare due granite e cominciarono a parlare del più e del meno. Juvia, agitata per ciò che avrebbe dovuto chiedere a Gray, continuava a lisciarsi con le mani il vestito blu che aveva indossato per l’occasione, il suo preferito. Quella sensazione di ansia e incertezza le era nuova, dal momento che in realtà non avrebbe dovuto dire a Gray niente che lui già non sapesse. Ma ora si trattava della resa dei conti, ora Juvia faceva sul serio.
    Gray doveva essersi accorto dell’agitazione che attanagliava il cuore di Juvia perché ad un certo punto interruppe la conversazione e si poggiò con la schiena alla sedia, incrociando le braccia al petto con aria terribilmente seria. «Non mi hai fatto venire qui senza un motivo, vero Juvia?».
    La ragazza sorrise imbarazzata, al suo Gray non sfuggiva nulla. «Hai ragione. Be’, vedi, domani tu parti per l’esercito», cominciò e Gray annuì attento. «Juvia desidera... ehm...». Arrossì sulle guance. Ah, perché le stava riuscendo così difficile?! Prese tutto il coraggio di cui disponeva e quasi urlò le parole successive prima che potesse rimangiarsele. «Juvia desidera una risposta da Gray-sama!».
    Gray sgranò gli occhi perplesso. «Una risposta?».
    «Tu sai già quali sono i sentimenti di Juvia, ora Juvia vuole sapere i tuoi». Più sicura di se stessa, la ragazza incoraggiò Gray con lo sguardo e posò la mano su quella di lui, a sua volta poggiata sul tavolo. Gray seguì con gli occhi quel gesto così intimo ma non si oppose e Juvia continuò a parlare. «Gray-sama è disposto a concedere una possibilità a Juvia?».
    A quelle parole Gray abbassò lo sguardo e Juvia lo osservò riflettere per pochi attimi, chiedendosi cosa passasse in quel momento nella mente del suo amato. Questa volta non sarebbe fuggito, non avrebbe inventato scuse. Juvia si portò una mano al cuore, le batteva all’impazzata al solo pensiero che di lì a poco avrebbe finalmente ottenuto la sua agognata risposta e che questa avrebbe potuto segnare una svolta incredibile nella sua vita.
    «Non posso», furono tuttavia le parole di Gray, dette con calma e a bassa voce.
    Conciso e diretto come solo lui poteva essere. Juvia trattenne il respiro ma non si lasciò scoraggiare, in fondo non era una risposta quella.
    «Per quale motivo, Gray-sama?».
    «Non posso e basta», ripetè Gray, questa volta con tono più aggressivo.
    «Gray-sama!», lo rimproverò Juvia delusa. «Cosa significa che non puoi?».
    Gray si passò una mano tra i capelli con aria stanca. «Insomma, non mi sembra il momento... io sto per partire». Juvia pensò che quella non era una motivazione valida e che Gray stava solo accampando delle scuse come faceva sempre. In fondo ai soldati erano concessi alcuni weekend liberi nei quali Gray avrebbe potuto tornare tranquillamente a casa – tornare da lei. «Se è questo quello che ti preoccupa, sappi che Juvia crede nelle relazioni a distanza! L’amore che Juvia prova per Gray-sama è tale da superare tutti i chilometri del mondo!».
    Gray indietreggiò e Juvia ebbe paura di averlo spaventato, di avergli messo troppa pressione addosso. Allo stesso tempo, però, si disse che quello era il momento decisivo per mettere Gray alle strette. Non c’era più tempo da perdere, doveva giocarsi tutte le sue carte. Scattò in piedi e poggiò le mani sul tavolo protendendosi con tutto il busto verso Gray. Gli occhi blu ardevano di profonda determinazione. «Juvia ti piace, Gray-sama? Sii sincero».
    Dopo lo stupore iniziale Gray piegò un angolo della bocca in quello che doveva essere un sorriso, ma a Juvia parve così triste, così amaro. «Sì, Juvia mi piace», confermò imitando inconsciamente il modo di parlare della ragazza, per poi correggersi subito dopo. «Cioè, tu mi piaci». E lì il cuore di Juvia fece una capriola. Gray continuò. «Ma non abbastanza da poter intraprendere una relazione a livello sentimentale. Mi dispiace tanto, Juvia».
    Gray allungò una mano verso di lei come per accarezzarla ma Juvia lo bloccò, ricadendo con un tonfo sulla sedia. Avvertì gli occhi offuscarsi di lacrime e svelta se li asciugò con il dorso della mano prima che Gray potesse accorgersene. La risposta era sempre stata lì, davanti ai suoi occhi, chiara come il sole, anche se aveva tentato di convincersi del contrario. Era rimasta volontariamente cieca davanti all’evidenza: Gray non aveva mai accettato il suo amore semplicemente perché non lo ricambiava. O almeno, non lo ricambiava abbastanza. Juvia pensò che lei avrebbe potuto amare per entrambi, ma era certa che Gray non glielo avrebbe permesso.
    «Juvia...», la richiamò Gray dispiaciuto.
    «Non fa niente, Gray-sama non deve farsene una colpa. Juvia era preparata anche a questo», mentì spudoratamente. Non era vero, aveva sperato con tutta se stessa che lui la ricambiasse fin quasi a convincersi che non esistesse altra alternativa, che non potesse essere diversamente. Si alzò dalla sedia sistemandosi con le dita l’orlo del vestito. Ora non le rimaneva altro da fare se non raccogliere i cocci del suo cuore e cercare di rimetterli insieme.
    «Grazie della risposta. Ora Juvia deve andare».
    Gray annuì e la guardò negli occhi speranzoso. «Domani vieni a salutarmi?».
    Ah, la partenza! Se ne era quasi dimenticata... Gray sembrava desideroso di poterla rivedere il giorno successivo, ma con che coraggio Juvia avrebbe potuto salutarlo? Come avrebbe potuto abbracciarlo ben sapendo che quel gesto significasse due cose diverse per loro?
    «Juvia non sa se verrà», concluse e sparì dal bar prima di scoppiare a piangere.

    ***



    Mirajane piegò con cura anche l’ultimo paio di calzini e lo infilò nella valigia stracolma di roba, pronta ad esplodere, per poi portarsi una mano sulla fronte, preoccupata di aver dimenticato qualcosa. «Avrò messo tutto?», disse ad alta voce.
    «Hai messo il phon?».
    Mirajane si voltò a guardare Luxus, comodamente stravaccato sul letto con le braccia incrociate dietro la testa.
    «Il phon?», ripetè sorpresa. «Dici che dovrei metterci il phon?».
    «Mirajane, sto scherzando», gli fece notare il marito. «Ti pare che nel bel mezzo della missione mi metto ad asciugarmi i capelli?».
    La donna sospirò poco convinta e guardò nuovamente nella valigia. «Eppure sono sicura di essermi dimenticata qualcosa». I calzini c’erano, così come i boxer, le lamette per radersi la barba e... Intenta com’era a fare una lista mentale di tutte le cose necessarie a un militare per trascorrere sei mesi in Libano, quasi non si accorse che Luxus si era alzato dal letto e l’aveva raggiunta da dietro avvolgendole la vita con entrambe le braccia.
    «Lo so io cosa ti sei dimenticata», le sussurrò in un orecchio.
    «Davvero? Cosa?». Mirajane ruotò lievemente il busto per poterlo guardare in viso, quando Luxus la baciò improvvisamente sul collo. «Ecco cosa», le disse malizioso spingendo il bacino contro il suo fondoschiena. Colta di sorpresa, Mirajane sussultò capendo subito le intenzioni del marito. «Maiya potrebbe essere ancora sveglia...», gli ricordò prudente, gettando brevi occhiate alla porta della stanza che si sarebbe potuta aprire da un momento all’altro lasciando entrare una bimba bionda e paffutella.
    «Se ha davvero preso da suo padre starà già ronfando come un ghiro».
    Mirajane ridacchiò rigirandosi nell’abbraccio, per poi portare le mani sul viso di Luxus e baciarlo sulle labbra, acconsentendo alla sua silenziosa richiesta di salutarsi come si deve in vista di quei lunghi sei mesi che avrebbero trascorso perennemente lontani l’uno dall’altro. Era sempre così quando Luxus doveva partire in missione: facevano l’amore per tutta la notte, più e più volte, finché non si addormentavano esausti l’uno tra le braccia dell’altro per compensare i successivi mesi di astinenza in cui avrebbero dovuto accontentarsi solo della voce, dei ricordi e della fantasia.
    Luxus trascinò Mirajane sul letto e si stese su di lei. Portò le mani al bordo della sua vestaglia da notte e gliela sfilò da sopra la testa rivelando le mutandine di pizzo nere – perfette per quella notte d’addio che poi un addio non era – e i seni nudi, grandi e sodi, già liberi dal reggiseno, pronti per lui. Luxus si chinò a baciarne uno, succhiando avidamente il capezzolo roseo che si inturgidì al tocco della sua lingua, e Mirajane sospirò deliziata infilando la mano nei pantaloni del marito. La stoffa dei boxer non le impedì di sentire l’erezione pronunciata che spingeva contro il suo palmo aperto chiedendo maggiori attenzioni. «Ma come siamo impazienti, Dreyar», scherzò. Superò anche l’intimo e avvolse il sesso di Luxus con le dita accarezzandolo piano per tutta la sua lunghezza.
    «Non vedrò mia moglie per molto tempo...», le fece notare lui, mentre risaliva a sua volta lungo la coscia di Mirajane per giungere in prossimità delle mutandine. Ne scostò la stoffa leggera e infilò un dito nella sua apertura trovandola già calda e bagnata. «E poi non mi pare che tu sia messa tanto meglio».
    Mirajane gemette di piacere quando al primo dito Luxus ne aggiunse un secondo, accarezzandola con desiderio, con passione, mentre la guardava attentamente in viso ammaliato dai suoi occhi azzurri liquidi di piacere, dalle sue guance arrossate, dalle sue labbra carnose appena dischiuse. Quando Luxus si chinò nuovamente verso di lei tracciando con la bocca una scia bollente che andava dal solco tra i seni al bassoventre e poco più in giù, Mirajane scalciò via le mutandine e permise al marito di raggiungere la sua femminilità che poco prima aveva saggiato con le dita. Al tocco dei polpastrelli Luxus sostituì la lingua insieme al suo fiato caldo e Mirajane, allargando le gambe e accarezzandogli le spalle, sperò che quel momento durasse in eterno.
    Aveva saputo a cosa andava incontro fin dal primo istante in cui Luxus le aveva rivelato di essere un soldato e lei lo aveva accettato senza esitazione, con tutto l’amore del mondo. Tuttavia poterlo stringere tra le proprie braccia solo in periodi dell’anno ben stabiliti e convincere la piccola Maiya che no, papà non le aveva abbandonate, e sì, sarebbe tornato presto da loro, scavava ogni volta un solco profondo nel suo cuore.
    «Ricordalo, amore mio, ricordati di questo momento», le disse Luxus quella notte quando affondò dentro di lei con urgenza, divorandole di baci le labbra, la mandibola, il collo. Stretta al corpo del marito, vittima delle sue dolci torture, Mirajane ne ricambiava le poderose spinte con lo stesso ardore, godendo della sensazione dei suoi seni premuti contro quei pettorali forgiati da anni di duro allenamento, dei loro bacini che slittavano l’uno contro l’altro alla ricerca di sollievo, delle loro gambe intrecciate che lottavano sotto le lenzuola.
    «E come potrei dimenticarmene?». Dimenticava tante cose Mirajane – la caffettiera sul gas scoppiettante, la luce accesa in bagno, le cose da mettere in valigia quando Luxus partiva in missione – ma quei momenti con lui erano indelebili nella sua mente, nel suo cuore.
    «Mira...». Il militare fece combaciare le loro fronti guardandola dritta negli occhi e Mirajane seppe che quello era il suo modo di scusarsi per le continue assenze. Ma Luxus non aveva nulla di cui scusarsi: nelle sue vene scorreva il sangue dell’esercito che lo portava in terre lontane, sconosciute, a rischiare la sua vita ogni giorno, tanto per soddisfare quell’istinto primordiale di combattimento quanto per mantenere economicamente la propria famiglia. Quello era il loro destino e Mirajane non poteva fare nulla per cambiarlo, se non sfruttare a pieno tutto il tempo di cui disponeva con Luxus. Era tempo prezioso e non andava sprecato per nessuna ragione al mondo.
    Mirajane baciò il marito sulle labbra per rassicurarlo. «Ti aspetterò, Luxus, come faccio sempre».
    Avendo ricevuto la risposta che desiderava, Luxus la strinse più forte e continuarono ad amarsi per tutta la notte, mentre il frutto del loro immenso amore dormiva placidamente nella stanza accanto.








    Note dell'autrice:
    Benvenuti nella mia nuova long! Questa è una AU in cui i personaggi maschili (ad eccezione di uno... eh eh) sono soldati; per la descrizione della vita militare mi ispiro al sistema italiano che prevede innanzitutto il vfp1, volontariato in ferma prefissata per 1 anno, una sorta di allenamento per diventare soldati a tutti gli effetti. Per ora sappiamo che Natsu e Gray parteciperanno al vfp1, mentre Luxus è già avanti con la sua carriera militare e starà sei mesi in Libano. E tutti gli altri? Lo scoprirete nei prossimi capitoli!
    Ringrazio di cuore chi vorrà seguire questa storia e farmi sapere cosa ne pensa. Accetto anche critiche e consigli. A presto!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 16:04
     
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    #02. La notte prima della partenza (parte 2)



    Levy entrò nel condominio, con ciascuna mano sorreggeva due buste della spesa piene fino all’orlo. Salutò l’anziana signora che viveva al piano terra e raggiunse l’ascensore per poter salire al suo appartamento. La scritta “GUASTO” stampata a caratteri cubitali sulla superficie di metallo la fece inorridire. Ed ora come diamine sarebbe arrivata al settimo piano con quelle quattro buste pesantissime?! Strinse i pugni furiosa e si voltò, ma trovò la strada sbarrata da quell’energumeno del suo vicino di appartamento dai lunghi capelli scuri e l’aria truce.
    «Guasto?!», lo sentì lamentarsi dall’alto del suo metro e ottanta. «In questo condominio di merda non funziona mai un cazzo!».
    «Già, ci tocca fare alla vecchia maniera», mormorò Levy oltrepassandolo. Raggiunse le scale e cominciò a salirle barcollando da un lato e dall’altro a causa del peso che reggeva nelle mani. Fatti pochi gradini, però, vide Gajeel affiancarla e sottrarle silenziosamente due buste per portarle al posto suo.
    «Grazie», disse Levy sorpresa ricevendo in risposta un grugnito.
    Sorrise tra sé e sé. Gajeel Redfox, solo il nome era capace di incutere paura in tutti i bambini del condominio, ma Levy non riusciva a trovare in lui nulla di così tremendamente spaventoso. Non avevano mai parlato molto in verità, ma quelle poche volte lui le era sembrato un tipo a posto. Una volta le aveva raccolto i libri caduti per terra, un’altra ancora aveva dato una gomitata al distributore del condominio che non le restituiva i soldi. Forse era solo un po’ pervertito – Levy lo aveva beccato a fissarle il sedere più volte – ma quella era una caratteristica comune a tutti i maschi, per quanto ne sapeva (non che lei avesse una grande esperienza, comunque...). Il fatto che si fosse offerto di aiutarla anche in quel momento, sulle scale, confermava l’impressione che Levy aveva di lui: un orso burbero e apparentemente minaccioso, ma pur sempre dotato di un cuore.
    «Minestrone domani?», le chiese Gajeel avendo adocchiato la verdura nelle buste.
    «Già. Non sarò una cuoca eccezionale, ma come lo faccio io il minestrone non lo fa nessuno».
    «Ma davvero?». Il tono usato da Gajeel le parve di scherno. Che stesse mettendo in dubbio le sue doti culinarie? Non era una che si vantava senza un valido motivo, lei!
    «Giuro, domani passo a portartene un piatto», gli promise.
    Ci furono pochi attimi di silenzio in cui la ragazza si chiese se per caso a Gajeel non piacesse il minestrone.
    «Domani non ci sono», fu invece la sua risposta. «Parto, ho finito il mio periodo di licenza».
    Levy annuì, sapeva che Gajeel era un soldato. Dato che vivevano sullo stesso piano, la ragazza l’aveva visto più volte attraversare il corridoio con la divisa militare addosso e, anche sforzandosi con tutta se stessa, proprio non riusciva ad accostare la sua figura ad un altro lavoro. Un Gajeel panettiere, idraulico o peggio ancora insegnante sarebbe stato qualcosa di assolutamente impensabile; al massimo Levy se lo immaginava come buttafuori nelle discoteche. La vita militare sembrava fatta apposta per lui, per il suo fisico alto e robusto, per le sue mani grosse e callose, per il suo carattere schivo e solitario. Levy non l’aveva mai visto parlare con qualcuno che non fosse lei o il proprietario del condominio; nemmeno la ragazza particolarmente bella e formosa del terzo piano, che ci provava spudoratamente con lui, era riuscita a fargli spiccicare una parola. Levy si era chiesta spesso il perché: naturalmente con il padrone del condominio Gajeel non poteva che discutere dell’affitto o della manutenzione dell’appartamento, ma per quanto riguardava lei? Levy non aveva ancora capito se Gajeel rispondesse alle sue domande con la speranza di zittirla o perché la trovasse vagamente simpatica. Confidava nella seconda opzione.
    Quando si rese conto del silenzio imbarazzante che era calato tra loro, Levy buttò fuori la prima cosa che le venne in mente. «Quanto starai via?».
    «Perché ti interessa?», le chiese lui con un ghigno mentre svoltavano sul pianerottolo.
    Levy arrossì. Ovvio che non le interessava più di tanto, voleva solo mostrarsi gentile per ricambiargli il favore delle buste. «Era solo una stupida curiosità...», borbottò aggrottando la fronte. Credeva che la conversazione sarebbe morta lì, invece Gajeel volle continuare.
    «Starò sei mesi in Libano».
    «È tanto...», constatò Levy. Immaginò di stare lontana da casa tutto quel tempo, lontana dalla sua famiglia, dai suoi amici, dai suoi libri, da tutti i suoi beni più preziosi. No, non avrebbe potuto sopportarlo. Se Gajeel ci riusciva, evidentemente doveva avere un’immensa forza di volontà o forse, semplicemente, non aveva nessuno di così importante da cui tornare. Durante le poche volte in cui i due si erano scambiati la parola, lui non aveva mai nominato genitori, amici o fidanzate. Forse la vita militare era tutto ciò che gli stava a cuore. Sì, pensò Levy, doveva essere così.
    Nel frattempo erano giunti al sesto piano. La ragazza rallentò, non ne poteva più di salire quelle dannate scale.
    Gajeel captò il suo affanno e la punzecchiò nuovamente. «Già stanca, gamberetto?».
    «Non è colpa mia se non ho le gambe chilometriche come le tue!».
    Offesa, Levy afferrò di scatto le buste che reggeva Gajeel e corse velocemente lungo le scale che rimanevano. Arrivata quasi in cima, però, scivolò su un gradino e cadde in avanti urtando il ginocchio. Mugolò per il dolore ma, prima che potesse anche solo muoversi, si sentì afferrare da sotto le ascelle da due grosse braccia muscolose che la rimisero in piedi con una facilità tale da darle l’impressione di pesare quanto una piuma. Quando Levy ruotò la testa per guardare in volto il suo salvatore, Gajeel le restituì un’espressione divertita. I suoi occhi erano rossi come il sangue delle persone che forse aveva visto morire davanti ai suoi occhi, i piercing sulle sopracciglia duri e lucidi come le armi che forse maneggiava. Aveva un’aria minacciosa, letale, ma al tempo stesso protettiva, rassicurante. Levy si ritrovò a pensare che uno come Gajeel avrebbe potuto facilmente ucciderla, se solo avesse voluto, ma anche proteggerla, farle da scudo. Arrossendo furiosamente per quei pensieri, si districò dalla presa del militare e raggiunse la porta del suo appartamento a passo di marcia.
    «Tranquilla, gamberetto, non lo dirò a nessuno!», lo sentì urlare alludendo alla sua imbarazzante caduta.
    «Non chiamarmi in quel modo!», lo rimbeccò Levy. Da dove Gajeel avesse pescato quel brutto nomignolo che forse alludeva alla sua bassezza, lei proprio non lo sapeva. E in fin dei conti non era poi così importante, dato che non l’avrebbe risentito per almeno sei mesi. O almeno era quello che pensava.

    ***



    Sting e Yukino erano di ritorno verso casa Aguria dopo l’ultimo pomeriggio passato con Rogue e Minerva prima della partenza di Sting per il suo primo anno nell’esercito. La strada deserta era illuminata solo dai lampioni e dalla luce della luna che brillava alta nel cielo.
    Yukino aveva le guance rosse, un po’ a causa del bicchierino che Minerva le aveva messo sotto il naso assicurandole che fosse analcolico (ma che analcolico non era) e un po’ perché non le capitava spesso di ritrovarsi da sola con Sting, il quale quella sera si era gentilmente offerto di riaccompagnarla a casa. Camminavano l’uno al fianco dell’altro, le loro dita continuavano a sfiorarsi ad ogni passo. A Yukino sarebbe piaciuto poter stringere la mano di Sting, ma con quale scusa avrebbe potuto farlo? In fondo non erano nient’altro che amici, da quando un anno prima Minerva le aveva presentato il suo amico Rogue e a sua volta Rogue si era portato con sé il suo migliore amico Sting.
    Yukino si era subito trovata bene con lui. Aveva sempre pensato che i soldati (o aspiranti soldati in questo caso) fossero persone rigide e serie, tutte d’un pezzo, invece Sting era gentile, divertente, a volte si comportava come un bambino. La cosa le piaceva particolarmente: occupandosi di Sting e rimproverandolo dolcemente quando ne combinava una delle sue, le sembrava quasi di fare pratica per quando sarebbe diventata maestra, dal momento che studiava scienze della formazione primaria. Yukino ancora rideva di gusto nel ricordare la prima volta in cui aveva portato Sting con sé al campo estivo in cui lavorava per pagarsi l’università e lui si era gettato a capofitto nella piscina, facendo fuoriuscire quasi tutta l’acqua e spruzzando i bambini che erano scoppiati a piangere; in quell’occasione c’erano volute diverse promesse (gelati gratis, giochi nuovi e orari prolungati) per riaccendere l’interesse dei bambini, oltre che una sonora strigliata per ricordare a Sting che lui era un adulto e come tale doveva comportarsi. Ma Sting non era solo quello: era anche volontà, spirito di sacrificio, senso di responsabilità (lo confermava il suo sogno di intraprendere la carriera militare) così come dolcezza e altruismo, che Sting aveva mostrato più volte e in svariate occasioni. E Yukino lo amava – perché sì, ne era perdutamente innamorata, anche se non l’aveva mai detto a nessuno − in entrambe le sue versioni, quella più infantile e quella più matura.
    Dopo lunghi minuti di silenzio Yukino prese parola optando per la cosa più ovvia.
    «Allora domani parti, eh?». Le dispiaceva pensare che non avrebbe rivisto Sting per almeno un paio di settimane e che sarebbero andati avanti così per un intero anno e forse anche per quelli successivi, ma era ugualmente contenta che lui potesse finalmente cominciare a costruirsi quel futuro che tanto agognava.
    «Sì!», rispose Sting visibilmente emozionato. «Ho il pullman alle nove».
    Percorsero insieme il vialetto che conduceva alla bella casetta bianca e, quando furono di fronte alla porta, Yukino guardò Sting con un sorriso sincero. «Sono stata bene stasera». Con te, avrebbe voluto aggiungere. Non che non le facesse piacere la compagnia di Minerva (che era sua amica già da molto tempo) o di Rogue (che con il suo fare silenzioso le metteva tranquillità), ma Sting per Yukino era un gradino al di sopra di tutti. Se avesse potuto, Yukino avrebbe passato con lui ogni singolo giorno. Quando erano insieme il tempo sembrava volare.
    Sting sorrise a sua volta. «Anche io sono stato bene, mi mancheranno queste serate...».
    Yukino avrebbe voluto rispondergli “A me mancherai tu”, ma di nuovo non trovò coraggio a sufficienza. Quella sera le parole sembravano bloccate in gola, incapaci di uscire. «Ci vediamo presto allora. Buonanotte, Sting-sama», fu tutto ciò che riuscì a dirgli. Infine si sporse verso di lui e lo baciò velocemente su una guancia, voltandosi subito dopo per evitare che si accorgesse dell’intenso rossore sul suo viso.
    «Buonanotte, Yukino», sentì alle sue spalle, insieme ai passi di Sting che si allontanava.
    Yukino infilò le chiavi nella toppa e fece scattare la serratura mentre si malediceva mentalmente: a causa della fretta non aveva nemmeno augurato a Sting buon viaggio o buona fortuna! Con un sospiro di rassegnazione si ripromise che lo avrebbe fatto il mattino successivo per telefono. Infine, certa che quella serata si sarebbe conclusa con una buona cena in compagnia di sua sorella Sorano e una lunga dormita nel suo comodo letto, aprì la porta e varcò appena la soglia, quando sentì nuovamente la voce di Sting dietro di sé, a qualche metro di distanza.
    «Yukino!».
    La ragazza si voltò di scatto, trovando l’amico fermo sul vialetto. Deglutì a vuoto. «S-sì?».
    «Ma se per caso ti dicessi che sono innamorato di te, tu cosa mi risponderesti?».
    Innamorato di te, innamorato di te, innamorato di te. Quelle parole rimbombarono nella testa di Yukino per una decina di secondi finché non ne colse a pieno il significato: Sting le si era appena dichiarato, in un modo strano e poco comprensibile, ma l’aveva fatto!
    Sgranò gli occhi in preda al panico mentre il suo cuore saltava un battito. Non che non avesse mai fantasticato sulla remota possibilità che Sting potesse ricambiare i suoi sentimenti, ma sentirselo dire da lui stesso, con tanta velocità e alla fine di una normale serata come le altre, era tutta un’altra storia. Cosa avrebbe dovuto dirgli, ora? Aveva solo voglia di correre verso di lui, buttargli le braccia al collo e baciarlo, ma Sting le aveva fatto una ben precisa domanda che esigeva una risposta sincera. Yukino ci rifletté pochi secondi e la risposta venne fuori quasi da sola.
    «Be’, ti direi: perché non me l’hai detto prima, stupido?!».
    Sting, visibilmente sorpreso per l’intraprendenza di Yukino, fece un passo avanti sollevando le spalle e allargando le braccia come in segno di scuse.
    «Ed io ti risponderei: perché la vita da soldato non è facile, rischio di morire ogni giorno lì».
    «Ed io ti direi che non mi importa, che posso aspettarti», ribatté Yukino decisa mentre gli andava lentamente incontro. «Perché anche io sono innamorata di te, Sting-sama». Le ultime parole furono poco più di un sussurro e si dispersero subito nell’aria notturna, ma giunsero forti e chiare all’orecchio attento di Sting.
    Lui infatti sorrise. «In tal caso, credo proprio che ti bacerei».
    «Davvero?», gli chiese Yukino emozionata.
    «Davvero», ripetè Sting.
    Erano a un metro di distanza l’uno dall’altro, immobili, e si guardavano fissi negli occhi senza riuscire a dire o fare altro, come se il tempo si fosse appena bloccato, come se esistessero solo loro due al mondo. Il vialetto, la casa di Yukino, gli edifici intorno, il cielo stellato sopra le loro teste, tutto era come svanito nel nulla. O quasi.
    «Idiota! Vuoi baciarla sì o no?!».
    Yukino inorridì, quella non era la voce di Sting. Sollevò gli occhi verso il balcone dove sua sorella Sorano scuoteva minacciosamente un pugno affacciata alla finestra.
    «Nee-chan, ora puoi anche tornare dentro, grazie!», le disse Yukino fulminandola con lo sguardo.
    Sorano le fece la linguaccia e poi scomparve. Yukino riportò la sua completa attenzione su Sting.
    «Scusami, Sting-sama, mia sorella a volte sa essere davvero un’impiccion−».
    Sting si era mosso in maniera così silenziosa e veloce che Yukino non si era quasi accorta di nulla, eppure sentiva perfettamente le labbra del ragazzo premere contro le sue lasciando che i loro nasi si sfiorassero e le mani di lui stringerle le spalle come per sorreggerla e non lasciarla scappare.
    Quando Yukino realizzò che Sting le aveva appena tappato la bocca con un bacio improvviso, la testa prese a girarle vorticosamente e il cuore a batterle così forte che sembrava volerle scoppiare nel petto. Si sentiva paralizzata, le braccia rigide lungo i fianchi, le gambe che tremavano in preda all’emozione. Fu solo quando Sting si separò pochi centimetri da lei alla ricerca di una sua reazione che Yukino, guardandolo nei luminosi occhi azzurri e trovandovi tutto ciò di cui aveva bisogno, si sciolse come neve al sole e gli gettò le braccia al collo baciandolo sulle labbra con tutto l’amore che poteva.
    «Ti va di salire?», gli propose subito dopo. Ora che sapeva che Sting ricambiava i suoi sentimenti, desiderava passare ancora un po’ di tempo con lui prima della partenza, chiarire alcune cose, fare progetti per il futuro. E baciarlo ancora, ovviamente.
    Sting gettò una breve occhiata al balcone. «E tua sorella...?».
    Yukino sorrise. «Se ne farà una ragione».

    ***



    Erza uscì dalla doccia avvolta da una nuvola di vapore e si coprì con un asciugamano che la fasciava dal petto a metà coscia. Con il phon prese ad asciugarsi i capelli che dal giorno successivo avrebbe tenuto stretti in un perfetto chignon per almeno sei mesi.
    Non era facile la vita militare, men che meno per le donne, ma Erza aveva sentito fin da bambina una certa propensione per i giochi e le abitudini tipiche dei maschi, soprattutto per le armi e il combattimento, forse perché era mancata una figura femminile nella sua vita. La sua madre biologica l’aveva abbandonata in un orfanotrofio quando aveva pochi mesi di vita e non era mai più tornata, così Erza aveva passato la sua infanzia e la sua adolescenza sotto le amorevoli cure di Makarov, il direttore dell’orfanotrofio, l’unica persona che lei potesse considerare un genitore, una famiglia. Circondata prevalentemente da maschi − primi fra tutti Natsu e suo fratello Zeref − Erza era cresciuta come un vero maschiaccio e forse era per quello che non era mai stata adottata. Le coppie che giungevano all’orfanotrofio desideravano infatti una bambina dolce ed educata, quello che Erza non sarebbe mai stata. Così aveva aspettato di finire la scuola e si era buttata a capofitto nella carriera militare riuscendo in pochi anni a guadagnarsi un posto di rilievo nell’esercito e il rispetto dei suoi colleghi uomini. Molti le avevano fatto la corte, folgorati dal suo fascino mascolino e dalla sua forza, sia fisica che d’animo, ma Erza li aveva rifiutati tutti. Il suo cuore, infatti, era già stato catturato dal figlio del proprietario della pasticceria che si trovava all’angolo dell’orfanotrofio, dove fin da piccola Makarov la mandava a fare scorta di dolci per i suoi adorati bambini.
    Di Gerard, Erza aveva amato subito le torte, tanto che spesso lui la prendeva in giro dicendo che un giorno sarebbe scappata via con un suo compagno dell’esercito ed Erza gli rispondeva che no, non avrebbe mai potuto, perché non avrebbe resistito un solo giorno senza le sue doti di pasticcere.
    Proprio in quel momento Erza avvertì un buon profumo di dolci appena sfornati. Spense il phon per seguire quella scia così invitante fino a ritrovarsi in cucina dove Gerard stava tirando fuori dal forno una delle sue specialità.
    «Torta con le fragole», le disse, «la tua preferita».
    Erza lo guardò di sbieco appoggiandosi al ripiano della cucina. «Stai tentando di non farmi partire per caso?».
    Gerard sorrise con una scrollata di spalle. «Ci starei riuscendo?».
    «Mmh... non credo», rispose Erza ridacchiando. Sarebbe stato difficile passare dagli squisiti piatti di Gerard agli insipidi brodini e al pane bruciacchiato della mensa militare, ma Erza avrebbe tenuto duro. Lo avrebbe fatto per Gerard, che l’aspettava pazientemente a casa, e per stessa, che desiderava più di ogni altra cosa affrontare quella missione in Libano.
    «E cosa dovrei fare, allora, per farti rimanere?».
    Erza guardò Gerard, il suo volto era così serio che sembrava volerle impedire davvero di partire. Si convinse che non poteva essere così, che Gerard stesse solo fingendo per prenderla in giro. D’altronde ne avevano già parlato tante volte e lui, dopo numerose lamentele, aveva finito per accettare la sua decisione, nonostante quella fosse la missione più lunga e più dura che Erza avesse mai intrapreso in vita sua. Di solito stava via solo qualche settimana o al massimo due/tre mesi; sei erano tanti, ma non abbastanza da convincerla a rimanere a casa. Niente e nessuno avrebbe potuto convincerla.
    Sì, doveva essere così, Gerard stava scherzando, voleva solo giocare. Ed Erza avrebbe giocato con lui. «Aaah non lo so...». Finse di riflettere e nel frattempo allungò una mano verso il dolce afferrando con due dita una fragola per poi portarla alla bocca. «Vediamo un po’, stupiscimi». Addentò un pezzo del frutto, succhiando sensualmente la polpa morbida e succosa con gli occhi fissi in quelli di Gerard, il cui sguardo passò da curioso a malizioso.
    «Be’, se la metti così allora...». Con un movimento veloce Gerard le si parò davanti intrappolandola tra il proprio corpo e il bancone della cucina. «Ti stupirò talmente tanto che domani mattina avrai cambiato idea». A quel punto le prese il viso tra le mani e la baciò intensamente facendo aderire i loro corpi. Erza gli avvolse le braccia intorno alla schiena rispondendo al bacio con altrettanto ardore, la testa piena di immagini e situazioni decisamente poco innocenti. Chissà cos’aveva in mente quello stupido... Gerard era sempre stato l’unico in grado di farla sentire veramente donna. Per anni Erza aveva cercato di imitare i modi e gli atteggiamenti maschili, poi era arrivato Gerard nella sua vita e lei aveva improvvisamente cominciato a prestare attenzione a quale shampoo usare per avere i capelli più profumati, a quale vestito indossare per apparire più attraente, alle scarpe col tacco, ai trucchi e a tutto ciò che era normale routine per le altre ragazze. Con Gerard aveva scoperto il piacere di farsi – e di sentirsi – bella per la persona amata, di lasciarsi stringere da due braccia protettive nonostante lei fosse l’ultima donna ad aver bisogno di essere difesa. Con Gerard aveva scoperto l’amore in tutte le sue forme, compresa anche la sessualità.
    Erza lasciò che Gerard abbandonasse le sue labbra per delineare con le proprie una scia bollente lungo tutta la mandibola e la linea del collo, che baciò e leccò languidamente inducendola a piegare la testa da un lato e a sospirare appagata. Contemporaneamente una mano di Gerard si infilò sotto il suo asciugamano, prima accarezzandole una coscia, poi risalendo a stringere uno dei glutei con il palmo aperto. Erza si rilassò sotto il tocco di quelle dolci attenzioni, ricambiando con carezze leggere sulla nuca e sulle spalle larghe di Gerard coperte dalla maglia scura. Le mani già le prudevano dalla voglia di spogliarlo e lo stesso doveva essere per lui, dato che non ci pensò due volte a sfilarle l’asciugamano gettandolo per terra. Erza si ritrovò nuda davanti agli occhi di Gerard che poggiò le mani a coppa sui suoi seni e catturò le sue labbra con un nuovo bacio, più lungo e passionale, dove le loro lingue si incontrarono affamate.
    Se solo si fosse fermata a pensare alle prime volte in cui lei e Gerard avevano fatto l’amore, si sarebbe quasi messa a ridere. Lei, la grande Erza Scarlett, una guerriera senza macchia e senza paura che non temeva nemmeno la guerra, solo tre anni prima si era ritrovata ad arrossire pudicamente e a tremare come una bambina nel momento in cui Gerard l’aveva spogliata dicendole che l’amava e che aveva dannatamente voglia di fare l’amore con lei; Erza si era subito stretta forte a lui per evitare che guardasse più del dovuto il suo corpo nudo e a sua volta aveva evitato di guardare e di toccare certe zone del corpo del ragazzo che ora invece conosceva come le sue tasche e che per di più adorava stuzzicare.
    Erza portò le dita al bordo della maglia di Gerard e gliela sfilò da sopra la testa come lui aveva fatto poco prima con il suo asciugamano. Desiderosa di poter accarezzare quel petto accogliente e quegli addominali appena accennati, Erza fece per allungare una mano ma Gerard la bloccò stringendole il polso. «Aspetta», disse enigmatico, sporgendosi di lato per frugare sul bancone della cucina. «Ti piacciono le torte, non è vero, amore?», aggiunse calcando sull’ultima parola.
    Certo che le piacevano le torte, ma in quel momento cosa c’entrava? Erza lo capì solo quando adocchiò tra le mani di Gerard lo spray della panna per torte che seppe scaturire nella sua mente immagini ancora meno caste di quelle di poco prima. Sgranò gli occhi e arrossì appena sulle guance. «Non vorrai mica...?». Sperava di aver capito bene. Come aveva fatto a non pensarci lei stessa prima di quel momento?
    Gerard le sorrise malandrino mentre si spruzzava una buona quantità di panna addosso. Nel guardarlo così, a torso nudo, tutto ricoperto di un vellutato strato bianco, Erza si ritrovò inconsciamente a leccarsi il labbro superiore con la punta della lingua. “Gerard” e “torta” erano le cose che più amava al mondo, quindi una combinazione assolutamente perfetta; aggiungendovi anche le fragole, magari sui capezzoli o poco più in giù, in mezzo alle gambe muscolose del fidanzato, Erza pensò che sarebbe potuta morire sul colpo.
    «Avanti, non vorrai mica tirarti indietro...?», la incoraggiò Gerard rivolgendole un’occhiata maliziosa.
    Erza non se lo fece ripetere due volte. «Ti mangio tutto...», sussurrò con altrettanta malizia.
    Si avventò con la bocca sul petto del ragazzo e, aggrappandosi con le mani alle sue spalle, ingurgitò avidamente tutta la panna che incontrava. Il sapore unico della pelle di Gerard unito a quello zuccherato tipico delle torte risultò delizioso per le sue papille gustative mandandola completamente in estasi. Dalle clavicole si spostò verso i capezzoli, leccandoli e vezzeggiandoli con piccoli giri della lingua, poi seguì i contorni degli addominali, giungendo infine sulla pancia che ripulì con ampie lappate. Gerard fremeva e ansimava ad ogni passaggio della sua bocca e quei sospiri erano musica per le orecchie di Erza.
    «Geniale», si complimentò. «Un’idea assolutamente geniale». Gerard sorrise soddisfatto mentre Erza si apprestava a completare l’opera con maggiore intraprendenza. Usando entrambe la mani abbassò i pantaloni e i boxer di Gerard in un solo colpo, inginocchiandosi contemporaneamente di fronte alla sua intimità svettante finalmente libera dalla stoffa. Afferrò lo spray che Gerard aveva usato poco prima e, stringendogli un fianco, lo ricoprì di panna anche lì sotto. Gerard sussultò per la sensazione della panna fresca che gli solleticava la carne bollente e fu quanto di più erotico Erza avesse mai visto in vita sua. Non vedeva l’ora di assaggiarlo.
    La ragazza si concesse tuttavia un secondo per sollevare gli occhi in alto e guardare Gerard in viso; da quella posizione l’intricato tatuaggio violaceo che gli copriva il lato destro, ricordo di un passato buio che il proprietario cercava disperatamente di dimenticare, sembrava ancora più esteso.
    Gerard allungò una mano verso il viso di Erza accarezzandole dolcemente uno zigomo. Erza chiuse gli occhi e strofinò la guancia contro il suo palmo caldo mentre i ricordi affioravano nella sua mente uno dopo l’altro. Era stato proprio a causa di quel lato oscuro di Gerard che i due si erano avvicinati così tanto. In realtà, all’inizio, quel bambinetto che si nascondeva dietro il bancone della pasticceria non le era affatto piaciuto, troppo fragile e troppo mingherlino per una ragazzina abituata a fare la lotta nel fango. Il vero Gerard, quello di cui Erza si era innamorata, era venuto fuori molto tempo dopo, quando aveva trovato la forza di ribellarsi ad una vita fatta di disgrazie e scelte sbagliate, così da potersi dedicare anima e corpo alla passione per la cucina ereditata dal padre. Gerard le diceva sempre che era stato merito suo, che il suo amore l’aveva salvato appena in tempo da un futuro disastroso, ma Erza gli ripeteva ogni volta che lei non aveva fatto altro che stargli semplicemente vicino mentre si rialzava da solo, con le sue uniche forze.
    Erza riaprì gli occhi, Gerard la guardava con desiderio e impazienza. E lei non era da meno, tutto ciò che voleva in quel momento era amare e farsi amare da lui, imprimersi bene nella mente tutti i suoi sguardi, i suoi baci, le sue carezze, le sue parole, così da poterle serbare con cura nel cuore e rispolverarle nei mesi successivi quando, lontana da lui, ne avesse sentito la mancanza.
    Avvolse con le dita la base dell’erezione ricoperta di panna e avvicinò le labbra alla punta baciandola lievemente. Con la coda dell’occhio vide Gerard piegarsi in avanti e poggiare le mani al bancone della cucina per sostenersi meglio e andare incontro ai suoi movimenti.
    Erza aprì la bocca e accolse parte del membro eccitato. Lo succhiò e lo leccò avidamente su e giù, ripulendolo dalla panna e sentendolo progressivamente ingrossarsi tra le pareti calde e bagnate della bocca. Completamente in balia del piacere, Gerard portò una mano dietro la nuca della ragazza ed esercitò una lieve pressione per incoraggiarla ad andare più a fondo. Lei lo accontentò subito, inglobando completamente l’asta pulsante fino a sentire la punta umida toccarle la gola. Dopo aver rimosso anche l’ultimo residuo di quella gustosa panna, Erza passò la lingua tra i testicoli gonfi giocandoci con delicatezza sia con le mani che con la bocca. Ormai non vedeva più nulla di imbarazzante o di sporco in tutti quei gesti, era quanto di più bello e naturale lei e Gerard potessero fare insieme per dimostrarsi amore a vicenda.
    «Così mi fai venire...». Le mani di lui si posarono ai lati del suo viso costringendola a bloccarsi e a sollevarsi in piedi a metà dell’opera. Quando furono di nuovo l’uno alla stessa altezza dell’altro, Gerard la avvolse con entrambe le braccia e fece cozzare di nuovo le loro labbra. Erza poteva sentire l’intimità del ragazzo, calda e umida della sua stessa saliva, premere contro l’inguine e si scoprì tremendamente eccitata, desiderosa di farsi prendere da lui lì e in quello stesso momento.
    «Gerard...», sussurrò a corto di fiato, alternando occhiate al suo viso accaldato e al tavolo di legno che occupava il centro della cucina e che in quel momento le appariva tremendamente comodo e invitante. Gerard doveva aver avuto la stessa idea perché, intrecciando le loro mani, la trascinò proprio lì invitandola a stendersi.
    Sarebbe stata una notte lunga e movimentata, pensò Erza stesa su quel tavolo mentre Gerard le saliva addosso con intenzioni tutt’altro che innocenti e non riuscì a immaginare niente di meglio per festeggiare la notte prima della partenza.








    Note dell'autrice:
    Ecco a voi il secondo capitolo, spero vi sia piaciuto e che mi lascerete un commentino ♥ Qui scopriamo che al vfp1, volontariato in ferma prefissata per 1 anno, parteciperanno non solo Natsu e Gray ma anche Sting. Alla missione in Libano, invece, Luxus sarà in compagnia di Gajeel ed Erza (che è l'unica donna militare di questa storia). Al prossimo capitolo!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 16:12
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #03. Direzione Centro Addestramento Volontari



    Gray afferrò la giacca verde militare abbandonata sul letto e la indossò di fronte allo specchio. Si sistemò meglio il colletto, si lisciò la stoffa sul busto, si rimboccò le maniche e poi si girò di lato un paio di volte, analizzando con sguardo critico il proprio riflesso.
    «Nervoso?».
    Lo sguardo di Gray ricadde sulla figura impressa nello specchio, suo padre lo guardava da dietro.
    «No», rispose, «è che questi vestiti sono... ingombranti».
    «Non vorrai mica uscire nudo come quando eri bambino?!».
    «Colpa di Ur che ci aveva abituati ad allenarci nudi sotto la neve», rispose Gray ricordando i bei vecchi tempi in cui, da bambino, andava a lezione di karate con Lyon. Da allora aveva preso il vizio di spogliarsi in pubblico ogni qualvolta la testa gli dicesse di farlo, così, senza un vero motivo, e gli era costato parecchi sforzi liberarsi di quella malsana abitudine, come chi cerca di smettere con le sigarette o con l’alcol.
    Rispolverando a sua volta quei vecchi ricordi, Silver scoppiò a ridere per poi tossire convulsamente subito dopo; la grossa cicatrice sul lato sinistro del volto si accartocciava ad ogni colpo di tosse. Gray si voltò preoccupato verso di lui. «Papà?», lo richiamò.
    «Sto bene, sto bene», rispose il vecchio sventolando una mano e poi Gray lo vide darsi una spinta in avanti con la sedia a rotelle per ridurre la distanza che li separava. Si guardarono negli occhi così simili gli uni agli altri e Gray seppe che Silver stava per fargli uno di quei suoi discorsi noiosi e strappalacrime che aveva già sentito un sacco di volte, ma che per Silver erano essenziali e pieni di significato.
    «Andrà tutto bene, Gray, vedrai. Non sarà molto diverso da ciò che ti ho insegnato, solo più... realistico. Ti piacerà, ne sono certo». Silver sollevò una mano verso Gray per dargli due pacche sul viso con fare scherzoso. «Come potrebbe non piacerti, dopotutto? Sei mio figlio!».
    Gray annuì. In tutti quegli anni non aveva mai pensato di intraprendere una carriera diversa da quella militare, esattamente come suo padre e come il padre di suo padre e il padre del padre di suo padre, che in guerra si erano distinti per il loro valore e le loro azioni eroiche, come dimostravano i quadretti in bianco e nero che decoravano le antiche pareti della sua casa: un’intera collezione di foto di guerra della famiglia Fullbuster. Da bambino, Gray aveva ascoltato con entusiasmo le storie di suo padre e di suo nonno, li aveva ammirati e invidiati, e si era ripromesso di diventare come loro. Era per questo che, terminata la scuola, aveva fatto domanda come VFP1, volontario in ferma prefissata per 1 anno, e quasi stentava a credere di essere stato accettato per davvero. Non aveva totalizzato un punteggio alto come quello di Natsu ma era comunque rientrato in graduatoria.
    In realtà, quando Gray aveva letto la risposta positiva del Centro di addestramento, il panico si era impossessato di lui, come se si fosse reso conto solo in quel momento della difficile vita a cui andava incontro. Era una vita che implicava sforzi, sacrifici, rinunce a cui non era ancora abituato e che in fondo al cuore aveva paura di affrontare, a cominciare dalla possibilità di subire un grave incidente come suo padre che in guerra aveva perso l’uso delle gambe o dalla difficoltà di intraprendere una relazione seria e stabile, di costruirsi in futuro una famiglia. Gray non poteva dimenticare come sua madre avesse voluto divorziare da suo padre perché incapace di sopportare a lungo quella vita fatta di continue mancanze e si era ripromesso che lui non avrebbe illuso nessuna ragazza, anche a costo di rimanere da solo.
    Nonostante le iniziali paure Gray si era fatto coraggio dicendosi che non poteva deludere le aspettative di suo padre che riponeva così tanta fiducia in lui, che aveva trascurato se stesso pur di assicurargli un futuro dignitoso. Contagiato anche dall’entusiasmo di Natsu che invece non scaturiva dal racconto delle gesta dei suoi antenati ma da una scelta intima, personale, Gray si era convinto che valesse lo stesso per lui, che non esistesse nient’altro che lui volesse o potesse fare. Era quella la sua strada, non gli restava che percorrerla.
    Il campanello suonò forte e a più riprese, segno che chi stava fuori era euforico e impaziente di partire.
    «È arrivato Natsu», annunciò Gray posando una mano sulla spalla di suo padre. Non era un tipo sentimentale, ma in quel frangente le parole gli vennero fuori spontaneamente. «Mi mancherai, papà».
    Silver strinse a sua volta il braccio di Gray con la mano callosa. Sorrise e le rughe sul suo volto sempre contratto per la sofferenza parvero appianarsi lasciando il posto ad un’espressione rilassata. «Va’ e rendimi fiero».
    «Certo». Gray lo sperava con tutto il cuore. «Per qualunque cosa puoi chiamare Lyon, lo sai». Lyon era infatti l’unica persona, oltre a Natsu, di cui Gray si fidasse ciecamente. Era il fratello che aveva desiderato e che non aveva mai avuto. Per questo era certo che in sua assenza, alla minima chiamata da parte di Silver, Lyon avrebbe raggiunto di corsa casa Fullbuster e si sarebbe occupato del suo vecchio esattamente come avrebbe fatto un secondo figlio.
    Gray afferrò il borsone e si avviò infine verso l’ingresso. Quando aprì la porta, trovò Natsu che saltellava emozionato mentre Lucy, Igneel e Zeref tentavano inutilmente di tenerlo a freno. La solita storia, insomma.
    Gray guardò il cielo azzurro sgombro di nuvole. Era una bella giornata, pensò, e lui si accingeva a continuare la tradizione di famiglia. Doveva solo fare il primo passo e tutto il resto sarebbe stato in discesa. O almeno era quello che sperava.

    ***



    «Come diamine avrà fatto ad addormentarsi?! Fino ad un minuto fa era euforico!».
    «Stanotte è stato fuori casa... credo sia un po’ stanco».
    «Lucy, tu ne sai qualcosa?».
    «C-come?! No, certo che no! Io non so nulla, dormivo a casa mia per i fatti miei...».
    «Sarà meglio svegliarlo, siamo quasi arrivati».
    Sentendosi strattonare per un braccio, Natsu aprì lentamente gli occhi ed emise un sonoro sbadiglio senza preoccuparsi di coprire la bocca con la mano. Quando mise a fuoco l’interno dell’auto di suo padre e la strada che scorreva attraverso il finestrino, quasi sobbalzò sul sedile rischiando di sbattere la testa contro quello davanti. «Che ore sono?!», chiese allarmato.
    «Siamo in perfetto orario, Natsu», rispose Igneel seduto al volante.
    Il giovane emise un sospiro di sollievo. Durante quei pochi minuti di sonno, aveva sognato di aver perso il pullman, di averlo rincorso inutilmente trascinandosi appresso il borsone e di essersi infine accasciato sull’asfalto con il cuore a pezzi, ma per fortuna era stato solo un incubo.
    La sua stanchezza era dovuta al fatto che quella notte non aveva chiuso occhio. Nonostante il letto di Lucy fosse sempre stato molto più comodo del suo e in grado di trasportarlo in un sonno profondo, quella notte Natsu si era rigirato sul materasso più e più volte, aveva fissato per ore il soffitto, si era affacciato alla finestra con lo sguardo rivolto al cielo punteggiato di stelle e infine si era nuovamente infilato nel letto lasciandosi cullare dal respiro leggero e regolare di Lucy che dormiva dandogli la schiena, ma l’emozione per il giorno dopo gli aveva impedito di prendere sonno. All’alba aveva lasciato la casa di Lucy uscendo dalla finestra come quando era bambino; aveva fatto un salto sull’albero che sorgeva proprio di fronte alla stanza della sua amica ed era sceso lungo il tronco fuggendo via con passo felpato prima che il signor Heartfilia lo scoprisse e lo picchiasse di santa ragione.
    «Ecco il vostro pullman», annunciò Igneel indicando con la mano davanti a sé.
    Gli occhi di Natsu saettarono verso un grosso pullman verde parcheggiato lì vicino, circondato da uomini in divisa che salutavano le proprie famiglie. Igneel a sua volta si parcheggiò nelle vicinanze e Natsu si fiondò fuori dall’auto seguito dal resto della comitiva, avvertendo la stanchezza dissolversi nel nulla ad ogni passo.

    ***



    «Ehi, Sting, ma chi stai aspettando esattamente?», chiese Rogue perplesso.
    Tutto preso dal fissare la strada deserta davanti a sé, il giovane Eucliffe sorrise con aria misteriosa. «Vedrai, è una sorpresa».
    Aveva passato tutta la serata a casa di Yukino: avevano cenato sotto lo sguardo vigile di Sorano alla quale non era sicuro di stare troppo simpatico e poi si erano rifugiati nella stanza di Yukino a baciarsi e a strusciarsi sul suo letto; come avesse fatto a mantenersi calmo e a non spogliarla per farla sua immediatamente, Sting proprio non lo sapeva, ma comunque era certo che lui e Yukino avrebbero avuto tempo a sufficienza anche per quello. Tornato a casa si era buttato a peso morto sul letto addormentandosi in un istante e quella stessa mattina aveva fatto tutto così di fretta che non aveva avuto nemmeno il tempo di annunciare la lieta notizia.
    «Sting-sama!».
    Sting sollevò lo sguardo impaziente. Yukino, il caschetto bianco un po’ spettinato e un’espressione sorridente stampata sul volto, gli correva incontro muovendo una mano per attirare la sua attenzione. Arrivata di fronte a loro, salutò cortesemente Rogue e Weisslogia, poi si avvicinò a Sting e, sollevandosi sulle punte dei piedi, gli stampò un bacio sulle labbra.
    «Cosa mi sono perso?!», esclamò Rogue sbalordito con la mascella che sfiorava terra.
    «Io e Yukino ci siamo messi insieme», annunciò Sting stringendole orgogliosamente una mano e traendola verso di sé per lasciarle un bacio tra i capelli. Con la coda dell’occhio la vide arrossire un po’ sulle guance e pensò che quella ragazza dall’animo così nobile fosse quanto di meglio potesse desiderare dalla vita insieme ad una brillante carriera militare. Per lui Yukino riassumeva in sé tutte le donne che non aveva mai avuto: una madre in grado di rimproverarlo quando sbagliava ed elogiarlo quando faceva dei progressi, una sorella da proteggere e con la quale crescere, una migliore amica a cui confidare tutti i suoi segreti più reconditi, una fidanzata che amava e che lo amava con la quale magari costruirsi in futuro anche una famiglia.
    Il rombo del pullman che veniva messo in moto lo riportò con i piedi per terra. Sting guardò uno ad uno quei volti familiari che lo circondavano. Non era un addio ovviamente e di certo avrebbe sfruttato tutti i weekend liberi per tornare a casa, ma il pensiero di dover vivere lontano dalle persone che amava per tutto quel tempo insinuava nel suo cuore un barlume di nostalgia ancora prima di partire. Cominciò da Weisslogia il quale lo guardava con il suo solito atteggiamento impassibile, reso ancora più austero dalla lunga barba bianca e dai capelli dello stesso colore legati in una coda bassa che pendeva dietro la schiena. Non era mai stato molto aperto in fatto di sentimenti, complice anche la morte prematura di sua moglie, ma Sting sapeva che suo padre gli voleva un gran bene e lui gliene voleva altrettanto.
    «A presto, papà», gli disse semplicemente guardandolo negli occhi dorati.
    L’uomo posò una mano sulla spalla del figlio e sorrise impercettibilmente. «Stai attento».
    Sting annuì e si rivolse poi a Rogue il quale puntò un pugno verso di lui come quando erano bambini. Sting sollevò a sua volta la mano battendo il pugno in segno di amicizia, ma prima che Rogue potesse ritrarsi, lo tirò verso di sè e lo abbracciò. Rogue, poco incline alle dimostrazioni d’affetto esattamente come Weisslogia, si irrigidì tra braccia dell’amico. «Sicuro di non voler venire?», mormorò Sting contro la sua spalla senza farsi sentire dagli altri.
    «Questo è il tuo sogno, Sting, non il mio», rispose Rogue.
    Sting pensò che quello fosse davvero un peccato. Erano sempre stati insieme lui e Rogue, sempre in due: a scuola, nello sport, durante le uscite, perfino in amore (Sting era certo che, come lui era innamorato di Yukino, così Rogue provasse qualcosa per Minerva anche se non riusciva ad ammetterlo). Sting aveva cercato più volte di convincere l’amico a fare domanda per entrare nell’esercito, ma Rogue si era rifiutato categoricamente affermando che quella vita non faceva per lui, che aveva bisogno di tranquillità e stabilità. Le loro strade, rimaste fino a quel momento perfettamente parallele, prendevano ora due direzioni opposte, ma una cosa Sting gliela doveva dire. «Prenditi cura di lei», gli sussurrò in un orecchio prima di staccarsi.
    Quando si ritrovarono nuovamente faccia a faccia, occhi negli occhi, Rogue annuì come a dirgli “te lo prometto, sta’ tranquillo” mostrando di aver capito perfettamente la preoccupazione di Sting. In realtà era una preoccupazione piuttosto infondata. Cosa sarebbe mai potuto succedere a Yukino rimanendo lì in città? Conduceva una vita tranquilla, i suoi studi per diventare maestra la tenevano impegnata tutto il giorno, inoltre sua sorella Sorano vegliava costantemente su di lei. Nonostante ciò, Sting non poteva fare a meno di pensare che partire per il militare significasse lasciare Yukino da sola, specialmente ora che aveva trovato il coraggio per dichiararsi e aveva scoperto che Yukino lo ricambiava. Il fatto che Rogue, il suo migliore amico, la persona di cui si fidava di più al mondo, sarebbe rimasto lì con lei a controllare che nessuno la importunasse mentre lui era via, in qualche modo lo rassicurava e gli dava forza.
    Dopo aver salutato Rogue, Sting passò infine a Yukino i cui grandi occhi castani gli restituirono uno sguardo vagamente triste. Per un attimo Sting si pentì di essersi dichiarato la sera prima − rimanendo allo scuro della reciprocità dei loro sentimenti, forse entrambi avrebbero sofferto di meno nello stare lontani − ma poi si diede mentalmente dello stupido per aver solo pensato una cosa del genere. Ora che stavano insieme, infatti, Sting avrebbe avuto un motivo in più per tornare a casa e Yukino un motivo in più per aspettarlo.
    Le si avvicinò e avvolse le braccia intorno alla sua vita stringendola a sé. Yukino si fece piccola piccola all’interno dell’abbraccio e, poggiando la fronte sul petto di Sting, acciuffò due lembi della sua giacca. «Scrivimi ogni volta che puoi. Bastano anche due parole».
    «Due parole come “tutto okay” o due parole come “ti amo”?».
    Yukino ridacchiò. «Entrambe...».
    Sting la allontanò da sè per poterla guardare negli occhi e stringerle le mani. Infine si chinò a baciarla sulle labbra una, due, tre volte e asciugò con i pollici le lacrime impigliate tra le sue ciglia. «Tieniti lontana da ogni esemplare di sesso maschile che non sia mio padre o Rogue, okay?», le ricordò con un tono a metà tra il serio e lo scherzoso.
    Yukino annuì sorridendo. «E tu non invaghirti di qualche bella soldatessa...».
    «Ho già fatto la mia scelta», fu la risposta veloce e sincera di Sting che fece arrossire Yukino fino alle punte dei capelli. Sting avrebbe voluto baciarla un’ultima volta ma era certo che non si sarebbe staccato più, quindi preferì lasciare le mani di Yukino e fare un passo indietro.
    «Ora devo andare», le disse sfiorandole un braccio con le dita.
    Si allontanò sollevando una mano in segno di saluto e infine salì sul pullman lasciandosi alle spalle le tre persone più importanti della sua vita per intraprendere un viaggio che lo avrebbe portato più lontano di quanto pensasse.

    ***



    «Naaaatsu, figliolo! Mi mancherai così tanto!».
    Natsu lasciò che il padre lo stringesse tra le braccia arruffandogli i capelli con una mano. Borbottò un flebile «Non trattarmi come un bambino, vecchio...», ma in cuor suo sentiva di aver bisogno di quell’abbraccio tanto quanto lui.
    Igneel non era il suo vero padre in realtà. Lui e suo fratello maggiore Zeref erano vissuti in un orfanotrofio durante i loro primi anni di vita, poi era arrivato Igneel e li aveva adottati entrambi, anche se con qualche difficoltà: il direttore dell’orfanotrofio, Makarov, desiderava solo il meglio per i suoi bambini e si era inizialmente apposto all’adozione per il fatto che Igneel non avesse una moglie. Igneel aveva insistito dicendo che una moglie non la voleva, che le donne lo avevano solo rovinato, ma desiderava ardentemente crescere dei figli. Makarov era rimasto colpito, aveva capito che i suoi bambini sarebbero stati in buone mani e alla fine Igneel era riuscito a portarsi a casa sia Natsu che Zeref e da allora li aveva allevati con tutto l’amore che poteva.
    Natsu si staccò dal padre che a sua volta si asciugò una lacrimuccia, visibilmente commosso per la partenza del figlio. «Ricorda, Natsu, non devi fare niente che non vuoi fare. Se questa vita non ti piace, mollala e torna dal tuo vecchio! Sarei orgoglioso di te in qualunque caso».
    «Scordatelo, non cambierò mai idea», affermò Natsu convinto. «Piuttosto, mentre sono via, vedi di trovarti una donna».
    «Chi dice donna dice danno», decretò Igneel scuotendo la testa.
    Natsu ridacchiò. Suo padre non gli aveva mai davvero raccontato cosa gli avessero fatto di tanto crudele le donne. Forse era stato tradito? O semplicemente abbandonato? Poco importava, comunque, dato che Igneel mostrava di stare benissimo da solo con i suoi due figli. Da quel momento, però, si sarebbe dovuto accontentare della sola presenza di Zeref. Quando Natsu gli aveva accennato della sua intenzione di intraprendere la carriera militare, Igneel non l’aveva presa molto bene: «Tornerai a casa traumatizzato come quei reduci di guerra che fanno vedere in tv», diceva, «o peggio ancora, ti farai ammazzare». C’erano voluti diversi mesi per convincerlo che sarebbe andato tutto bene e alla fine Igneel aveva capito che quello di Natsu era un sogno così grande, così forte, che niente avrebbe potuto fermarlo.
    Natsu non ricordava un momento preciso in cui avesse cominciato ad ammirare quegli uomini in divisa che partivano per portare la pace in terre lontane. Dacché se lo ricordasse, aveva sempre preferito giocare al soldato piuttosto che a nascondino, fare un salto al poligono piuttosto che guardare una partita di calcio. Era sempre stato una sorta di istinto naturale che gli diceva che era quello il suo futuro, che non esisteva nient’altro che avrebbe potuto renderlo felice.
    Gli dispiaceva abbandonare suo padre, ma lo rassicurava il fatto che accanto a lui ci sarebbe stato suo fratello maggiore Zeref. Natsu gli si avvicinò non sapendo bene in che modo salutarlo. Aveva sempre avuto un rapporto contrastante con lui, erano l’uno l’opposto dell’altro: Natsu sempre allegro e iperattivo, Zeref taciturno e vagamente triste. Da piccolo, Natsu cercava di coinvolgerlo nei suoi giochi, ma Zeref sembrava preferire attività tranquille come la lettura. Anche con Igneel si comportavano in modo diverso: quando l’uomo li aveva adottati, Zeref ci aveva impiegato anni prima di chiamarlo “papà”, a differenza di Natsu che si era subito sentito amato come un vero figlio e non smetteva di ringraziare Igneel per averli presi con lui. Non ne avevano mai parlato, ma Natsu era abbastanza sicuro che Zeref, essendo nato qualche anno prima di lui, avesse ricordi della loro famiglia biologica che lo tormentavano profondamente. Nonostante ciò, Natsu voleva un gran bene pure a lui. Si limitò a porgergli una mano in segno di saluto e a guardarlo nei profondi occhi neri, così diversi dai suoi che invece erano verdi. Chissà chi dei due li aveva ereditati dal padre e chi dalla madre... forse non lo avrebbero mai saputo, ma a Natsu nemmeno interessava in realtà.
    «Stammi bene, fratellone», concluse. Zeref gli strinse silenziosamente la mano e questo a Natsu bastò.
    Lo sguardo del ragazzo ricadde infine su Lucy che osservava la scena in disparte con le lacrime agli occhi.
    «Lucy», la richiamò.
    «N-non sto piangendo!», esclamò lei asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Mi dev’essere entrato qualcosa negli occhi...».
    Natsu le afferrò i polsi e la costrinse ad aprire le braccia. La trovò particolarmente carina con le guance arrossate, gli occhi lucidi che guardavano in tutte le direzioni tranne che verso di lui e il labbro inferiore che tremava di commozione. Le passò le mani dietro la schiena e la tirò verso di sé stringendola forte al petto. Piegando la testa da un lato, poggiò infine il mento sulla sua spalla e le sussurrò in un orecchio «Andrà tutto bene, okay? Non stare in pensiero per me».
    Lucy rilassò le braccia tese e ricambiò l’abbraccio. «Sono così fiera di te, Natsu. Guarda dove sei arrivato, accidenti a te...».
    «Guarda dove siamo arrivati», la corresse lui distanziandosi quel tanto che bastava per poterla guardare negli occhi. «Quando io sarò un militare a tutti gli effetti, tu ti starai laureando in medicina, Lucy! E con il pieno dei voti!».
    Lucy annuì con un sorriso smagliante sul volto. La tensione e la tristezza di poco prima sembravano ormai svanite.
    «Manteniamoci in contatto, Natsu».
    «Certo, ti scriverò tutti i giorni!».
    «E non combinare casini, che lì non ci sono io a sistemarli», proseguì Lucy battendo un innocuo pugno sul braccio di Natsu, il quale non potè che ridacchiare al ricordo di tutte le marachelle che aveva combinato da ragazzino: quella volta in cui aveva colpito il cane dei vicini con la sua pistola giocattolo o quella volta in cui lui e Gray si erano ubriacati finendo per pestarsi a vicenda o ancora quando aveva preso la macchina di Igneel senza patente per andare al mare, per non parlare di tutte le volte in cui aveva marinato la scuola. In ognuna di quelle occasioni Lucy, con la sua straordinaria pazienza, l’aveva coperto e aveva fatto in modo che non venisse punito. Lucy vegliava sempre su di lui, era il suo angelo custode.
    «Tu non studiare troppo, che ti fa male», le ricordò. Ammirava la storica capacità di Lucy di prendere il massimo dei voti in tutte le materie scolastiche, ma non invidiava per nulla la strada che lei aveva scelto per il suo futuro. Di sicuro lui sarebbe impazzito a dover studiare per lunghi anni quei grossi libri pieni di nomi di malattie, formule chimiche e chissà cos’altro, per poi chiudersi dalla mattina alla sera in una stanza tutta bianca che sapeva di disinfettante! Fermandosi a riflettere, però, si era reso conto che la sua strada e quella di Lucy convergevano entrambe verso un unico punto comune: mantenere in vita quante più persone possibili, seppur in modi totalmente opposti.
    Tutti quei pensieri andarono a farsi benedire nel momento in cui Lucy gli afferrò la testa tra le mani, portando i loro visi l’uno di fronte all’altro, e si sollevò sulle punte dei piedi fino a toccargli la fronte con le labbra. Un contatto così breve e soffice che, quando Lucy si tirò indietro, Natsu pensò di esserselo immaginato, ma il calore che sentiva ancora sulla pelle della fronte era dannatamente reale.
    «Ti voglio bene, Natsu». Lucy glielo disse con un’intensità tale che a Natsu parvero le parole più belle del mondo: più belle di «Mi chiamo Igneel, sono il vostro papà» e perfino più belle di “Gentile Natsu Dragneel, Le comunichiamo che è stato accettato a pieni voti nel nostro Centro Addestramento Volontari”.
    Sorrise di cuore. «Anche io te ne voglio, Lucy, tantissimo».
    Con il volto così vicino a quello dell’amica, Natsu riusciva a cogliere tutte le pagliuzze dorate nei suoi occhi color cioccolata. Li aveva sempre trovati belli gli occhi di Lucy o forse era più corretto dire che aveva sempre trovato bella lei, con quei lunghi capelli biondi in cui amava affondare le dita e quella sua espressione concentrata quando era impegnata a studiare e quelle sue labbra arricciate per la stizza o piegate in un bel sorriso. E adorava il modo in cui i loro corpi si incastravano alla perfezione nel letto di Lucy e il modo in cui lei sbraitava quando d’estate le si appiccicava di proposito addosso facendola sudare ulteriormente o ancora il modo in cui si preoccupava per lui − per un graffio o un lieve mal di testa − e aveva sempre la cura giusta a portata di mano e gli occhi le brillavano nell’aiutare le persone.
    Natsu pensava spesso che definirla amica fosse riduttivo. Erza era sua amica, Juvia era sua amica, ma Lucy... insomma, era Lucy, la sua Lucy. Chi li conosceva bene diceva che si sarebbero messi insieme prima o poi, che un’amicizia così forte e duratura sarebbe presto sfociata in una relazione senza quasi che se ne accorgessero, ma Natsu non dava peso a quelle parole. Non sapeva bene come definire il suo rapporto con Lucy, non sapeva esattamente cosa fosse quello che sentiva per lei, ma per ora non gli importava. Lucy era sempre stata al suo fianco e sempre ci sarebbe stata, bastava quello.
    «Ora vai, Natsu», gli ricordò lei indicando con gli occhi le file di militari che salivano sul pullman.
    Natsu annuì e si scambiò un’ultima occhiata con il padre e il fratello, infine chiamò Gray rimasto in disparte e insieme si allontanarono verso il pullman.
    Il giorno tanto atteso era arrivato e Natsu non poteva essere più felice di così.

    ***



    Gray continuava a guardarsi ossessivamente intorno nell’attesa di veder comparire da un momento all’altro una chioma di capelli blu. Aveva sperato fino all’ultimo che Juvia venisse a salutarlo prima della partenza, ma non era stato così... che illuso. Come poteva pretendere che lei lo raggiungesse dopo il modo in cui l’aveva trattata la sera prima? La verità era che Gray ci aveva pensato per tutta la notte. Da una parte era sicuro della sua scelta: rifiutarla era stata la cosa migliore, i suoi genitori da tempo divorziati erano la prova vivente che tra la vita miliare e la vita affettiva non poteva esserci punto d’incontro e l’ultima cosa che voleva era illudere Juvia di poterle assicurare un futuro felice. Dall’altra parte, però, continuava a chiedersi se negarsi la possibilità di una relazione non fosse deleterio per entrambi, per Juvia che lo amava così intensamente e per lui che non aveva mai avuto una storia seria ma solo scappatelle.
    Juvia gli piaceva. Gli piaceva il modo in cui parlava di sé in terza persona, cosa che la gente trovava strana ma che a Gray faceva sorridere perché rendeva Juvia speciale, unica nel suo genere. Gli piaceva il modo in cui gli occhi di Juvia si illuminavano nel vederlo, il modo in cui arrossiva quando erano troppo vicini. Non la amava, questo no − amore era una parola troppo grossa che andava usata con cura − ma comunque gli sarebbe piaciuto frequentarla se solo non avesse dovuto intraprendere la carriera militare. Per tutti questi motivi, rifiutare la dichiarazione di Juvia la sera prima gli era costato uno sforzo enorme e, nel vederla correre via sull’orlo delle lacrime, il cuore gli si era stretto in una morsa dolorosa.
    «Ehi, Gray, dobbiamo andare!», gli ricordò Natsu tirandolo per un braccio. «Il pullman sta per partire, manchiamo solo noi!».
    Dopo aver rivolto un’ultima occhiata alla strada deserta, Gray sospirò rassegnato e si lasciò trascinare dall’amico. La porta automatica del pullman si chiuse alle sue spalle, così Gray andò a sedersi agli ultimi posti abbandonando il borsone ai piedi. Poggiò la fronte contro il finestrino e chiuse gli occhi per riposare durante il tragitto. Il pullman si mosse acquistando velocità, i passeggeri cominciarono a parlare tra loro. Gray ascoltava ad occhi chiusi la voce squillante di Natsu che faceva già amicizia con un certo Sting Eucliffe, come gli si era presentato, quando all’improvviso avvertì il pullman frenare bruscamente mandandolo quasi a sbattere contro il sedile davanti. Aprì di scatto gli occhi. «Che diavolo succede?!», chiese allarmato.
    «Una ragazza ci sta venendo incontro sbracciandosi!», gli disse un ragazzo seduto poco più avanti.
    Colto da uno strano brivido lungo la schiena, Gray balzò istintivamente in piedi, attraversò tutto il pullman e raggiunse il conducente che, utilizzando epiteti poco carini, faceva segno alla suddetta ragazza di spostarsi.
    «Juvia!», esclamò Gray incredulo. Si chiese se per caso non si fosse addormentato sul sedile e se quello non fosse solo uno stupido sogno, ma ogni cosa che lo circondava – l’interno del pullman, il conducente che sbuffava accanto a lui, la figura snella di Juvia che lo attendeva giù, le lamentele degli altri passeggeri – tutto era così dannatamente nitido e concreto che non poteva essere solo frutto della sua fantasia. La realtà era che Juvia era venuta, era venuta solo per lui, per salutarlo, nonostante la sera prima l’avesse fatta piangere a dirotto. Chi ci avrebbe mai creduto? Solo lei, sempre così buona e sempre così pazzamente innamorata di lui, avrebbe potuto fare una cosa del genere. E lui era decisamente uno stupido a lasciarsela sfuggire...
    «Apra la porta!», urlò Gray al conducente.
    «Ehi, ragazzino, tu non mi dici cosa fare!», rispose l’uomo contrariato.
    Gray lo minacciò con lo sguardo. «Se non la apre subito, giuro che la butto giù a calci!».
    A quel punto il conducente eseguì a malincuore l’ordine. La porta automatica si aprì e Gray si precipitò lungo gli scalini così velocemente che quasi rischiò di inciampare. Juvia era proprio lì davanti a lui, i capelli in disordine e il fiatone. Chissà come aveva corso pur di raggiungerlo! Eppure gli occhi le brillavano di felicità.
    «Gray-sama, Juvia ti perdona!», esclamò la ragazza saltando al collo di Gray. «A Juvia non importa se non la ricambi, Juvia continua a volerti bene e aspetterà con impazienza tue notizie!».
    Piacevolmente sorpreso, Gray ricambiò la stretta di Juvia e le accarezzò dolcemente la testa godendo del calore che il volto di lei irradiava contro il suo petto. «Grazie, Juvia. Ti terrò aggiornata, promesso».
    La ragazza si staccò da lui e gli sorrise con le gote rosse, poi si allontanò muovendo una mano in segno di saluto e Gray a sua volta risalì sul pullman, un po’ imbarazzato per gli applausi e i fischi dei militari. Infine si accasciò sul sedile con un sospiro di sollievo, gli occhi rivolti alle file di edifici che scorrevano dietro il finestrino e il calore di Juvia ancora impresso sul petto che sembrava voler sciogliere il suo cuore di ghiaccio.









    Note dell'autrice:
    Non ho molto da dire su questo capitolo, ho voluto concentrarmi un po' anche sui legami familiari e di amicizia, oltre che sull'amore. Appare fin da subito evidente che quello meno convinto della propria scelta è Gray. Ce la farà a superare le difficoltà o ad un certo punto mollerà tutto? Lo scoprirete nei prossimi capitoli!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 16:18
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #04.Viaggio verso l’altra parte del globo




    «Ho dimenticato qualcosa, ne sono certa... Ma cos’è? Cosa può essere?», continuava a ripetere Mirajane da quando erano usciti di casa per recarsi all’aeroporto. Una volta lì, Luxus parcheggiò e scese dall’auto seguito dalla moglie e dalla figlia. Prese la valigia dal cofano, la poggiò per terra e poi si voltò a guardare Mirajane, ancora visibilmente preoccupata. «Mira», provò a rassicurarla, «lo dici ogni volta che parto, è solo una tua sensazione».
    «Ma stavolta è diverso! Ho davvero dimenticato qualcosa», si impuntò Mirajane convinta delle proprie parole.
    Fin dalla prima volta in cui, entrando in quel bar con l’insegna “Fairy Tail” per prendere un caffè al volo, aveva posato lo sguardo su Mirajane e l’aveva osservata trafficare dietro il bancone, Luxus aveva pensato che fosse semplicemente bellissima. Così bella che con quei capelli bianchi come la neve, quegli occhi azzurri da cerbiatta e quelle forme prosperose nascoste al di sotto dei vestiti lunghi e all’antica, avrebbe potuto benissimo lasciare il lavoro di cameriera e fare la fotomodella. Poi l’aveva conosciuta meglio e aveva scoperto che Mirajane era rimasta orfana di entrambi i genitori all’età di diciotto anni. Non avendo altri parenti che potessero aiutarla, aveva dovuto fin da subito rimboccarsi le maniche per mantenere se stessa e i suoi due fratelli minori, ma nonostante ciò era rimasta gentile e disponibile con tutti, sempre con il sorriso stampato sul volto chiaro.
    Da quel primo fatidico incontro tra Luxus e Mirajane era nato un amore profondo e duraturo, presto sfociato nel matrimonio e nella nascita di Maiya. Il militare, assente di continuo a causa del suo lavoro, pensava talvolta di non meritarsi una donna tanto perfetta: Mirajane gestiva egregiamente il bar lasciatole in eredità dai coniugi Strauss e trovava anche il tempo di occuparsi della casa e preparare deliziosi manicaretti; non si arrabbiava mai, era una moglie e una mamma sempre presente e sempre paziente. L’unico suo punto debole, per così dire, era la scarsa memoria e Luxus la prendeva in giro dicendole che un giorno si sarebbe dimenticata pure di lui; in quelle occasioni Mirajane metteva il broncio come una bambina e gli dava piccoli pugni sul petto rispondendo che non avrebbe mai potuto dimenticare colui che l’aveva salvata da una vita triste e grigia.
    Tornando con i piedi per terra, Luxus strinse la spalla di Mirajane per infonderle coraggio e sicurezza.
    «Se davvero ti sei dimenticata qualcosa, vorrà dire che me la farò prestare da qualche collega».
    Mirajane indugiò ancora picchiettandosi due dita sulla guancia. «E se fosse qualcosa di importante? Qualcosa che nessuno può prest−».
    Luxus si era chinato verso di lei e l’aveva messa a tacere con un bacio veloce ed improvviso premendo la mano sulla sua nuca. Da fidanzati, prima di ogni partenza, il militare era solito cercare di imprimersi bene nella mente il dolce sapore delle labbra di Mirajane e l’azzurro limpido dei suoi occhi per l’assurda paura di poterli dimenticare, un po’ come faceva lei con le chiavi di casa o con la lista della spesa. Ora Luxus non aveva più bisogno di soffermarsi su quei dettagli perché conosceva tutto di Mirajane, ogni pregio e ogni difetto, ogni sguardo e ogni gesto, e non avrebbe mai potuto rimuoverli né dalla mente, né tantomeno dal cuore. Nemmeno volendo.
    Quando Luxus avvertì una manina tirargli la stoffa del pantalone, si staccò da Mirajane – che con quel bacio sembrava essersi improvvisamente dimenticata della sua presunta dimenticanza – e si piegò sulle ginocchia raggiungendo in altezza la piccola Maiya che lo guardava fisso fisso con i suoi occhioni azzurri così simili a quelli della madre. «Devi andale pe’ fozza, papà?».
    Intenerito, Luxus accarezzò con una mano la guancia rosea e paffuta della bambina.
    «Sì, ma torno presto. Tornerò prima che tu possa dire “il mio papà è il più bello del mondo”».
    «I’mmio papà è i’più bello de’mmondo», ripetè la bambina ridacchiando.
    Sorridendo di rimando – quel raro sorriso che riservava solo alle due donne delle sua vita – Luxus aprì le braccia per accogliere la piccola. Quest’ultima lasciò la mano con cui stringeva quella di Mirajane e si gettò sul padre cingendogli il collo con le braccine sottili. Luxus le posò una mano sulla schiena e l’altra sui corti capelli biondi abbracciandola forte. Era così piccola tra le sue braccia muscolose, così fragile e delicata che aveva quasi paura di romperla.
    Il momento della sua nascita era ben impresso nella mente del militare: quando Mirajane, stremata per il parto ma ancora più bella del solito, gli aveva messo tra le braccia quella creatura minuscola, Luxus si era chiesto come avesse fatto a dare vita a qualcosa di tanto bello e innocente lui che aveva mani tozze, una profonda cicatrice che gli deturpava il viso e la guerra nel cuore. Doveva essere stato merito di Mirajane, si era detto, la sua immacolata bellezza e la sua immensa bontà d’animo dovevano aver preso il sopravvento e di questo Luxus non avrebbe potuto essere più contento, eppure quella cosina che stringeva tra le braccia aveva sottili capelli biondi, proprio come lui. Nel ritrovare qualcosa di se stesso in una bimba che era la perfetta copia di sua moglie, Luxus se ne era perdutamente e inesorabilmente innamorato. E a distanza di quasi quattro anni quell’amore così puro non aveva fatto altro che crescere.
    «Maiya», sussurrò all’orecchio della bimba, «ora devo andare».
    Maiya annuì. Era stato all’età di un anno e mezzo che aveva cominciato ad accorgersi delle lunghe assenze di suo padre e a piangere disperata ogni qualvolta lo vedesse allontanarsi con la divisa da militare addosso, tanto che per Luxus salutarla si rivelava ogni volta uno strazio: quelle guance rigate di lacrime e quei pugnetti che si agitavano convulsamente in aria erano in grado di trafiggerlo dritto al cuore peggio di un proiettile. Da qualche tempo, però, Maiya non piangeva più al momento della sua partenza. «Non mi vuoi più bene?», le aveva chiesto una volta Luxus fingendosi dispiaciuto e Maiya si era allarmata, spiegandogli a parole sue che si era ormai abituata all’idea di dovergli stare lontano ma era certa che lui sarebbe sempre tornato a casa. «Papà mantene sempe le sue pomesse», diceva spesso con tono orgoglioso e Luxus era a sua volta orgoglioso della bimba coraggiosa che la sua Maiya era diventata.
    Quando l’uomo si scambiò un’occhiata complice con Mirajane, la donna capì che era arrivato il momento di separarsi e, con gli occhi lucidi di commozione per quell’abbraccio tra padre e figlia, si chinò a prendere Maiya con sé. Luxus si rimise in piedi e diede un ultimo bacio sulla fronte di entrambe.
    «Non dimenticarti di scrivermi», disse infine Mirajane asciugandosi gli occhi con il dorso della mano.
    Luxus le scoccò un’occhiata scettica rispondendo «Nemmeno tu» e Mirajane, cogliendo l’allusione, si vendicò scherzosamente con un pizzicotto sul braccio di Luxus che gli fece tutt’altro che male. Quando Maiya fece ciao ciao con la manina, il militare ricambiò con un sorriso e infine si allontanò trascinandosi dietro la valigia senza più guardarsi alle spalle, per paura di non resistere alla voglia di fare retromarcia.

    ***



    Poggiato con le mani ai bordi del lavandino, Gajeel si guardava allo specchio storcendo il naso di fronte al proprio riflesso. Con i capelli così corti, le orecchie e le sopracciglia libere dagli orecchini e dai piercing che era solito portare, gli sembrava di essere tornato un ragazzino tenero e innocente e di incutere un’aria molto meno paurosa e molto più pacifica del solito. Quasi non si riconosceva in quelle condizioni, non riusciva ad essere pienamente se stesso, si sentiva come privato di una parte importante del proprio io. Tuttavia non aveva altre alternative: i capelli lunghi, così come accessori e tatuaggi vari, non erano ben accetti nell’arma, quindi il giorno prima aveva dovuto far visita, come di consueto, al suo barbiere di fiducia ed ora si era anche disfatto di tutto il metallo che portava in faccia.
    Con un sospiro rassegnato uscì dal bagno, afferrò la sacca contenente solo pochi indumenti e andò ad aprire la porta dell’ingresso.
    «Lily, è ora», annunciò nel frattempo. Attese che l’interpellato lo raggiungesse, cosa che ovviamente, come tutte le altre volte, non avvenne. Gajeel si piegò sulle ginocchia per guardare sotto il tavolo: Lily se ne stava raggomitolato sul pavimento, gli occhi chiusi e la coda che si muoveva mollemente in aria.
    «Lily!», lo chiamò di nuovo, ma il gatto continuava ad ignorarlo. Gajeel, già in ritardo per aver rotto la sveglia con un pugno e aver passato un’ora a lamentarsi tra sé e sé di fronte allo specchio, non si sentiva proprio in vena di mettersi a pregare quella piccola palla di pelo nero che era il suo migliore amico a quattro zampe. Di conseguenza mollò la sacca sul pavimento con un tonfo secco e si gettò a capofitto sotto il tavolo nel tentativo di afferrare il malcapitato con le braccia. Lily, però, sgusciò via dalla sua presa e andò a posarsi sul divano con un miagolio contrariato. Gajeel ringhiò furioso: non solo non l’aveva acchiappato, ma quella piccola pantera gli aveva anche lasciato i segni degli artigli sul viso.
    «Gajeel, sei tu...?»
    Il militare, ancora steso sul pavimento, ruotò la testa verso la porta rimasta aperta. Levy, quella nanetta della sua vicina di appartamento, lo fissava con aria stralunata dal corridoio, stringendo tra le braccia grossi libri ingialliti.
    «No, sono Cappuccetto Rosso», grugnì Gajeel mettendosi in piedi e battendo le mani sulla divisa verde militare per far cadere un po’ di polvere e pelo di gatto.
    «Sei... diverso», notò Levy, per poi aggiungere preoccupata «Tutto bene?».
    Se c’era una cosa che contraddistingueva Levy McGarden, quella era una profonda e malsana curiosità, quasi da bambina, che un giorno l’avrebbe messa sicuramente nei guai... magari proprio con lui. «La curiosità uccide il gatto», era solita dire nonna Redfox e Gajeel non poteva essere più d’accordo (escludendo Lily, ovviamente, che non era così stupido da farsi uccidere). Quello che Gajeel non riusciva proprio a capire era in che modo Levy riuscisse a tirargli di bocca parole che non avrebbe speso per qualsiasi altra persona e a intavolare con lui una conversazione vagamente civile – escludendo quelle con Levy, Gajeel se ne ricordava giusto altre due in tutta la sua vita, quella con cui aveva avvisato i suoi genitori che andava via di casa per intraprendere la carriera militare e quella che aveva avuto con lo psicologo durante il test per entrare nell’esercito.
    «Sono in ritardo», si ritrovò a spiegarle senza un motivo apparentemente valido, «e il mio gatto si rifiuta di collaborare».
    Levy ridacchiò. «Quei graffi te li ha fatti lui allora...».
    Gajeel annuì ma non disse nulla sperando che in quel modo Levy si dileguasse presto, non perché la sua presenza o il suo continuo parlare lo infastidissero, ma perché non voleva rischiare di perdere l’aereo. «Dove lo porti?», insistette invece Levy facendosi avanti per poggiarsi allo stipite della porta.
    «Da mia nonna». Gajeel sospirò frustrato. «E in fondo lo capisco. Quella vecchiaccia l’ultima volta me l’ha traumatizzato vestendolo con un tutù rosa! Un tutù rosa, che cazzo! Ma è l’unica persona che può tenermelo quando sono via...».
    Gajeel si stupì di se stesso per tutte quelle parole. Perché continuava a raccontare a Levy stralcioni della sua vita? Perché non la cacciava via e tanti saluti? La verità era che quella nanetta era forse l’unica a degnarlo d’attenzione in quel condominio, l’unica a non giudicarlo per il suo aspetto poco raccomandabile e per i suoi atteggiamenti bruschi, l’unica a chiedergli «Tutto bene?» non per pura cortesia ma perché sinceramente interessata alla risposta. Gajeel si sentiva stranamente più calmo quando c’era Levy nei paraggi, quasi fosse in grado di assorbire con una magia tutta la sua rabbia repressa, i brutti ricordi e le cattive intenzioni. “Che pensieri stupidi”, si disse, pensieri non adatti a un militare del suo calibro, pensieri non adatti a Gajeel Redfox.
    «E se lo tenessi io?», proruppe all’improvviso Levy riferendosi a Lily. «Sono sicura che a Jet e Droy farebbe piacere un po’ di compagnia!».
    Gajeel la guardò perplesso. «E chi sarebbero?».
    «I miei figli», rispose Levy con un sorriso, come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo.
    Gajeel cercò di mascherare il più possibile la sua sorpresa per quella rivelazione. Quel cosino minuscolo aveva due figli?! E lui che la credeva un’innocente verginel−
    «Stavo scherzando, sono i miei gatti!». La risata cristallina di Levy rimbombò tra le pareti del corridoio. Poi, asciugandosi una lacrimuccia, la ragazza puntò un dito contro il militare. «Avresti dovuto vedere la tua faccia, Gajeel!».
    Gajeel inarcò un sopracciglio. Evidentemente non era un bravo attore, dato che Levy si era accorta subito della sua maschera di indifferenza e la cosa sembrava divertirla anche parecchio. Eppure lui non ci trovava nulla da ridere. In realtà non ricordava di aver mai riso davvero in ventisei anni di vita, i suoi erano più dei ghigni inquietanti. «Lily è uno spirito libero, proprio come me. Non acconsentirà mai a convivere con altri due gatti», le disse perentorio. «Anzi, non sembra proprio intenzionato a lasciare questo appartamento».
    Levy si arrese con una scrollata di spalle e Gajeel riportò lo sguardo sul gatto rannicchiato sul divano. Il ricordo di quel dannato tutù rosa lo fece inorridire, ma non poteva né affidare Lily ad una pensione per gatti – al minimo smielato «Vieni qui, tesorino!» con tanto di spazzolone per il pelo, se ne sarebbe sicuramente scappato – né lasciarlo da solo in quell’appartamento per sei lunghi mesi perché, affamato, avrebbe trovato il modo di fuggire e infine, girovagando in città, sarebbe diventato un gatto randagio. Gajeel non voleva perderlo, Lily era quanto di più vicino ad un amico avesse mai avuto, forte e aggressivo esattamente come il suo padrone.
    Guardò Levy che ancora lo fissava dispiaciuta di non potersi rendere utile e proprio in quel momento un’idea brillante attraversò la mente del militare come un fulmine a ciel sereno. «Aspettami qui», le disse e sparì all’interno dell’appartamento. Al suo ritorno, afferrò un polso della ragazza costringendola ad aprire la mano e le ripose nel palmo aperto un paio di chiavi, una copia delle sue. «Portagli da mangiare una volta al giorno». Avrebbe voluto chiederglielo in modo più gentile in realtà, ma le parole gli vennero fuori come una sorta di ordine.
    Levy sgranò gli occhi, talmente sorpresa che rischiò quasi di far cadere i libri che trasportava con il braccio esile.
    «Dai le chiavi del tuo appartamento ad una perfetta sconosciuta come se niente fosse?!».
    «Non sei una perfetta sconosciuta», ribatté Gajeel fiducioso. «So che sei un piccolo topo di biblioteca, che non faresti male nemmeno ad una mosca e che ami i gatti. Mi basta questo per affidarti Lily».
    Levy sorrise visibilmente compiaciuta per quelle parole, poi si portò due dita al mento e ridusse gli occhi a due fessure con aria profondamente riflessiva.
    «E se in realtà fossi una ladra?».
    «Non ho soldi od oggetti preziosi lì dentro», rispose Gajeel piuttosto sinceramente.
    «E se fossi una serial killer? Il tuo gatto sarebbe in pericolo...».
    Gajeel sghignazzò trovando quell’opzione alquanto improbabile. Al massimo sarebbe stato vero il contrario: Lily, con quella cicatrice che gli deturpava l’occhio mezzo cieco e le zampe provviste di affilati artigli, incuteva decisamente molta più paura di Levy, del suo visino angelico e delle sue gambette corte.
    «Correremo il rischio, non è vero, Lily?», chiese Gajeel al gatto, il quale miagolò in risposta al suo padrone.
    Levy sorrise di nuovo. «Va bene, mi hai convinta».
    Soddisfatto di aver trovato una valida alternativa ai tutù rosa, Gajeel afferrò la sacca e raggiunse Levy sulla soglia della porta, che venne chiusa a chiave con Lily all’interno. A quel punto il militare credeva che Levy se ne sarebbe andata per i fatti suoi, invece si offrì di accompagnarlo giù per le scale come lui aveva fatto il giorno prima con lei e Gajeel, come sempre, non trovò alcuna argomentazione per opporsi. Mentre scendevano i gradini l’uno al fianco dell’altro per via dell’ascensore ancora guasto, Levy se ne uscì nuovamente con una delle sue. «Lily non è un nome molto virile per un gatto come il tuo...».
    Gajeel pensò che Levy avesse perfettamente ragione: Lily dava l’idea di un animaletto dolce e tenero, lontano anni luce dalla natura ferina del suo gatto. «È stata mia nonna a chiamarlo così quando l’abbiamo trovato, ormai è abituato a questo nome», le spiegò.
    «Forse, allora...», propose Levy cauta, «potresti chiamarlo Panther, Panther Lily».
    Gajeel se lo ripetè mentalmente. Panther Lily... Panther Lily... Panther Lily! Con immensa sorpresa si accorse che era semplicemente perfetto per il suo gatto. La prima parola ne sottolineava l’agilità e la pericolosità, degne di una pantera del Bengala; la seconda conservava quel suono con cui l’animale era già abituato ad essere chiamato. Che idea brillante! Solo una ragazza intelligente e creativa come Levy, che in vita sua aveva sicuramente letto centinaia di libri e memorizzato migliaia di parole, avrebbe potuto trovare una combinazione tanto perfetta, ma questo Gajeel non glielo avrebbe mai detto, così come non le avrebbe detto nemmeno “grazie” per aver dato al suo gatto un nome decisamente più virile di Lily.
    «Vada per Panther Lily», acconsentì semplicemente, facendo sorgere sul volto della ragazza un’espressione soddisfatta.
    Arrivati insieme al piano terra, Levy salutò Gajeel con un «Fa’ buon viaggio e non ammazzare nessuno» al quale lui rispose «Questo non posso promettertelo» scrollando le spalle. Si scambiarono un’ultima occhiata divertita e poi si divisero, ognuno per la sua strada.
    Fatti pochi passi in direzione dell’uscita, però, Gajeel udì nuovamente la voce di Levy e si voltò a guardarla, trovandola ferma su un gradino.
    «Ohi, Gajeel!».
    «Sì?».
    «Ti preferisco con i piercing e i capelli lunghi, sai?».
    Nemmeno Gajeel si piaceva conciato in quel modo, sentiva di apparire come quei ragazzi per bene da cui si teneva solitamente a debita distanza, quindi capì che si trattava di una sorta di complimento all’inverso e in cuor suo lo apprezzò. Sapere che Levy lo preferiva nelle sue vere vesti, quelle da teppista scatenato, gli faceva in un certo senso piacere. «Stammi bene, gamberetto».
    Se ne andò sventolando una mano e sentì Levy borbottare ancora una volta «Non chiamarmi gamberetto».

    ***



    Quando la sveglia suonò, Gerard si mosse tra le lenzuola e allungò una mano verso la parte apposta del letto dove le dita avrebbero dovuto sfiorare il corpo caldo e nudo di Erza che aveva stretto a sé la sera precedente, prima sul tavolo della cucina − complice la passione sfrenata, incontrollabile che li aveva travolti − e poi nel loro letto dove si erano addormentati abbracciati l’uno all’altro. Quelle immagini così vivide gli provocarono un brivido di eccitazione lungo la schiena, tanto che, se Erza in quel momento si fosse trovata lì accanto lui, si sarebbe sicuramente avventato su di lei per baciarla e farla sua nuovamente. Sarebbe stato un buongiorno più che gradito per entrambi, ne era certo.
    Trovando invece il materasso vuoto e freddo ad accoglierlo, decretò che quello non era affatto un buon inizio di giornata, nonostante ci fosse ormai largamente abituato. Ogni volta che partiva in missione, infatti, Erza sgattaiolava via da casa con passo felpato e si faceva sentire per telefono solo qualche ora dopo, inventando scuse più o meno improbabili che ormai Gerard conosceva alla perfezione: «ero in ritardo» oppure «avevo voglia di torta per colazione e sono passata in pasticceria» o ancora «mi dispiaceva svegliarti perché eri troppo carino mentre dormivi».
    La verità era che Erza non sopportava i saluti: l’unica volta in cui Gerard l’aveva beccata in fuga con addosso la divisa e lo zaino verde militare e l’aveva fermata per poterla stringere un’ultima volta tra le braccia prima della partenza, gli occhi di Erza si erano riempiti di grossi lacrimoni che svelta si era asciugata con il dorso della mano; in seguito si era districata dall’abbraccio e si era lanciata giù dalla finestra urlando «Ci vediamo presto!» e rischiando di fargli prendere un infarto. Gerard si era fiondato sul balcone, sospirando infine di sollievo nel vederla atterrare agilmente sulla strada e correre via all’inseguimento del suo sogno. Spesso pensava che se si fosse fidanzato con una pasticcera come lui, con una scrittrice o magari con una donna medico, di sicuro la sua vita sarebbe stata molto più tranquilla e rassicurante, ma convivere con una soldatessa dava un pizzico di pazzia − e di passione − in più ai suoi giorni altrimenti tutti piatti e uguali.
    Quando scese dal letto, notò sul comodino un biglietto indirizzato a lui. Quella era la prima volta che Erza gli scriveva qualcosa prima di andarsene. Incuriosito aprì il biglietto e lesse ad alta voce.

    Grazie per la torta di ieri sera, l’ho mangiata tutta.
    E grazie anche per il resto :-P
    Scappo perché hanno anticipato l’orario della partenza.
    Erza


    In basso, due parole scritte così minuscole che Gerard faticò a decifrarle e anche qualcosa che somigliava vagamente ad un cuore un po’ storpio.

    Ti amo ♥


    Sorrise tra sé e sé. Era evidente che Erza aveva gradito la sua sorpresa della sera prima (trasformarsi in una torta per soddisfare le sue fantasie erotiche più recondite) eppure, constatò con una nota di rammarico, non era servita a trattenerla lì con lui. Non che ci avesse veramente creduto, ma una piccola parte di se stesso continuava a sperare che un giorno Erza avrebbe abbandonato la carriera militare per dedicarsi completamente a lui, magari aiutarlo nella pasticceria e, perché no, acconsentire a mettere su famiglia con lui.
    Gerard non avrebbe saputo dire con esattezza quando il desiderio di diventare padre avesse cominciato a insinuarsi nel suo cuore, ma avrebbe saputo spiegarne il perchè. Aveva trascorso la sua adolescenza combattendo contro un padre aggressivo e violento che picchiava lui e sua madre quando tornava a casa ubriaco marcio e si era ripromesso che da grande avrebbe amato il proprio figlio con tutto se stesso, che non gli avrebbe mai fatto provare la sofferenza che aveva provato lui, che non gli avrebbe mai fatto mancare nulla.
    Gli affari alla pasticceria andavano alla grande, il suo rapporto con Erza nonostante alti e bassi cresceva ogni giorno più forte di prima. La ciliegina sulla torta − lui che di torte ne era esperto sapeva più di ogni altra persona cosa significasse tale metafora − sarebbe stata un figlio. E non un bambino adottato, come aveva suggerito più volte Erza ricordandogli che l’orfanotrofio di Makarov era pieno di bambini che necessitavano di amore e attenzioni. Gerard non aveva nulla contro l’adozione, ma desiderava un figlio che fosse sangue del suo sangue e della donna che amava, desiderava vederlo nascere e crescere davanti ai propri occhi.
    L’unico ostacolo era appunto la carriera di Erza: una benedizione che, sommandosi agli affari della pasticceria, permetteva loro di condurre una vita agiata, e una maledizione che gli impediva di costruirsi una famiglia. Gerard aveva già parlato ad Erza di quel suo desiderio, promettendo che avrebbe badato lui stesso al bambino mentre lei era via da casa, ma Erza aveva decretato che quello non era il momento giusto per fare un figlio, non perchè non si amassero o non fossero abbastanza maturi, ma perchè esaudire il sogno di Gerard avrebbe inevitabilmente compromesso il proprio. Diventare mamma al vertice della carriera significava dover mandare all’aria anni e anni di sacrifici, cosa che lei non era ancora disposta a fare. Inoltre non voleva abbandonare suo figlio come sua madre aveva fatto con lei. Un bambino necessitava innanzitutto della presenza dei genitori, cosa che Erza non avrebbe potuto mai assicurargli, continuamente sballottolata da una nazione all’altra.
    Gerard l’aveva accettato, se ne era fatto una ragione e per il momento gli andava bene così, ma non sapeva se avrebbe resistito in quella situazione anche in futuro. Erza gli aveva più volte detto che poteva tranquillamente lasciarla e trovarsi una donna disposta a dargli un figlio, ma in quelle occasioni Gerard l’aveva guardata con convinzione negli occhi e le aveva detto che lei era l’unica donna da cui avrebbe voluto un figlio. O con Erza o niente.
    Gerard ripiegò con cura il biglietto e lo ripose all’interno del cassetto.
    «Ti amo anche io, Erza», disse come se lei potesse sentirlo. «Vorrei solo che le cose fossero più facili per noi».








    Note dell'autrice:

    Questo è l'ultimo capitolo in preparazione della storia vera e propria, nel prossimo vedremo infatti come se la caveranno i nostri militari a lavoro. Tenete bene a mente la dimenticanza di Mirajane perchè sarà fondamentale per la trama. Come avete visto, tratterò inoltre una tematica delicata legata al passato di Gerard che approfondirò meglio in seguito. A presto ♥

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 16:34
     
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    Che bella storia! Quattro capitoli e me ne sono già innamorata :<3:
    Ammetto che, essendo io irreparabilmente yaoista, non amo né Miraxus che StingYu (preferisco Fraxus e Stingue), ma la storia è scritta in maniera talmente bella e coinvolgente che leggere anche di queste coppie non mi pesa minimamente, anzi ho divorato tutto con piacere. :sanji:
    Adesso che i capitoli di preparazione sono finiti, non vedo l'ora di scoprire cosa succederà in guerra!
    Sappi comunque che Gajeel con i capelli corti mi ha spezzato il cuore (ma a questo pare l'ha fatto anche a Levy), che mi sto scervellando per pensare a cosa diavolo potrebbe aver dimenticato d'importante Mira e che l'idea di Gerard pasticcere mi sembra assolutamente (e forse assurdamente) azzeccata. :perona:
    Inoltre ho adorato le parti a rating rosso, perché a mio parere hai espresso benissimo l'amore tra i personaggi aggiungendo una bella pennellata di erotica passione.
    In sostanza aspetto con ansia i prossimi capitoli, e mi complimento ancora per questo bell'inizio che ha decisamente catturato la mia attenzione!
     
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    Ti ringrazio tantissimo per la recensione, sei stata molto gentile. Sono contenta che l'inizio della storia ti piaccia, spero che possa essere lo stesso anche per i prossimi capitoli ❤ a presto!
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #05. Tutto secondo i piani (o quasi)



    Centro Addestramento Volontari ► VFP1

    «Come già sapete, una Squadra è formata da quindici persone, più Squadre formano un Plotone, più Plotoni formano una Compagnia, più Compagnie formano un Battaglione, più Battaglioni formano un Reggimento...».
    Natsu, spalmato con tutto il corpo sulla scomoda sedia, sbadigliò per l’ennesima volta dall’inizio di quell’inutile sproloquio proveniente dal fondo della sala, lo sguardo che vagava con poco interesse sulle pareti bianche tappezzate di quadretti che ritraevano insigni militari. Appena arrivati al Centro Addestramento Volontari, un edificio antico e dall’aria particolarmente solenne circondato da guardie ritte sull’attenti, lui e gli altri ragazzi avevano dovuto recarsi nell’aula magna dove erano stati informati sul loro primo anno di addestramento militare e presto sarebbero stati smistati nelle varie Compagnie, quindi nei dormitori. Natsu odiava quel genere di presentazioni; fosse stato per lui, si sarebbe già messo a marciare sul posto o avrebbe impugnato immediatamente una di quelle armi che aveva intravisto in mano ai ragazzi più grandi che si stavano allenando dall’altra parte del complesso.
    «Natsu Dragneel, ripeto Natsu Dragneel!».
    Natsu si sentì strattonare per un braccio e udì chiaramente la voce di Gray, seduto al suo fianco, che gli sussurrava nell’orecchio «Ohi, scemo, svegliati!». A quelle parole, l’interpellato scattò dritto sulla sedia con il braccio steso in alto per segnalare la sua presenza e l’uomo che lo aveva chiamato dal fondo dell’aula gli restituì un’occhiataccia di rimprovero. Chissà da quanto lo stavano chiamando... ma che poteva farci se starsene fermo con le mani in mano gli procurava una tremenda sonnolenza?
    Natsu si accasciò nuovamente sulla sedia ascoltando distrattamente la lista di nomi che si susseguivano l’uno dietro l’altro. L’unico nome che attirò la sua attenzione fu quello di Sting Eucliffe, un ragazzo che aveva conosciuto sul pullman e in cui si rispecchiava moltissimo, dalla passione per la vita militare al carattere solare e impulsivo e perfino alle persone che lo aspettavano a casa: suo padre, un amico che per lui era come un fratello, una ragazza a cui teneva molto e che studiava all’università. Avendo adocchiato poco più avanti la sua inconfondibile capigliatura bionda, Natsu era certo che sarebbero diventati grandi amici.
    Quando vide i presenti alzarsi dalle sedie e incamminarsi fuori dall’aula, il giovane Dragneel esultò interiormente per la fine di quell’interminabile incontro, salvo poi ricadere nello sconforto quando scoprì di doversi recare nei dormitori dove un istruttore avrebbe spiegato le regole del RAV, Reggimento Addestramento Volontari. Così iniziava il suo primo anno da militare. Si trattava di un corso preparatorio di due mesi e mezzo le cui giornate sarebbero state scandite da orari ben precisi: sveglia alle 06.30, colazione alle 7.00, adunata alle 07.45, alzabandiera alle 08.00, inizio delle attività addestrative e lavorative alle 08.10, pranzo dalle 12.00 alle 13.00, adunata e ripresa delle attività alle 13.30, fine orario di servizio alle 16.30...
    Ignorando la dettagliata descrizione dell’istruttore dai capelli castano-rossicci che si era presentato con il titolo di Caporal Maggiore Gildarts Clive, Natsu cominciò a guardarsi un po’ intorno. Si trovava nello spazio sterrato interno ad un dormitorio a forma di U: sull’unico lato corto c’erano le stanze degli istruttori con tanto di “VIETATO L’INGRESSO” incollato alle porte, sui due lati lunghi c’erano le stanze dei soldati del primo e del secondo plotone.
    «Natsu», udì alle sue spalle. «Siamo nello stesso plotone, hai visto? E c’è anche il tuo amico!».
    Voltandosi, Natsu sorrise ad un euforico Sting. «Già, è davvero forte! Se solo l’istruttore la smettesse di parlare...».
    Come se avesse appena sentito il suo commento, Clive si zittì all’improvviso.
    «Ora vi insegno a fare il cubo», annunciò qualche attimo dopo, posando lo sguardo su ciascuno degli aspiranti soldati che gli stavano davanti. «Il primo che fiata o muove un muscolo lo rispedisco dritto a casa a calci in culo». Dopo di che si allontanò e la sua figura sparì tra i corridoi del dormitorio.
    Nello spazio sterrato calò un profondo silenzio rotto appena da respiri leggeri. Natsu si guardò intorno perplesso, gli sembrava quasi di stare ad un funerale. Possibile che il Maggiore Clive incutesse nei suoi compagni così tanta paura? A lui non sembrava affatto male e non vedeva l’ora di scoprire cosa avrebbe mostrato al suo ritorno. «Che cos’è il cubo?», chiese nel frattempo a chi gli stava intorno, dato che si era informato su quasi tutte le attività della vita militare ma non aveva mai sentito parlare di un cubo. Probabilmente, però, la voce gli era venuta fuori troppo squillante perché all’improvviso Natsu si vide piantati addosso gli sguardi furiosi di tutti i compagni.
    «Zitto, idiota», mormorò Gray al suo orecchio tappandogli la bocca con una mano. «Non farti riconoscere già dal primo giorno». Natsu, seppur a malincuore, annuì accondiscendente e Gray continuò: «È un modo per sistemare il letto in maniera ordinata».
    Accontentandosi di quella risposta, Natsu si impose di stare zitto e immobile esattamente come gli era stato detto e gli costò un grande sforzo non mettersi a sbuffare o sgranchirsi le membra indolenzite per l’attesa. Finalmente, dopo un tempo che gli era parso un’eternità, l’istruttore tornò con in mano una coperta, due lenzuola e un cuscino. Ripose tutto per terra e tornò a guardare i soldati davanti a lui. «Qualcuno di voi è in grado di farlo?».
    Il silenzio si fece ancora più funebre, come se tutti avessero smesso di respirare. Natsu avrebbe voluto farsi avanti ma, non sapendo nemmeno da dove cominciare, preferì lasciare che qualcuno più esperto andasse lì al posto suo. Quando si ricordò che quel qualcuno era proprio il suo amico Gray il quale poteva contare sugli insegnamenti del padre, un ex militare, Natsu gli afferrò con forza un braccio e glielo sollevò in aria. «Lui! Lui lo sa fare!».
    «Vieni avanti, signorina», disse ironico il Caporal Maggiore. «Qual è il tuo nome?».
    «Gray Fullbuster», rispose il ragazzo facendosi largo tra gli altri soldati, non prima di aver masticato tra i denti un insulto e un «Questa me la paghi» rivolto a Natsu che ridacchiò divertito.



    “Calmo” continuava a ripetersi Gray mentre raggiungeva l’istruttore. “Non è difficile, c’è di peggio”. Suo padre glielo aveva fatto vedere tante di quelle volte che non avrebbe potuto sbagliare nemmeno volendo, ma avere puntati addosso gli occhi di tutte quelle persone e soprattutto di quell’armadio dell’istruttore che lo squadrava dalla testa ai piedi come se volesse mangiarlo, non aiutava affatto.
    «Fullbuster», lo chiamò il Caporal Maggiore mentre tirava fuori dal taschino una specie di orologio. «Ti do trenta secondi a partire da...». Schiacciò il dito sul pulsante e l’aggeggio cominciò a scandire il tempo con un suono cadenzato e fastidioso. «...ora!».
    Gray si lasciò sfuggire un flebile «Eh...?» prima di rendersi conto che l’istruttore lo stava cronometrando e che mentre formulava quel pensiero erano già passati i primi cinque preziosi secondi. Sgranò gli occhi in preda al panico e si avventò sulle lenzuola cercando di ricordare i vari passaggi, ma al momento la sua mente sembrava completamente svuotata e le sue mani erano tremanti e impacciate.
    «Venti secondi». La voce dell’istruttore riecheggiò nelle orecchie di Gray come ridestandolo da un sonno profondo. Non poteva perdere altro tempo, doveva rendere fiero il suo vecchio che lo aspettava a casa! Un breve flash – Silver che, sporgendosi dalla sedia a rotelle, trafficava con le mani sul letto e contemporaneamente descriveva il proprio operato − attraversò in un attimo la mente di Gray che sembrò riprendere a funzionare correttamente e le sue mani ora sicure si mossero come spinte da una forza invisibile. Svelto piegò le lenzuola portate da Clive in poche semplici mosse e le mise una accanto all’altra, quindi vi pose sopra il cuscino.
    «Dieci secondi». Gray sentiva l’adrenalina scorrergli velocemente nelle vene, il cuore pompare forte il sangue nella cassa toracica. Aveva quasi finito, mancava solo una cosa: piegò accuratamente la coperta in maniera tale che lo stemma dell’esercito stampato sulla stoffa fosse abbastanza centrato e la ripose sopra il cuscino.
    Il cronometro suonò. «Tempo scaduto».
    Ce l’aveva fatta! Soddisfatto, Gray si drizzò in piedi e si rivolse impaziente all’istruttore attendendo il verdetto finale. Lo vide osservare con sguardo critico il cubo, misurarne gli angoli con occhi esperti. Forse non era perfetto, ma Gray era certo di aver fatto un lavoro perlomeno soddisfacente. Quando, tuttavia, un potente calcio si abbatté sul cubo quasi stracciando le lenzuola, Gray si ritrovò a boccheggiare sotto lo sguardo schifato dell’istruttore.
    «Mia figlia da ubriaca avrebbe saputo fare di meglio».
    E Gray altro non potè fare se non andarsene con la coda tra le gambe sotto i fischi di scherno dei compagni. Quando il Maggiore Clive diede dimostrazione di come secondo lui un vero cubo andasse fatto, Gray constatò che non era poi così diverso da come lo aveva fatto lui precedentemente. I passaggi erano più o meno gli stessi, così come il risultato finale, quindi Gray non riusciva a capire il perché di quel categorico rifiuto e di quella reazione così esagerata. In fondo si trattava solo di uno stupido letto, mica di un’importantissima missione di salvataggio!
    «E dai Gray, può capitare a tutti di sbagliare», cercò di consolarlo Natsu con una pacca sulle spalle.
    Gray lo ignorò. Era sicuro di non aver sbagliato nulla, quel rimprovero non se lo meritava affatto. Da quel momento in poi non prestò molta attenzione al resto dell’incontro, troppo concentrato sulla sua prima deludente esperienza nel RAV. Quando Clive passò all’insegnamento della marcia militare, si lasciò trascinare da un eccitato Natsu che blaterava su quanto fosse finalmente felice di poter fare qualcosa da veri soldati e marciò con una tale svogliatezza e mancanza di ritmo che, se Silver fosse stato lì a guardarlo, sarebbe sicuramente sceso dalla sua sedia a rotelle per dargli uno schiaffone dritto in faccia.
    «Ehi! Ti chiami Gray, vero?». Gray annuì distrattamente senza nemmeno voltarsi. «Io sono Sting!». Di nuovo Gray annuì sperando che la conversazione terminasse, ma il nuovo amico di Natsu continuò. «Io lo so com’è fatto un cubo e... credo che il tuo fosse fatto bene».
    A quelle parole Gray voltò la testa per guardare il suo interlocutore negli occhi. «Grazie», rispose a bassa voce, rincuorato dal fatto di non essere l’unico a pensarla in quel modo.
    Sting gli sorrise. «Se Clive ha reagito in quel modo è solo per abituarci fin da subito alle difficoltà della vita militare».
    «Il mio cubo stava bene però», terminò Gray riportando l’attenzione sulla marcia.
    Il commento di Sting aveva alleviato un po’ la sua delusione, ma l’immagine di Clive che distruggeva il suo lavoro senza pietà e senza motivo era ancora ben impressa nella sua mente. D’altronde le ingiustizie gratuite erano ciò che più odiava al mondo e, se cominciavano a presentarsi già dal primo giorno, le cose non andavano affatto bene.



    Dopo cena − la mensa militare non gli era sembrata poi così pessima come gliel’avevano descritta o forse era lui ad esserci arrivato talmente affamato da potersi mangiare anche le pietre – Sting si fece una doccia e si abbandonò sul letto seguito dai ragazzi del suo plotone con cui condivideva la stanza. La giornata era volata così in fretta che quasi non se ne era accorto, ma il suo corpo stanco a causa del viaggio in pullman e le membra indolenzite per la lunga attesa in piedi e per la marcia militare dicevano tutt’altro. Allo stesso tempo, però, era elettrizzato all’idea di aver toccato con mano ciò che sognava da tutta una vita e non vedeva l’ora che arrivasse il giorno successivo per provare fin dall’alba la sensazione di sentirsi un vero soldato. E per farlo aveva bisogno di assoluto riposo, non prima di aver aggiornato la sua famiglia ovviamente.
    Allungò una mano verso il comodino e afferrò il cellulare digitando velocemente sui tasti. Il primo messaggio andò a Yukino.
    “Qui tutto bene, domani si comincia, non vedo l’ora! Adesso vado a letto, buonanotte piccola ♥”
    Non gli ci volle molto prima di ricevere la risposta. “Sono tanto felice per te. Buonanotte ♥”
    Sting sorrise e scrisse poche altre parole a suo padre e a Rogue, poi spense il cellulare e si girò su un fianco addormentandosi quasi subito. La prima notte al centro di addestramento passò in fretta esattamente come la giornata appena trascorsa. Fin troppo in fretta a dire la verità.
    «SVEGLIAAA! TUTTI IN PIEDI!». L’urlo mattutino rimbombò tra le pareti della stanza costringendo i soldati dormienti a svegliarsi di soprassalto credendo fosse appena scoppiata una bomba. Quando si resero conto che era solo il Maggiore Clive che, muovendosi negli spazi tra i letti e schiaffeggiando i volti dei più assonnati, augurava personalmente una buona giornata all’intero plotone, si levarono numerose lamentele prontamente stroncate da un nuovo urlo, più forte del precedente, che intimava di abbandonare la stanza in meno di un secondo. Sting si stropicciò gli occhi, aveva come la sensazione di aver dormito solo un’ora ma il cellulare segnava le 06.30 del mattino. Sarebbe stato tutte le mattine così?
    Il peggio arrivò quando, recandosi in bagno per radersi la barba e darsi una sciacquata, trovò i lavandini letteralmente assaltati dall’intera compagnia e si chiese come avrebbe fatto ad essere pronto entro mezz’ora per la colazione.
    «Ohi, Sting!». Attirato da quella voce ormai familiare, Sting cercò Natsu con lo sguardo e lo trovò relegato in un angolo insieme ad un assonnato Gray. Entrambi avevano la mandibola coperta di schiuma da barba e una lametta in mano. Andando loro incontro, si rese conto che si stavano radendo usando lo specchietto tascabile che Gray stringeva nella mano.
    «Il padre di Gray era un militare, diciamo che ci ha dato qualche dritta», spiegò Natsu raggiante. «Vuoi unirti a noi?».
    «Certo!». Sting si lasciò contagiare dall’allegria del suo nuovo amico e dimenticò il brusco risveglio.
    Più tardi i tre andarono a fare colazione, si riunirono con gli altri soldati per l’adunata delle 7.45 e infine salirono sull’ultimo piano dell’edificio per assistere all’alzabandiera delle 8.00 dove gli fu ordinato di stare fermi sull’attenti in segno di rispetto. Con occhi ricolmi di stupore e ammirazione Sting, Gray, Natsu e i loro compagni osservarono come, allo squillo della tromba, la bandiera nazionale veniva issata sul pennone principale dello stabilimento e salutata dal Caporal Maggiore Clive.
    «Ricordatevi questo gesto, soldati». Per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Sting notò che nella voce del suo istruttore, sempre così burbero e minaccioso, non c’era aria di superiorità o aggressività. Per la prima volta Sting lo ammirò e sperò un giorno di diventare forte e fiero come lui. «Questo gesto significa: io sono il comandante...». Clive scandiva solennemente ogni singola parola, senza battere ciglio. «...non perché lo sono in quanto tale, ma perché traggo la mia autorità dalla bandiera. La bandiera rappresenta lo Stato ed io ho compito di servirlo». Sting osservò l’istruttore chiudere gli occhi, le grosse mani piene di cicatrici saldamente strette intorno alla fune con cui reggeva la bandiera, e sperò un giorno di potersi trovare al suo posto, di poter salutare in prima persona quel pezzo di stoffa colorata mossa dal vento, di poter un giorno servire quella patria di cui Clive parlava con tanta venerazione, con il cuore in mano. Ma per ora si sarebbe accontentato di quell’anno di addestramento al fianco dei suoi nuovi amici che sembravano in parte compensare l’assenza di Rogue e di Yukino.

    ***



    Base militare di Shama, Libano ► Missione UNIFIL

    In ritardo come sempre, Gajeel era riuscito a salire sull’aereo un minuto prima che decollasse dalla pista lasciandosi indietro famiglie in lacrime per la partenza dei loro padri, figli o fratelli. Gajeel non era per nulla invidioso: una famiglia ce l’aveva pure lui, anche se nel corso degli anni gliene aveva combinate di tutti i colori. Fin da piccolo, infatti, il medico gli aveva diagnosticato – quasi fosse una malattia rara, incurabile − un’indole violenta e aggressiva. A scuola era stato il classico bullo che spaventava i più deboli per rubare la loro merenda e approfittava di ogni occasione per fare a botte, uscendone sempre illeso ma ottenendo note e sospensioni da parte degli insegnanti, tanto che la signora Redfox era andata avanti per anni dicendo che prima o poi quel monellaccio di suo figlio l’avrebbe fatta morire di crepacuore. Nemmeno con l’adolescenza era riuscito a calmarsi, anzi le risse si erano solo spostate dai corridoi della scuola alle piste delle discoteche. Gajeel non riusciva a controllarsi: di fronte alla prima offesa, le mani gli prudevano terribilmente e, ancor prima di accorgersene, il malcapitato si ritrovava per terra con il naso rotto. Raggiunta la maggiore età, gli era stato consigliato di intraprendere la carriera militare con la quale avrebbe potuto sfogare e frenare la sua inspiegabile rabbia (oltre che evitare il carcere) e straordinariamente aveva funzionato: era rimasto il solito ragazzo burbero e arrogante, ma le risse erano diminuite fino a scomparire quasi del tutto. Suo padre, orgoglioso di lui, diceva che era sempre stato un bravo ragazzo ma che doveva solo trovare la sua vocazione.
    Dopo l’addestramento, comunque, Gajeel aveva preferito andare a vivere da solo. Gli piaceva la solitudine e il silenzio, forse perché la vita militare era sempre frenetica e rumorosa. Le uniche sue compagnie, da quando viveva in quel condominio, erano il suo gatto Lily – ora felicemente ribattezzato Panther Lily − e qualche ragazza conosciuta qua e là che puntualmente si portava a letto e puntualmente rifiutava perché non voleva relazioni serie. La vita militare bastava ad appagarlo e di certo non sarebbe stata una piccola libraia tutto pepe, con i capelli azzurrognoli legati sulla fronte da una fascetta, l’animo buono e innocente di una bimba e un gran bel culetto (che forse era la prima cosa che aveva notato di lei), a far cambiare idea all’impassibile Gajeel Redfox. Non gli era infatti sfuggito lo sguardo languido con cui Levy lo guardava dal basso del suo metro e cinquantacinque scarso, né il modo in cui arrossiva furiosa ogni qualvolta lui le rivolgesse un’occhiata maliziosa o le facesse un dispetto, né infine la disponibilità che aveva mostrato nell’accettare di occuparsi di Lily in sua assenza. Gajeel le era grato per questo... e chissà, magari proprio con quel pretesto, al suo ritorno lui e Levy avrebbero potuto divertirsi un po’ insieme. A patto che lei non volesse nulla di serio, si intende.
    Con quei pensieri per la testa, Gajeel atterrò con l’aereo in Libano. A prima vista, gli ricordò un po’ le regioni del Sud in cui era già stato, complice il clima mite e il paesaggio costiero con olivi e piantagioni. Raggiunse quindi la base militare di Shama dove avrebbe trascorso i successivi sei mesi (eccetto i dieci giorni di licenza in cui avrebbe potuto fare un salto a casa), disfece la valigia nella stanza da letto e per il resto del pomeriggio si limitò a prendere confidenza con il luogo e la missione. Quando la mensa militare cominciò a servire la cena, Gajeel andò a sedersi con il suo vassoio ad un tavolo vuoto, così da poter mangiare in solitudine e in silenzio.
    «Ohi, ammasso di metallo! I piercing te li sei mangiati per caso?!».
    Gajeel aggrottò la fronte irritato, piccole rughe solcarono la pelle bucherellata all’altezza delle sopracciglia. Non rispose, sapeva che sarebbe andata a finire male e non aveva nessuna voglia di essere rimandato a casa ancora prima di iniziare a lavorare.
    «Non rispondi?», insistette Bloodman. «Sei triste perché ti manca la nonnina?».
    Gajeel avrebbe voluto riempirlo di insulti molto coloriti, ma si limitò a farlo solo mentalmente. Accidenti a quella vecchiaccia di sua nonna e alle sue imbarazzanti chiamate nel bel mezzo delle missioni che lo avevano reso lo zimbello di tutta la squadra!
    Non avendo ricevuto ancora nessuna risposta, Bloodman si sporse maggiormente verso Gajeel e gli diede una spinta con la mano sulla spalla. «Ehi, idiota, dico a te! Quella bestiaccia del tuo gatto ti ha mangiato la lingua?!».
    Gajeel sgranò gli occhi. E andavano bene i commenti su sua nonna, tanto non la sopportava nemmeno lui, ma Panther Lily no. Assolutamente no. Al diavolo la buona educazione e quella dannata missione! Non poteva sopportare che qualcuno parlasse male della sua pantera.
    «Non...», digrignò i denti, «...nominare...», strinse i pugni, «...il mio...», vide il viso scheletrico di Bloodman contrarsi in preda alla paura, «...gatto!».
    L’attimo dopo Bloodman giaceva per terra agonizzante, annaspando alla disperata ricerca di ossigeno. Una mano di Gajeel era stretta intorno al suo collo, gli occhi rossi sembravano gettare fiamme capaci di ardere vivo il malcapitato.
    «SERGENTE GAJEEL REDFOX!».
    Nella mensa calò improvvisamente il silenzio. Gajeel sollevò lo sguardo e, captando la figura di Luxus Dreyar che troneggiava minacciosa di fronte a lui, mollò immediatamente la presa sull’altro militare il quale cominciò a tossire convulsamente. «Generale», disse Gajeel scattando in piedi e mettendosi sull’attenti. Non che avesse paura del suo superiore, ma se voleva tenersi il posto sarebbe stato meglio mostrarsi umile e pentito. «Io volevo solo...».
    «Non mi interessa», ribatté Luxus per poi indicare la porta. «Fuori di qui, ci rivediamo domani mattina».
    Capendo che sarebbe stato inutile giustificarsi, Gajeel uscì silenziosamente dalla mensa − a stomaco vuoto tra l’altro, dato che Bloodman gli aveva impedito di cenare − ignorando gli sguardi indagatori e gli inutili commenti dei compagni. Si maledisse mentalmente: per quanto fosse migliorato dai tempi della scuola, per quanto cercasse di reprimere con tutto se stesso quell’istinto rabbioso sopito nel suo animo, ogni tanto finiva ancora per pestare qualcuno e di conseguenza veniva punito. Tuttavia Gajeel non poteva che essere grato al generale, il quale era sempre troppo buono con lui e gliele perdonava tutte. Fosse stato un altro, a quell’ora Gajeel non si sarebbe nemmeno trovato in Libano.
    Con lo stomaco che brulicava dalla fame, il militare decretò infine che la cosa migliore da fare era mettersi a dormire sperando che il giorno successivo, insieme alla colazione, arrivasse il prima possibile.



    «Come tutti sapete, nel 2006 si consumò una delle offensive tra Libano e Israele più cruenti. In 34 giorni di guerra ci furono 124 morti israeliani e 1200 libanesi. L’odierna missione Leonte, da tutti conosciuta come UNIFIL, ha tre funzioni essenziali: monitorare la cessazione delle ostilità tra i due Stati, supportare le LAF − Forze Armate Libanesi − e sostenere la popolazione civile del Sud».
    Erza ascoltava distrattamente la giornalista in tv rigirando il cucchiaio in quella zuppa che il cuoco della mensa militare osava chiamare “cena”. O forse era lei ad essere fin troppo abituata ai deliziosi manicaretti di Gerard. Sospirò rassegnata e continuò a mangiare quella poltiglia maleodorante, in sottofondo il rumore metallico di posate che sbattevano contro i piatti e il vociare dei militari che discutevano dell’ultima partita di calcio.
    «Tenente Scarlett», sì sentì chiamare. «O forse dovrei dire, Titania».
    Era così che la chiamavano in battaglia, forse per la sua inclinazione al combattimento diretto, forse per le sue rinomate manie di grandezza: ormai sapevano tutti che puntava dritta ai più alti vertici militari e che avrebbe fatto di tutto pur di raggiungerli.
    Quando Erza sollevò lo sguardo, incrociò gli occhi del suo superiore che si apprestava a sedersi accanto a lei con il vassoio pieno. Lo conosceva ormai da un bel po’ di tempo, insieme avevano condotto e portato a termine con successo numerose missioni, ma lui si ostinava a mantenere un certo distacco formale tra loro. «La prego, generale Dreyar, mi chiami solo Erza», gli disse quando furono l’uno accanto all’altro.
    Lui annuì di rimando. «Solo se tu mi chiami Luxus».
    Erza sorrise, quella risposta era anche meglio di quanto sperasse. «Come sta tua figlia?», chiese allora per ingannare il tempo, ricordando la bella bimba bionda che una volta il generale le aveva mostrato in foto sul cellulare.
    Gli occhi di Luxus si illuminarono. «Maiya cresce in fretta», rispose. «E tu? A quando la lieta notizia?».
    Poco ci mancò che Erza si strozzasse a causa del boccone di zuppa che le si era malauguratamente incastrato nella gola. Con gli occhi fuori dalle orbite per lo sforzo, si chiese se per caso il generale non l’avesse trovata tanto ingrassata da pensare che fosse incinta; in fondo sarebbe stato plausibile con tutti i dolci che Gerard le aveva fatto ingurgitare in quegli ultimi tempi. Una vocina persistente nella sua testa le suggeriva invece che la domanda di Luxus era sincera e più che legittima, dal momento che aveva una relazione stabile e non era più una ragazzina.
    «Stai bene?», le chiese perplesso il generale.
    Erza ingoiò finalmente il groppo nella gola. «N-non ci sarà nessuna lieta notizia!», chiarì rossa in volto almeno quanto i suoi capelli. «Ora scusami ma devo andare». Afferrò bruscamente il vassoio e sparì dalla mensa prima che Luxus le chiedesse se per caso aveva detto qualcosa di sbagliato. E sì, l’aveva detto, perché quello era un tasto dolente nella vita di Erza. Arrivata nella camera che avrebbe condiviso con le sue poche colleghe donne e che fortunatamente trovò ancora vuota, si gettò a peso morto sul letto con gli occhi rivolti al soffitto.
    A quando la lieta notizia?
    Quelle parole continuavano a rimbombarle nella testa chiare, pungenti, fastidiose. Perché mai avrebbe dovuto desiderare quell’ingombrante pancione che l’avrebbe resa grassa quanto una balena? Cosa poteva esserci di bello in un fagotto che strillava dalla mattina alla sera e produceva montagne di pannolini puzzolenti? Perché avrebbe dovuto diventare mamma se Gerard e la carriera militare bastavano a renderla felice?
    A quando la lieta notizia?
    Improvvisamente Erza si rese conto di aver sollevato inconsciamente un braccio e di aver posato il palmo sul ventre piatto, lì dove avrebbe potuto germogliare un seme di nuova vita se solo lo avesse voluto almeno la metà di quanto lo voleva Gerard. Sgranò gli occhi e ritirò la mano come scottata mettendosi seduta sul materasso.
    «A mai! Ecco quando!», disse ad alta voce rispondendo a quella domanda così persistente nella sua testa. Con un movimento veloce si sciolse lo chignon che aveva portato per tutto il giorno e dondolò la testa permettendo alla cascata di capelli rossi di ricadere mollemente lungo la schiena. Poi si sfilò la divisa militare e indossò una canotta e un paio di pantaloncini per la notte. Infine si stese di nuovo sul letto seppellendo la faccia nel cuscino, sperando così di seppellire anche le parole del generale e le sensazioni nuove, insolite, che erano state capaci di provocare in lei.



    Tutto sommato, ad esclusione di una mezza rissa tra due soldati e una conversazione finita male con il tenente Scarlett, l’arrivo in Libano non era stato poi così traumatico. La notte passò in fretta e all’alba Luxus si rivestì per cominciare la missione, ma prima ritenne necessario informare la sua paranoica mogliettina che era vivo.
    “Qui tutto ok, per ora mi sembra che non hai dimenticato niente. Maiya che fa?”
    “Maiya dorme ancora, stanotte ti chiamava nel sonno. Ci manchi tanto”.

    Strinse il cellulare tra le dita, Maiya e Mirajane mancavano di già anche a lui. Se solo avesse potuto si sarebbe teletrasportato a casa per stringerle a sé, baciarle entrambe, e poi sarebbe tornato in Libano con il cuore un po’ più leggero, ma tutto ciò che poteva fare era accontentarsi di quel misero messaggio e della speranza che quei sei mesi passassero in fretta e senza intoppi.
    Dopo una colazione veloce e vari «Buongiorno, generale» pieni di rispetto e ammirazione, Luxus uscì dalla base militare e richiamò la sua squadra per dare il via alla prima operazione di pattugliamento della giornata. Data la sua alta carica, avrebbe potuto monitorarla comodamente dal computer nel suo ufficio, ma Luxus odiava starsene fermo con le mani in mano mentre i suoi sottoposti facevano il lavoro sporco. Preferiva di gran lunga prenderne parte personalmente.
    Dopo aver consultato preziose cartine geografiche contrassegnate da croci, la squadra del generale Dreyar, a bordo di un imponente e corazzato VTT*, si addentrò nel cuore del suolo libico in direzione della Blue Line, la zona “cuscinetto” che marca il confine tra il Libano e Israele. Arrivato a destinazione, Luxus ebbe come la sensazione di trovarsi all’interno di un non-luogo, rarefatto, virtuale, privo di confini. Sullo sterrato bianco riposavano i solchi regolari degli pneumatici, segni di un passaggio quotidiano e costante; la vegetazione mediterranea che ricopriva la costa brillava sotto i raggi del sole offrendo un panorama mozzafiato. Luxus si chiese con quale coraggio si potesse versare tanto sangue umano su un suolo così bello. Controllo di giacimenti di gas sottomarino, si diceva fosse quella la scintilla che avrebbe riacceso il conflitto. I demoni della ricchezza e del potere prendevano ancora una volta il sopravvento sul valore della vita stessa ed era per quella vita, si disse Luxus, che lui lottava. Per difenderla, per proteggerla. Ogni volta che ne salvava una, sentiva di salvare sua moglie o sua figlia o i suoi amici. Ogni volta che ne salvava una, sentiva di fare qualcosa di buono in quel modo dilaniato dalla violenza.
    «Generale!», lo richiamò il tenente Scarlett indicando con una mano davanti a sé. «Profughi siriani!».
    Il mezzo blindato su cui viaggiavano si fermò, letteralmente assaltato da decine di bambini che parlavano in una lingua sconosciuta ma, che a giudicare dai loro volti scarniti e dai loro corpi secchi come manici di scopa, chiedevano sicuramente cibo e acqua.
    «Date loro tutto quello che abbiamo», ordinò.
    Se gli avessero chiesto perchè lo faceva, dato che i viveri bastavano a malapena per i soldati, Luxus avrebbe risposto in completa sincerità “È un dazio che tutti noi paghiamo volentieri”.








    *VTT: Veicolo Trasporto Truppe, un carro armato in parole povere.

    Note dell'autrice (IMPORTANTI):
    Per i capitoli incentrati sulle attività addestrative/lavorative dei nostri militari utilizzerò sempre la dicitura in verde che riporta il luogo e l'obiettivo, così da facilitare la comprensione. Questo non significa che nei suddetti capitoli vedremo sempre tutti e sei i militari, piuttosto a volte li incontreremo insieme e a volte solo una parte di loro.
    Ci tengo a precisare che non ho inventato nulla: i luoghi menzionati (Shama, Blue Line), le attività e i mezzi della vita militare (il RAV con quegli orari così precisi, il cubo, la missione UNIFIL, il VTT) sono autentici ed esistono davvero. Mi sono informata bene tramite siti, articoli, interviste per far apparire la storia più realistica possibile. Se siete curiosi sui vari gradi dei personaggi, eccovi qui una scaletta dal più basso al più alto:
    4. Caporal Maggiore Gildarts Clive
    3. Sergente Gajeel Redfox
    2. Tenente Erza Scarlett
    1. Generale Luxus Dreyar
    So che probabilmente sarebbe stato più azzeccato posizionare Gildarts alla pari o anche al di sopra di Luxus, ma per esigenze di copione mi serviva Gildarts come semplice istruttore del VFP1. Spero che possano piacervi anche i prossimi capitoli dove vedremo come se la caveranno le ragazze e Gerard a casa da soli. A presto!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 16:42
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #06. Una serie di sfortunati eventi



    «Yukino-saaan!».
    Non appena Yukino varcò la soglia del Sabertooth, il piccolo resort in cui era solita lavorare ogni estate insieme a Minerva per mantenersi gli studi, captò l’immagine di Lector e Frosch che si sbracciavano da lontano per attirare la sua attenzione. Dato che era ormai settembre inoltrato e le scuole erano appena ricominciate, l’affluenza dei bambini al resort era notevolmente diminuita ma tra i pochi rimasti c’erano appunto i due che la stavano aspettando in quel momento, decisi a prolungare il più possibile le loro vacanze in piscina prima dell’arrivo del fresco autunnale e della valanga di compiti scolastici.
    «Lector! Frosch!». Yukino andò loro incontro con un sorriso. Arruffò i capelli castani di Lector e accarezzò il tenero viso di Frosch il quale indossava, come di consueto, il costume da rana rosa che Rogue gli aveva regalato dopo aver scoperto della sua stramba passione per gli anfibi. Da allora Frosch camminava, nuotava, mangiava e forse perfino dormiva con quel costume. Yukino aveva più volte tentato di farglielo togliere, ma il bambino si era gentilmente rifiutato affermando che era un regalo prezioso da parte della persona che più stimava al mondo; lo stesso valeva per Lector i cui occhi si illuminavano improvvisamente alla vista di Sting. Yukino conosceva perfettamente il motivo di quella profonda venerazione. Era partito tutto da una calda giornata di inizio estate in cui il Sabertooth era particolarmente affollato: in quell’occasione Yukino e Minerva avevano chiesto aiuto a Sting e Rogue i quali, grazie ad un particolare gioco in stile fantasy capace di tenere a bada tutti i bambini, erano stati da allora soprannominati “i Draghi Gemelli” e pregati ardentemente di tornare ancora al Sabertooth. E così avevano fatto, conquistandosi i cuori di tutti i bambini ma in particolare quelli di Lector e di Frosch.
    «Dov’è Sting-kun?!», chiese infatti Lector a Yukino, guardando curioso dietro di lei come se da un momento all’altro potesse spuntare dal nulla il suo beniamino.
    Yukino sospirò affranta. Avrebbe potuto inventare una scusa, ma preferì optare per la verità. Non serviva a nulla illudere Lector che Sting sarebbe presto tornato a trovarlo ed inoltre era abbastanza grande da capire e farsene una ragione. «Sting-sama non c’è, è partito per il militare...».
    «C-cosa?». Lo sguardo acceso di Lector si spense all’improvviso. «Non l’ho nemmeno salutato come si deve! Pensavo che Sting-kun avesse ancora qualche giorno per stare con noi!».
    «Anche Fro lo pensava», aggiunse Frosch. «E Rogue invece? Lui non doveva andare da nessuna parte...».
    Il tono di Frosch era così speranzoso che a Yukino si strinse il cuore. «Rogue-sama deve tornare a lavoro», gli spiegò, ricevendo in risposta un’espressione estremamente dispiaciuta. Con pazienza Yukino si inginocchiò e posò le mani sulle teste dei due bambini alternando occhiate rassicuranti all’uno e all’altro. «So come vi sentite, Sting-sama e Rogue-sama mancano anche a me. E sono sicura che perfino Minerva-sama è triste, ma questo lei non lo ammetterebbe mai». I due bambini annuirono concordi e Yukino continuò: «Vedrete che Sting-sama tornerà presto. E con lui verrà a farci visita anche Rogue-sama, ne sono certa».
    «Ma noi non li vedremo più!», esclamò Lector agitato. «Il campo estivo è praticamente finito!».
    «Vorrà dire che al ritorno di Sting-sama organizzeremo un pomeriggio tutti insieme», propose Yukino con tono di incoraggiamento. «Parlerò io con i vostri genitori».
    Le facce dei due bambini si illuminarono di nuovo. Yukino li osservò saltellare contenti mentre già pianificavano tutto quello che avrebbero potuto fare insieme ai loro amati Draghi Gemelli. Soddisfatta, si rimise in piedi con un gran sorriso stampato sul volto chiaro.
    «Allora, chi vuole un gelato adesso?». Quell’ulteriore proposta ebbe il potere di cancellare completamente dalla testa di Lector e Frosch la cattiva notizia che Yukino aveva dato loro poco prima. Ed era proprio per quello che l’aspirante maestra amava così tanto i bambini: per la loro tenera innocenza, per il loro animo pieno di sogni e di speranze indistruttibili. Yukino desiderava in futuro avere una classe tutta per sé, poter guardare quei bambini uno per uno dalla sua cattedra, girare tra i banchi e assistere giorno dopo giorno alla loro crescita, poterli indirizzare sulle rispettive strade con amore e dedizione. Il cammino era ancora lungo e tortuoso, ma era sicura che alla fine ce l’avrebbe fatta. Avrebbe coronato il proprio sogno nello stesso modo in cui Sting stava già facendo con il suo.

    ***



    Levy uscì dal suo appartamento e raggiunse quello di Gajeel distante pochi metri dal suo. Con le chiavi strette in una mano e una scatola di cibo per gatti nell’altra, fissò per qualche secondo la porta in legno scuro, incerta se entrare o meno. Insomma, non era abituata ad intrufolarsi nelle case degli sconosciuti e ancora stentava a credere che Gajeel glielo stesse permettendo con tanta leggerezza. Certo, c’era un buon motivo dietro − Lily non poteva mica morire di fame lì dentro! − ma le sembrava quasi di invadere la privacy del militare, di addentrarsi in un territorio che non era suo. A Gajeel, comunque, non sembrava importare molto: forse non aveva davvero nulla che gli fosse caro in quell’appartamento o forse Levy gli appariva come la classica ragazza innocua di cui chiunque si sarebbe fidato ad occhi chiusi. E in fin dei conti lo era davvero.
    Non senza una punta di curiosità per ciò che l’attendeva, Levy infilò la chiave nella toppa e con uno scatto la serratura si aprì. Spalancò la porta addentrandosi con circospezione nell’appartamento. Dopo aver attraversato il piccolo ingresso, si ritrovò nella sala da pranzo – decisamente sobria e poco arredata – dove riconobbe il divano, il tavolo e la credenza che aveva intravisto la mattina precedente mentre Gajeel cercava di acchiappare Lily. Virando verso sinistra, Levy trovò la cucina: sul ripiano in marmo erano poggiati cartoni di pizze vuoti, nel lavello galleggiavano ancora i piatti sporchi del giorno prima. Levy arricciò il naso – non era abituata a lasciare la propria cucina in quello stato – ma poi ipotizzò che Gajeel non avesse fatto in tempo a pulire a causa della frettolosa partenza.
    Sì, pensò, doveva essere così, ma Levy non sapeva di sbagliarsi di grosso. Dovette infatti ricredersi quando notò che il bagno, a destra della sala da pranzo, non era messo tanto meglio: vi trovò infatti pozze d’acqua ai piedi della vasca da bagno e asciugamani malamente attorcigliati qua e là. Continuando il tragitto con le labbra piegate in una smorfia, Levy arrivò nella stanza da letto di Gajeel che era l’esatto opposto della sua, sempre così pulita e ordinata. Al contrario, lì il caos regnava sovrano: il letto era disfatto, sul pavimento erano sparsi vestiti sporchi, una piccola scrivania polverosa accoglieva carte svolazzanti (forse informazioni necessarie a Gajeel per partire in missione).
    Levy arrivò alla conclusione che Gajeel non fosse un tipo che si vergognava del proprio disordine e della propria sporcizia, altrimenti non le avrebbe fatto trovare il suo appartamento in quelle pessime condizioni. Erano davvero l’uno l’opposto dell’altro, sotto tutti i punti di vista.
    «Miaaao~».
    Levy sgranò impercettibilmente gli occhi. Si era quasi dimenticata del vero motivo per cui era lì!
    Lily o meglio Panther Lily – Levy andava molto fiera di se stessa per quella trovata assolutamente geniale – era sbucato da sotto il letto muovendo la lunga coda nera. «Ciao Lily», lo salutò Levy con cautela, poiché dalle parole del militare le era parso di capire che fosse un gatto piuttosto pericoloso, e infatti Lily le rivolse una lunga occhiata severa e indagatrice che la mise lievemente a disagio. Svelta Levy captò con lo sguardo la ciotola posata in un angolo della stanza e andò a riempirla con il cibo per gatti che solitamente comprava per Jet e Droy. Lily sembrava non stesse aspettando altro: si avventò sul suo pasto con la voracità e l’agilità di una vera pantera.
    Soddisfatta e sollevata per aver adempiuto al suo compito, Levy si guardò intorno pensando che nel frattempo avrebbe potuto mettere qualcosa a posto per rendere l’ambiente più vivibile, sia per Lily che lì dentro ci trascorreva le giornate, sia per lei che da quel momento avrebbe dovuto tornarci tutti i giorni. Andò quindi ad aprire la finestra lasciando entrare luce e aria fresca nella stanza rimasta chiusa tutto il giorno per evitare che il gatto scappasse. Successivamente cominciò a raccogliere i vestiti sparsi per terra: un paio di pantaloni, una maglia, dei boxer − Levy ne afferrò un lembo con il pollice e l’indice facendo l’ennesima smorfia di disappunto − e ancora una giacca, un paio di calzini sporchi, un reggiseno di pizzo rosso...
    Un reggiseno di pizzo rosso?!
    Levy non potè fare a meno di arrossire osservando l’indumento striminzito e decisamente provocante che le penzolava davanti agli occhi. Doveva essere una bella quarta abbondante... Considerando che Gajeel non era una ragazza ed escludendo un’eventuale omosessualità che proprio non gli si addiceva, quel reggiseno doveva necessariamente appartenere alla sua fidanzata o amante o qualcosa del genere. Insomma, una madre in visita a suo figlio o una sorella in visita a suo fratello non avrebbe mai lasciato la propria biancheria intima lì in giro!
    Levy gonfiò le guance. Quella scoperta non avrebbe dovuto toccarla minimamente, eppure in fondo al cuore la lasciò un po’ delusa. Avrebbe dovuto immaginarlo... solo perché era l’unica con cui Gajeel scambiasse una parola in tutto l’edificio, non significava che il militare non avesse una vita sentimentale – sessuale – attiva e interessante esattamente come quella di qualsiasi altro ragazzo appetibile della sua età. Chissà quante conquiste faceva Gajeel con quella sua aria da ragazzaccio, pensò Levy stringendosi nelle spalle, chissà quante ragazze era riuscito a portarsi a letto a differenza sua che aveva avuto sì e no una storiella in tutta la sua vita...
    E dire che ci aveva fatto pure un pensierino su Gajeel! Dietro l’impenetrabile divisa militare, dietro il suo continuo sghignazzare e fare battute dispettose, Levy era sicura che si nascondesse un cuore buono bisognoso di affetto, così come lui le aveva dimostrato aiutandola con le buste della spesa o con l’imbarazzante caduta sulle scale. E a lei tutto ciò non era sfuggito. Ma come poteva una ragazza bassina e con forme così acerbe competere con una donna che portava almeno la quarta di reggiseno ed era talmente disinibita da lasciare la sua biancheria intima in casa altrui? Con sommo dispiacere Levy si rese conto di non rientrare nemmeno un po’ nella categoria di donne che potevano piacere a Gajeel. Guardò i vestiti che teneva appallottolati tra le braccia e per un momento fu tentata di mollarli di nuovo per terra, ma poi ripensò al fatto che avrebbe dovuto tornare lì ogni giorno per sfamare Lily e non poteva di certo scavalcare ogni volta quel disordine e far finta che quel reggiseno non esistesse. Alla fine decise di ignorare la sensazione di fastidio alla bocca dello stomaco, dimenticare lo spiacevole episodio e azionare la lavatrice che aveva intravisto in bagno per dare una bella sciacquata a quegli indumenti.
    Più tardi Levy tornò in camera da letto. La ciotola di Lily era vuota, segno che aveva apprezzato il pasto non poco, ma lui non era più nelle vicinanze. «Lily?», lo chiamò a gran voce, ricevendo in risposta un debole «Miao» che proveniva dalla finestra. Il gatto, poggiato a quattro zampe sul marmo del davanzale, guardava giù in strada come per calcolare le misure di... atterraggio. Levy sgranò gli occhi capendo al volo le intenzioni dell’animale. No, non glielo avrebbe permesso.
    «Lily», sussurrò cauta, «non ti muovere da lì». Avanzò lentamente, un passo dopo l’altro, senza fare rumore, con le mani tese in avanti per prendere il gatto tra le braccia prima che le sfuggisse, anche a costo di farsi graffiare tutta com’era successo a Gajeel il giorno prima. «Vieni qui, piccolo...», lo incoraggiò con voce melliflua. Si trovava a un passo così dal catturarlo quando Lily si accorse della trappola e miagolò indispettito. Poi, semplicemente, saltò giù dalla finestra e l’attimo dopo già non c’era più.
    «NO!». Levy balzò a sua volta in avanti affacciandosi con tutto il busto dal davanzale: Lily saltava coraggiosamente da un balcone all’altro scendendo lungo il condominio fino ad arrivare al piano terra. Atterrato nel cortile del condominio, zampettò via mimetizzandosi tra le auto e sparì dalla vista di una alquanto scossa e stralunata Levy. Aveva perso Lily, aveva perso Lily dopo che Gajeel le aveva chiesto di tenerlo buono buono nell’appartamento.
    “Sono una persona orribile” fu il suo primo pensiero. “Devo trovarlo!” fu il secondo.

    ***



    Quando anche quella giornata giunse al termine, Yukino tornò a casa sfinita e si gettò sul letto ignorando i libri di didattica che sembravano fissarla con fare accusatorio da sopra la scrivania. Chiuse gli occhi e affondò il naso nel cuscino respirandone l’odore a pieni polmoni. Concentrandosi riusciva ancora a percepire una lieve essenza del profumo che Sting aveva lasciato sulla stoffa due sere prima, quando lei, dopo l’inaspettata dichiarazione sotto casa e quel bacio mozzafiato, l’aveva invitato a cenare insieme a sua sorella e infine l’aveva accolto nella propria camera da letto.

    «Nee-chan, ti presento il mio...». Di fronte a sua sorella, Yukino non sapeva bene come definire Sting. Dopo quel bacio appassionato – il solo ricordo era capace di mandarle in subbuglio il cuore e pure lo stomaco – non poteva più considerare Sting come un semplice amico, ma allo stesso tempo non aveva nemmeno il diritto di reputarlo il suo ragazzo, dato che lui non le aveva ancora fatto la proposta ufficiale. Erano più che amici, ma meno che fidanzati: come spiegarlo in una parola sola?
    «Sting Eucliffe, molto piacere», terminò Sting porgendo la mano a Sorano. Yukino tirò un sospiro di sollievo per essere stata tratta in salvo proprio al momento opportuno e sperò solo che quella breve e concisa presentazione fosse abbastanza per la sua fin troppo curiosa sorellona.
    «Oh certo, certo!». Stringendo la mano del ragazzo, Sorano assottigliò gli occhi in un’espressione maliziosa che Yukino conosceva perfettamente. «La mia sorellina mi ha parlato benissimo di te. E molto anche...».
    «N-nee-chan!», la rimproverò Yukino rossa in volto, maledicendosi per averle spifferato fin da subito la sua colossale cotta per Sting. «Forse sarebbe meglio se ci mettessimo subito a tavola». E così cenarono tutti insieme chiacchierando del più e del meno tra le occhiate indagatrici di Sorano, quelle imbarazzate di Yukino e quelle divertite di Sting. Infine Sorano annunciò che andava a letto perché era esausta e intimò ai due di non fare “cosacce” – così le aveva chiamate – perché tanto il suo fine udito le avrebbe permesso di avvertire qualsiasi rumore sospetto e in tal caso avrebbe valutato se gettare Sting da una finestra o picchiarlo di santa ragione. «Scherzo ovviamente», aveva aggiunto subito dopo con un sorriso malandrino, eppure quelle parole erano state in grado di spaventare tanto Sting quanto Yukino.
    Quando Sorano si allontanò, Yukino guidò Sting su per le scale fino a raggiungere la sua stanza. «È molto bella», commentò il ragazzo vagando con lo sguardo dalle pareti di colore azzurro ai mobili in legno bianco e alle foto che ritraevano le due sorelle Aguria da bambine.
    «Grazie». Non senza una punta di imbarazzo, Yukino si sedette sul letto invitando Sting ad accomodarsi al suo fianco.
    Quando furono l’uno accanto all’altra, spalla contro spalla, con le ginocchia che si sfioravano, Yukino prese coraggio e guardò Sting nei limpidi occhi azzurri. «Vorrei chiederti una cosa, Sting-sama».
    Sting sorrise, quasi si aspettasse quelle parole. «Lo so».
    «Davvero?», chiese Yukino incredula. Possibile che le avesse letto nel pensiero?
    Sting ruotò il busto per guardarla meglio in viso e contemporaneamente racchiuse una mano di Yukino nelle proprie. «Ho aspettato questo momento per mesi, Yukino, mesi. Ti conosco abbastanza da sapere che tu sei la ragazza che fa per me, l’unica che voglio al mio fianco». Yukino sgranò gli occhi e arrossì vivacemente sulle guance, colpita da quelle parole così decise e da quello sguardo così serio in cui vedeva riflessi nella stessa misura i sentimenti che lei provava per Sting. «Quindi te lo chiedo ufficialmente», disse infine il futuro militare addolcendo il tono della voce. «Vuoi essere la mia ragazza?».
    Sporgendosi in avanti, Yukino lo baciò con la stessa velocità e la stessa foga con cui lui l’aveva baciata solo un’ora prima in mezzo al vialetto sotto il cielo stellato di metà settembre. «Ti basta come risposta?», mormorò infine contro le labbra di Sting il quale sfoggiò il suo miglior sorriso e la abbracciò stretta.
    Yukino non avrebbe saputo dire come in seguito fossero finiti stesi sul materasso, le gambe intrecciate, le labbra incollate come calamite, i respiri caldi e affannati che si mescolavano. Le mani di Yukino tastavano curiose il petto e gli addominali pronunciati di Sting da sopra la maglia leggera, le mani di lui si avventuravano sui fianchi morbidi e sulla schiena della ragazza.
    «Mi piacerebbe restare qui tutta la notte, Yukino», sussurrò Sting ad un certo punto sistemandole il morbido caschetto bianco che lui stesso aveva arruffato infilandovi continuamente le dita per la frenesia dei baci. «... ma credo che finirebbe male, molto male».
    Yukino sorrise imbarazzata e non ebbe bisogno di chiedere a cosa si riferisse: sentiva perfettamente l’erezione di Sting coperta a fatica dai jeans che le premeva contro una coscia e la cosa la eccitava e la intimoriva al tempo stesso. Yukino, infatti, una storia seria non l’aveva ancora vissuta, non perché non avesse mai avuto dei corteggiatori, ma perché non aveva mai trovato in nessuno di loro quel qualcosa in più che cercava da una vita.
    Sting ce l’aveva quel qualcosa in più, Yukino se ne era accorta subito. Con lui sì che avrebbe voluto viversi una storia seria, con lui sì che avrebbe voluto andare oltre. Oltre i baci, oltre l’imbarazzo, oltre le paure e le insicurezze. Solo l’idea di spogliarlo e farsi spogliare da lui, baciarsi senza nulla addosso e farci l’amore per la prima volta magari proprio lì su quel letto, la mandava completamente in estasi. Tuttavia quella sera Yukino non poteva ignorare la sensazione di trovarsi nel posto giusto con la persona giusta ma al momento più sbagliato: lei e Sting si erano appena fidanzati, l’indomani lui sarebbe partito per poi tornare non prima di due settimane dopo e Yukino sentiva di aver bisogno di un po’ di tempo per metabolizzare la cosa, riflettere in solitudine su eventi accaduti fin troppo velocemente per i suoi standard. E anche Sting, a giudicare da come si era bloccato, le sembrava d’accordo.
    «Sarà per la prossima volta allora», concluse un po’ rossa in volto.
    «Ti avviso», chiarì Sting sollevandole il mento con il pollice e l’indice per guardarla dritta negli occhi con velata malizia, «la prossima volta non sarò così... paziente».
    Il cuore di Yukino fece una capriola. «Non vedo l’ora, Sting-sama».


    «Yukino, ho fatto i Float Cookies*!».
    Yukino aprì di scatto gli occhi, le guance nuovamente accaldate al ricordo della sera prima. La mancanza di Sting cominciava a farsi sentire prima del previsto... Avrebbe tanto voluto averlo lì in quel momento, poter assaporare con lui i primi momenti della loro storia d’amore, poterlo toccare e abbracciare e baciare anziché accontentarsi di sentirlo solo per telefono, di immaginare il suo bel viso sorridente, di sognarlo giorno e notte con la testa poggiata contro il cuscino che ancora profumava di lui. No!, si rimproverò Yukino mentalmente, non doveva lasciare che la solitudine e la tristezza che provava in assenza di Sting prendessero il sopravvento su di lei facendole dimenticare tutto ciò che di bello aveva da offrirle la sua quotidianità: pochi amici ma buoni, studi che la appassionavano, la sua adorata sorella che le preparava i suoi biscotti preferiti.
    Cercando di scacciare dal cuore quell’opprimente sensazione di nostalgia, saltò giù dal letto e raggiunse la cucina seguendo con il naso la deliziosa scia profumata che aveva invaso il corridoio. Sul tavolo trovò ad attenderla una coppa di biscotti a forma di piccole ali bianche, calde ed estremamente invitanti, una specialità di Sorano. Yukino ne afferrò uno e lo addentò; la consistenza dolce e friabile si sciolse subito in bocca facendole socchiudere gli occhi deliziata. Aveva sempre adorato i Float Cookies, non solo per l’ottimo sapore ma anche per la leggenda che c’era dietro. Da piccola Sorano le diceva che, mangiando un solo biscotto, ci si potesse sollevare magicamente da terra per volteggiare nell’aria come splendidi angeli. «Angel, d’ora in poi mi chiamerete Angel!», diceva correndo in giro per casa e sbattendo le braccia come un uccellino. La cosa assurda era che Yukino ci credeva sul serio. Con il passare degli anni la leggenda aveva naturalmente perso credibilità agli occhi di entrambe ma la bontà dei biscotti, così come l’indistruttibile legame fraterno tra loro due, era rimasto fermo e indistruttibile.
    «Perché non ti metti comoda, Yukino?», propose Sorano togliendosi il grembiule e i guanti da forno. «Parliamo un po’», aggiunse sedendosi al tavolo. Il suo tono di voce, così come il suo sguardo, era particolarmente dolce e rassicurante, eppure Yukino non potè fare a meno di sentirsi a disagio. Ipotizzando si trattasse di Sting e ben sapendo quanto Sorano fosse gelosa di lei, sperò che la conversazione fosse il più veloce e indolore possibile. Si accomodò quindi su una sedia e prese distrattamente un altro biscotto dalla coppa.
    «Arriverò dritta al punto», decretò Sorano con calma, gli occhi fissi in quelli di Yukino. «Hanno chiuso il negozio e mi hanno licenziata».
    Aveva scandito le parole in maniera così netta e precisa che Yukino non pensò nemmeno per un secondo che potesse essere uno scherzo. «C-COSA?». Il biscotto le scivolò dalla mano e atterrò sulla tovaglia sbriciolandosi. «Ma lavoravi lì da anni, nee-chan!».
    «Le vendite non andavano bene già da un po’», spiegò Sorano rammaricata.
    Yukino non riusciva a credere che il negozio di moda nel quale Sorano lavorava fin da quando aveva abbandonato la scuola fosse andato in fallimento. Nonostante anni di sacrifici e risparmi, le due sorelle erano sempre riuscite a condurre una vita più o meno normale proprio grazie a quell’unico stipendio e a qualche lavoretto estivo. La notizia del licenziamento di Sorano arrivava come un fulmine a ciel sereno proprio nel momento in cui i soldi erano più necessari. Come avrebbero fatto da quel momento in poi?
    Yukino stese un braccio lungo il tavolo e posò la mano su quella di Sorano stretta a pugno. «Vedrai che troverai qualcos’altro, nee-chan», tentò di rassicurarla con un sorriso, ma le venne fuori più triste di quanto avrebbe voluto.
    «Ne dubito», rispose la sorella maggiore. «Sai benissimo che i proprietari del negozio mi avevano assunta solo perché conoscevano i nostri genitori. Senza nemmeno un diploma dove diamine dovrei andare?». Da rammaricato il tono di voce di Sorano si era fatto colmo di rabbia e frustrazione. Aveva sempre avuto una passione per la moda lei, tanto da essere in grado di far apparire elegante e ricercato perfino un abbinamento di vestiti comprati a poco prezzo giù al mercato. Yukino, decisamente molto meno attenta al suo abbigliamento, l’aveva sempre ammirata per questo e non esitava a chiederle consigli sui vestiti da indossare in questa o in quella occasione. Sorano non lo aveva mai detto esplicitamente, ma Yukino sapeva benissimo che avrebbe tanto voluto essersi diplomata per poi studiare moda e aprirsi un negozio tutto suo. La morte dei loro genitori, però, glielo aveva impedito: ritrovandosi sola con una neonata che scalpitava tra le braccia, la piccola Sorano era stata affidata allo zio Jiemma il quale si era rivelato un uomo infido e maligno, desideroso solo di sfruttare il patrimonio lasciato in eredità alle due bambine. Finalmente maggiorenne, dopo aver sopportato per anni le angherie dello zio, Sorano aveva deciso di tornare alla sua vecchia casa portandosi dietro anche la sorellina e si era rivolta ad alcuni amici di famiglia per trovare un lavoro con cui mantenersi. Da allora le due erano vissute sole, confortate l’una dalla presenza dell’altra, in attesa di tempi migliori.
    «Nee-chan, sta’ tranquilla», ritentò nuovamente Yukino, nonostante in cuor suo avesse paura almeno quanto sua sorella. «Per i primi tempi andremo avanti con i soldi di mamma e papà che ci sono rimasti, poi−».
    «I soldi di mamma e papà sono finiti già da un po’», fu la risposta secca di Sorano. «Siamo al verde».
    Yukino sgranò gli occhi avvertendo il mondo crollarle addosso come un pesante macigno. Si era stupidamente convinta che quell’ingente somma di denaro fosse abbastanza da durare per tutta la vita, invece era bastata a malapena per coprire le prime spese. La verità era che sua sorella si dannava dalla mattina alla sera pur di non farle mancare nulla, mentre lei sprecava tempo prezioso sui libri. Yukino pensò di non essersi mai sentita tanto inutile e colpevole in vita sua e fu proprio in quel momento che una soluzione al problema le attraversò rapidamente la testa, palesandosi come l’alternativa più realistica e plausibile, la migliore in assoluto. Incurante delle conseguenze, non esitò a esplicitare la sua idea nemmeno per un secondo.
    «Nee-chan!», esclamò. «Potrei lasciare l’università!».
    «NO!». Sorano scattò in piedi sbattendo le mani sul tavolo che a quel movimento traballò insieme alla coppa di biscotti che reggeva. «Non dirlo nemmeno per scherzo, stupida! Non ti permetterò di buttare all’aria i tuoi sogni!».
    Yukino guardò Sorano in volto: era rossa di rabbia, i suoi occhi blu ardevano come piccoli fuochi nella notte. Poi si sollevò in piedi anche lei, lo sguardo duro almeno quanto quello della sorella. «E cosa mi dici dei tuoi sogni, Sorano?». Non era riuscita a chiamarla “nee-chan”, forse perché per la prima volta in vita sua Yukino sentiva il bisogno di comportarsi da sorella maggiore, di proteggere le speranze di Sorano esattamente come lei si sforzava di preservare le sue.
    «Io non ho nessun sogno». Sorano ricadde sulla sedia con un tonfo, le mani strette in grembo e lo sguardo basso. «Ho solo bisogno di soldi».
    Yukino non volle interferire, ma sapeva che Sorano mentiva unicamente per non farla preoccupare. Solo allora si rese conto delle stupidaggini che aveva detto a causa dell’impulsività: non avrebbe mai potuto interrompere con tanta leggerezza un percorso di studi che le era costato tempo e denaro prezioso, né sacrificare il suo sogno e dare un simile dispiacere a sua sorella che credeva fermamente in lei. Sorano, infatti, si era subito accorta della bravura della sorella minore e si era fatta in quattro pur di farle continuare la scuola e intraprendere la carriera universitaria. Yukino non avrebbe mai potuto ringraziarla abbastanza per questo, tuttavia non riusciva a smettere di pensare che Sorano meritasse almeno quanto lei di fare ciò che più desiderava nella vita. Trovava tremendamente ingiusto che l’essere la sorella maggiore con il compito di occuparsi della minore frenasse le ambizioni di Sorano.
    «Va bene, continuerò l’università», acconsentì allora Yukino, «ma mi troverò un lavoretto da fare dopo le lezioni. Chiederò aiuto a Minerva-sama e Rogue-sama».
    «Molto meglio», mormorò Sorano, salvo poi rivolgerle un’occhiata severa. «Ma se non dovessi riuscire a studiare come si deve...».
    Yukino fece strisciare ruvidamente la coppa di biscotti sul tavolo per coprire la voce della sorella.
    «Mangiamo i biscotti, ‘che si raffreddano».

    ***



    Levy cercò Panther Lily in ogni angolo del quartiere: dai bidoni della spazzatura le cui lische di pesce avrebbero potuto attirare il suo infallibile fiuto, alle aiuole con cespugli e alberelli su cui il gatto avrebbe potuto arrampicarsi per raggiungere un ramo dove sonnecchiare acciambellato su se stesso. Non trovandolo da nessuna parte, Levy concluse che doveva essersi spostato altrove, più lontano, tra le intricate strade della città e i suoi infiniti angoli pieni di randagi che non aspettavano altri che lui.
    «Lily, dove diamine sei?!», sbottò Levy più rivolta a se stessa che al diretto interessato. Si accasciò sull’asfalto, le mani premute disperatamente sulla testa e i piedi che le facevano male a causa della lunga e faticosa ricerca. Le sembrava di aver capito che Lily fosse l’unico vero amico di Gajeel, l’unica cosa a cui lui tenesse escludendo la divisa militare. Come avrebbe potuto spiegargli che se l’era fatto sfuggire manco fosse un’incosciente e distratta ragazzina di otto anni? Non c’erano scusanti o giustificazioni. Era stata semplicemente una stupida ad aprire la finestra della stanza dimenticando che Lily fosse uno spirito libero e che, non trovando il suo padrone da nessuna parte, avrebbe potuto presto stancarsi delle pareti dell’appartamento e sparire da lì senza lasciare alcuna traccia. Lily non era mica come Jet e Droy che non osavano nemmeno mettere il muso fuori dalla finestra senza il consenso della loro padroncina, dato che grazie a lei venivano quotidianamente sfamati e viziati come bambini.
    Tic.
    Levy osservò la goccia appena caduta sulla sua coscia e si portò d’istinto una mano alla guancia chiedendosi se per caso non avesse cominciato a piangere per il nervoso. Eppure trovò la pelle asciutta.
    Tic. Tic. Tic.
    Altre tre gocce si infransero sull’asfalto formando piccole macchie scure. Levy sollevò la testa rivolgendo la punta del naso verso il cielo coperto di nuvole grigiastre e proprio in quel preciso istante una quinta goccia le arrivò dritta nell’occhio costringendola a strizzarlo.
    Il minuto dopo pioveva già a dirotto e Levy correva verso casa come una forsennata, inciampando nei suoi stessi piedi e cercando inutilmente di ripararsi con le braccia i capelli e i vestiti. Entrò nel condominio completamente fradicia, gocciolante dalla testa ai piedi, e dovette rifare per la terza o quarta volta in una sola giornata le infinite scale di sette piani a causa dell’ascensore guasto. Lasciando una scia di impronte fangose in tutto il corridoio che l’indomani le avrebbero procurato numerose lamentele da parte dei vicini, Levy giunse infine di fronte alla porta del suo appartamento. Si guardò le mani che avrebbero dovuto reggere una grossa palla di pelo nero e che invece erano vuote e bagnate di pioggia.
    Sospirò frustrata. Poteva andare peggio di così?








    *Float Cookies: biscotti che Yukino prepara per Sting nello spin-off (molto incentrato sulla StingYu) intitolato “Il morso dei Draghi Gemelli”

    Note dell'autrice:
    Alcuni chiarimenti. Se leggendo avete pensato "ma cosa ci interessa di tutti questi sfortunati eventi se la storia è una AU sulla vita militare?!", allora riguardate l'incipit di ogni capitolo: Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi. Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.
    In questo capitolo ho voluto concentrarmi solo su due personaggi perchè altrimenti sarebbe uscito lunghissimo con dettagli infiniti. Andando con ordine:
    - Lector e Frosch in versione umana serviranno da "collante" tra Sting, Yukino, Rogue e Minerva (questi due faranno la loro comparsa a breve, quando verrà organizzata l'uscita che Yukino ha promesso ai due bambini)
    - Sorano che perde il lavoro causerà difficoltà non solo nella vita delle due sorelle, ma anche nella sfera sentimentale di Yukino. Ho accennato alla morte dei genitori di Sorano e Yukino, e allo zio Jiemma (nel manga, se ricordate, è l'ex master di Sabertooth che ha espulso Yukino trattandola malissimo): volevo un po' imitare la storia del manga così come ho fatto in precedenza accennando alla morte dei genitori di Mirajane, Elfman e Lisanna.
    - Levy che si occupa di Lily è un modo per permettere a Levy di interagire con Gajeel e con il suo ambiente anche se lui è fisicamente assente. Il reggiseno che ha trovato nel suo appartamento non indica che Gajeel è già fidanzato, infatti come avete potuto leggere nel capitolo precedente Gajeel è un tipo a cui piace solo "divertirsi" con le ragazze... ma cambierà presto idea, vedrete ;)
    Rivedremo i nostri militari circa tra un paio di capitoli, non temete, e ci sarà modo di far interagire nuovamente le varie coppie in diversi modi: ritorni, visite, chiamate telefoniche. In conclusione, quello che sto cercando di fare è portare avanti una storia complessa che coinvolge più personaggi (un po' come ha fatto Mashima nel manga) e spero che gli eventi che tratterò vi possano appassionare. Se siete curiosi, ecco un piccolo SPOILER sul cap. 7: sarà un capitolo incentrato solo su 2 personaggi femminili proprio come questo, ci saranno due flash-back sui "primi incontri" e il titolo sarà Acquazzone di fine settembre, acquazzone = acqua quindi potete ben immaginare chi sarà uno dei personaggi che tratterò. Alla prossima!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 16:50
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #07. Acquazzone di fine settembre



    Juvia sapeva che il bel tempo estivo non sarebbe durato ancora per molto, non perché fosse ormai fine settembre, ma perché per la prima volta dai tempi delle scuole medie Gray si era allontanato da lei. Prima del loro fatidico incontro aveva piovuto così tante volte nella sua vita che Juvia non ricordava nessuna vera giornata di sole trascorsa senza il suo inseparabile ombrellino blu: aveva piovuto al momento della sua nascita (glielo aveva raccontato sua madre), il suo primo giorno di scuola, durante le gite scolastiche e perfino la prima volta che era andata al mare – non appena Juvia aveva poggiato il piede sulla sabbia, il cielo si era improvvisamente rannuvolato annunciando un imminente temporale e lei era stata costretta a tornare a casa. Juvia era arrivata a pensare di essere la causa stessa del cattivo tempo, come se sopra la sua testa ci fosse una dispettosa nuvoletta che la seguiva ovunque gettando pioggia e fulmini, e questo aveva contribuito a renderla una bambina riservata e a volte perfino scontrosa.
    Poi era arrivato Gray.

    Juvia era seduta su una panchina nel cortile della scuola, da sola, le mani saldamente strette intorno al manico del suo ombrellino su cui la pioggia scivolava senza bagnarla.
    «Guardate!», esclamò un ragazzino indicandola. «Quella ha i capelli blu!».
    «Come il vestito e l’ombrello», commentò un altro.
    «Sembra un mirtillo», aggiunse il terzo. «Un gigantesco mirtillo!».
    I tre scoppiarono a ridere e Juvia avvertì le lacrime farsi strada negli occhi, blu anche quelli. Non era la prima volta che qualcuno la prendeva in giro per lo strano colore dei suoi capelli e in realtà Juvia non ci aveva mai prestato molta attenzione, ma ora cominciava seriamente ad odiarlo. Ad odiare il blu, i suoi capelli e l’odiosa pioggia che si portava dietro. «Juvia non è un mirtillo!», volle puntualizzare.
    «Chi è Juvia?», chiese uno dei tre ragazzini guardandosi intorno disorientato come per cercare qualcuno.
    «Io sono Juvia», rispose lei portandosi una mano al petto orgogliosa del suo nome.
    Come se avesse appena detto qualcosa di estremamente divertente, i tre risero di nuovo, questa volta ancora più sguaiatamente.
    Juvia non capiva. «Cosa c’è di strano?», chiese stizzita.
    «Il modo in cui parli è strano», rispose l’altro. «Tu sei tutta strana». E giù a ridere ancora.
    I tre sembravano divertirsi parecchio ma Juvia trovava le loro parole estremamente pungenti: la colpivano dritta al cuore, dritta ai suoi punti deboli, compresa l’abitudine di parlare di se stessa in terza persona. Ma che poteva farci Juvia se si era talmente appassionata alle avventure della graziosa maghetta con il suo stesso nome che era al centro dei bei romanzi scritti da suo padre, tanto da impersonarsi terribilmente in lei? Abbassò lo sguardo ricolmo di tristezza e si strinse nelle spalle sperando che, rimanendo in silenzio, i tre bulletti si sarebbero stancati e sarebbero andati via.
    «Ehi, lasciatela stare!».
    Avendo probabilmente assistito in disparte all’intera scena, un ragazzino dai capelli scuri si fece loro incontro scuotendo minacciosamente un pugno. Nel guardarlo Juvia sussultò imbarazzata: addosso aveva unicamente un paio di slip e non si era portato dietro nessun ombrello per ripararsi dalla pioggia. Possibile che non si vergognasse e non sentisse freddo?
    «Che vuoi, Gray?», chiese il capobanda. «E soprattutto, che ci fai di nuovo nudo?».
    «Eh?!». Il ragazzino si squadrò dal busto ai piedi e sgranò gli occhi subito dopo, come se si fosse reso conto di essere nudo solo in quel momento. «Q-questo non ti riguarda!».
    «Siete proprio una bella coppia voi due!», disse il capobanda indicando prima Gray e poi Juvia. «Gray lo spogliarellista e Juvia il mirtillo! Tutti e due strani, semplicemente perfett−».
    «SMETTILA!». L’urlo di Gray rimbombò forte e chiaro in tutto il cortile stroncando sul nascere le risate dei tre ragazzini e lasciando Juvia a bocca aperta. «SMETTETELA TUTTI QUANTI!». Quando il silenzio calò sull’intero gruppo, Gray continuò con più calma. «Io sarò anche uno spogliarellista, ma lei...», e lì indicò Juvia con una mano, «...non è un dannato mirtillo!».
    Juvia si lasciò tirare per un braccio dal suo misterioso salvatore il quale la trascinò via dal parco, non prima di aver urlato alle proprie spalle «E comunque i mirtilli sono buonissimi!».
    Il ragazzino la teneva ancora stretta per un polso e borbottava insulti diretti agli stupidi che li avevano presi in giro, quando Juvia si rese conto che aveva appena smesso di piovere. “È un miracolo!” pensò. Sbalordita, abbassò l’ombrello e rivolse gli occhi al cielo azzurro, finalmente sgombro di nuvole: il sole − bello, caldo, avvolgente − brillava davvero per la prima volta nella sua vita. Infine, toccandosi i capelli con la mano libera, Juvia arrossì teneramente sulle guance: se al suo dolce Gray, così lo avevano chiamato, piacevano tanto i mirtilli, non era più così sicura di odiare il colore delle ciocche che le incorniciavano il viso. Anzi, cominciava a piacerle un sacco!
    «Grazie, Gray-sama! Posso offrirti la mia merenda?».


    Da quel giorno non aveva più piovuto nella vita di Juvia (se non in saltuarie giornate autunnali) ed era tutto merito dell’arrivo di Gray che aveva portato con sé il sole. Eppure, a distanza di diversi anni dal loro primo incontro, ora pioveva di nuovo, a dirotto per giunta, e Juvia non poteva fare a meno di credere che la partenza di Gray avesse riattirato la nuvola maligna sulla sua testa.
    Camminando per le strade della città sotto il suo bentornato ombrellino blu, Juvia sentiva terribilmente la mancanza di Gray così come del sole. Nonostante avesse rifiutato la sua dichiarazione d’amore e spezzato il suo cuore con poche e semplici parole facendole trascorrere una notte in bianco, Juvia non riusciva proprio ad avercela con Gray e infatti non aveva resistito alla voglia di andare a salutarlo il giorno della partenza. Alla fine farsi quasi investire dal pullman dei militari non era stata una cattiva idea: nel vederla sbracciarsi come una pazza dal fondo della strada, Gray era sceso velocemente dal mezzo e le era andato incontro con un bellissimo sorriso stampato sul volto per poi ricambiare il suo abbraccio cancellando i brutti ricordi della sera prima. Insomma, nonostante Juvia fosse ben consapevole che Gray non ricambiava i suoi sentimenti, aveva deciso di rimanere ugualmente sua amica, anche a costo di farsi del male da sola, sia perché non riusciva a stargli lontana, sia perché lo stesso Gray mostrava di aver bisogno di lei. Non sapeva se un giorno sarebbe riuscita a spostare i suoi occhi altrove, a dimenticare il futuro che aveva immaginato al suo fianco, ma per il momento a Juvia andava bene anche così.
    Quel brutto temporale, però, non le piaceva affatto. Dato che Gray per il momento non sarebbe tornato a illuminare le sue uggiose giornate, Juvia si disse che doveva trovare qualche altro stratagemma capace di riportarle il buon umore e far smettere di piovere. Ci pensò per tutta la sera. Cosa avrebbe potuto fare? Dove sarebbe potuta andare? Magari un luogo familiare, un luogo che le ricordasse Gray e i bei momenti passati con lui...
    Senza quasi accorgersene le sue gambe la condussero verso casa Fullbuster, una grande villa dall’aria antica e solenne che sembrava rispecchiare la tradizione militare che legava i membri dell’intera famiglia. Arrivata di fronte alla porta, Juvia suonò incerta il campanello sperando di non disturbare.
    «Arrivo, arrivo», udì dall’altra parte. Juvia riconobbe la voce di Silver, il padre di Gray, che conosceva abbastanza bene: in quegli anni le era capitato spesso di rimanere da sola con l’uomo ad aspettare che Gray tornasse dalle lezioni di karate per aiutarlo con i compiti o per fargli semplicemente visita. Nonostante l’aspetto poco rassicurante, Silver era un uomo buono e Juvia amava ascoltare le sue storie di guerra seduta al grande tavolo di legno dell’ampia sala da pranzo.
    La porta si aprì rivelando la figura del padrone di casa sulla sua fedele sedia a rotelle.
    «Lyon», fu così che la accolse, nominando l’amico di Gray e poi sgranando gli occhi scuri nel focalizzare la figura di tutt’altra persona. Juvia trovava gli occhi di Silver tremendamente simili a quelli di suo figlio; erano solo più stanchi, segnati dalla malattia e dalla guerra. Forse un giorno lo sarebbero stati anche quelli di Gray, dal momento che aveva intrapreso la stessa carriera del padre, ma Juvia sperava almeno di non ritrovarlo sulla stessa sedia a rotelle. Lo avrebbe amato anche così, questo era certo, ma desiderava per il suo amato un futuro più roseo.
    «Buonasera, Silver-sama».
    «Juvia!», rispose Silver visibilmente sorpreso. «Cosa ci fai qui?».
    “Bella domanda”, pensò Juvia abbozzando un sorriso di cortesia. Ed ora cosa avrebbe dovuto rispondergli?
    «Juvia ha pensato che potessi sentirti da solo senza Gray-sama». Aveva optato per la prima cosa che le era venuta in mente e in fondo in quelle parole c’era pure un pizzico di verità, anche se non era ovviamente la motivazione principale della sua visita. «Juvia era un po’ preoccupata ed è venuta qui a controllare che fosse tutto a posto».
    «Ti ringrazio, Juvia», rispose Silver con un sorriso strascicato che accentuò le rughe ai lati della sua bocca. «Stai tranquilla, c’è già Lyon a farmi da balia».
    Juvia capì che quello era un modo come un altro per farle capire che non voleva essere ulteriormente disturbato e in fondo al cuore un po’ se ne dispiacque, ma doveva assolutamente tirare fuori un valido pretesto che incoraggiasse Silver a farla entrare. Forse era un desiderio piuttosto egoista, ma Juvia sentiva il bisogno di respirare l’aria familiare di casa Fullbuster, attraversare quei corridoi in cui era già stata diverse volte, sfiorare oggetti già passati sotto il tocco di Gray, osservare da vicino le foto appese al muro che lo ritraevano durante le varie tappe della sua vita. Solo così, forse, avrebbe potuto contrastare quel malinconico senso di nostalgia e far tornare il sole nel cielo e nel suo cuore.
    «Scommetto che Lyon-sama non sa fare panini buoni come quelli di Juvia».
    Il minuto dopo il suo fedele ombrellino sgocciolava nell’ingresso e Juvia armeggiava nella cucina di casa Fullbuster con un affamato Silver che le ronzava attorno.

    ***



    Quando anche l’ultimo cliente uscì dal Fairy Tail, Mirajane ripulì i tavoli e il bancone e lavò accuratamente per terra, infine si preparò una tazza di tè e si sedette ad un tavolo con lo sguardo rivolto alla grande finestra centrale del locale. La pioggia di fine estate cadeva fitta dal cielo plumbeo colando in rivoli sottili lungo i vetri appannati, le auto sfrecciavano sull’asfalto bagnato squarciando a intermittenza il buio della notte mentre qualche passante correva verso casa stringendosi l’ombrello sulla testa.
    Mirajane sorseggiava il suo tè godendosi il silenzio e la tranquillità dopo una lunga giornata di lavoro. Il Fairy Tail era sempre così affollato che durante la giornata non c’era mai un attimo di tregua, nonostante dividesse già il lavoro con suo fratello Elfman e la nuova arrivata Evergreen.
    Tuttavia non era sempre stato così, il Fairy Tail aveva avuto i suoi alti e bassi. All’epoca in cui a gestirlo erano i coniugi Strauss, era un bar abbastanza conosciuto e con buoni incassi, poi i proprietari erano morti a causa di un tragico incidente stradale. Non avendo parenti su cui contare, Mirajane, che era la più grande dei loro tre figli, aveva deciso con caparbietà di rimboccarsi le maniche per riprendere in mano il locale; era stato difficile all’inizio, non solo per la dolorosa perdita ma anche perché all’epoca Mirajane sapeva a malapena preparare il caffè. Complice la sua perenne distrazione e il suo essere smemorata, spesso faceva cadere i vassoi da portare ai tavoli causando disastrosi pasticci sul pavimento oppure dimenticava gli ordini di numerosi clienti che, lamentandosi del servizio pessimo, non sarebbero mai più tornati al Fairy Tail. I soldi non erano mai abbastanza per portare avanti il locale e la famiglia; Mirajane ricordava anche giornate in cui era rimasta volontariamente a digiuno pur di non far mancare la cena a Lisanna ed Elfman.
    Poi, un giorno come tanti altri, Mirajane aveva conosciuto Luxus Dreyar. Se lo ricordava quel giorno, se lo ricordava perfettamente.

    «C’è nessuno?».
    Al suono di quella voce maschile e sorprendentemente calda, Mirajane, piegata sotto il bancone per mettere a posto un vassoio, fece per sollevarsi in piedi pronta ad accogliere il cliente appena entrato nel bar (un miracolo negli ultimi tempi!). Nel farlo, però, sbatté la testa contro il marmo duro e freddo e proprio non riuscì a reprimere un lamento di dolore mentre si rialzava a fatica massaggiandosi la testa con una mano.
    «Tutto bene?».
    «Non è niente, non preoccuparti!», rispose minimizzando la cosa con un gesto della mano. Nel guardare il ragazzo davanti a sé, però, Mirajane si sentì arrossire come una bambina: biondo, alto, muscoloso, con una cicatrice a forma di fulmine che partiva dalla tempia destra, si interrompeva sull’occhio e proseguiva poi sullo zigomo attraversando tutto il lato del viso. Mirajane aveva sempre pensato che le cicatrici fossero esteticamente poco gradevoli, eppure quella grossa saetta non faceva altro che rendere ancora più affascinate e misterioso il giovane uomo che le stava davanti. Doveva avere più o meno la sua stessa età o forse qualche anno in più; la divisa verde militare sembrava fatta apposta per aderire alle sue spalle larghe e al suo petto ampio.
    «Allora, posso fare qualcosa per te?», gli chiese cordiale.
    «Un caffè».
    Mirajane annuì e si voltò verso la macchinetta del caffè sentendo sulla schiena lo sguardo penetrante e indagatore del suo cliente. Sperò che non gli stesse apparendo troppo svampita con i capelli in disordine, il grembiulino rosa ricamato e quel grosso bernoccolo sulla testa. Poco dopo afferrò la tazzina bollente e si voltò per posarla sul bancone. «Ecco a te», annunciò con un sorriso imbarazzato.
    Il giovane bevve il suo caffè, ma non smise di guardarla. Mirajane, sentendosi terribilmente a disagio, si chiese se per caso non avesse qualcosa di strano in faccia. «Perché mi guardi così?».
    «Perché sei molto bella», le rispose il militare con una naturalezza disarmante. «Posi per qualche rivista?».
    Mirajane sbatté le palpebre a più riprese, perplessa. Nessuno le aveva mai detto niente del genere, per lo più era abituata ai teneri commenti dei bambini sui suoi capelli bianchi («Sembri una fatina, Mirajane!») o alle volgari avances di qualche vecchiaccio che puntualmente Elfman metteva K.O. con un bel pugno urlando che non era da veri uomini rivolgersi in quel modo ad una signorina per bene come la sua sorellona. Per questo Mirajane non pensò nemmeno per un secondo che quel ragazzo la trovasse realmente così carina da poterla paragonare ad una fotomodella e finì per considerarlo al pari di tutti coloro che flirtavano con lei approfittando della sua disponibilità e dell’assenza di altri clienti.
    Delusa, aggrottò la fronte e lo guardò di sottecchi. «Lo dici a tutte le cameriere?».
    Il ragazzo lasciò la tazzina vuota sul bancone. «No. Tu sei la prima, Mirajane».
    La giovane Strauss sgranò gli occhi quando sentì il proprio nome uscire con tanta facilità dalle labbra di quello che era in fin dei conti un perfetto sconosciuto. Che si fossero già incontrati da qualche altra parte? No, non poteva essere. Nonostante la sua scarsa memoria, Mirajane non avrebbe potuto mai dimenticare un volto così bello e un comportamento così singolare. «Come fai a sapere il mio nome?».
    «È scritto lì». Il cliente puntò un dito verso il lato sinistro del petto di Mirajane e lei, seguendone la traiettoria, giunse con lo sguardo sull’elegante scritta ricamata a caratteri cubitali sulla stoffa del suo grembiule da lavoro.
    «Oh, che sbadata! È un regalo della mia sorellina. Lo so, è un po’ ridicolo, ma ci teneva tanto che io lo mettessi!». Sorrise Mirajane nel ricordare gli occhioni azzurri della piccola – ora non più tanto piccola – Lisanna a cui non era mai stata capace di dire di no.
    Il militare annuì, un angolo della bocca piegato in un mezzo sorriso, poi guardò l’orologio al polso e sembrò ricordarsi improvvisamente di un impegno. «Grazie per il caffè, Mirajane. Arrivederci». Tirò fuori dalla tasca poche monete e le lasciò cadere sul bancone. Guardandole, Mirajane si accorse che erano molte di più di quante ne servissero, ma il cliente sembrava essersene dimenticato, dato che si era già voltato per andare via. Mirajane avrebbe potuto approfittarne – in quel momento la sua situazione economica non era delle migliori – ma i suoi genitori le avevano insegnato il valore dell’onestà e lei non si sarebbe mai sognata di ignorarlo.
    «Ehi, devo darti il resto!», esclamò cominciando a frugare nella cassa.
    «Non lo voglio», fu la risposta secca del militare girato di schiena. Sorpresa, Mirajane interruppe la ricerca e lo osservò dirigersi verso l’uscita del bar con una mano infilata nella tasca e l’altra a sostenere un pesante borsone sulla spalla. Solo quando lo vide varcare la soglia della porta, Mirajane ricordò improvvisamente di non essere a conoscenza dell’identità dell’unico uomo che in vent’anni di vita (finalmente se n’era resa conto!) le aveva fatto un complimento sincero e lasciato una mancia consistente non per provarci spudoratamente con lei, ma per pura gentilezza.
    «Non mi hai detto il tuo nome!», urlò così forte che probabilmente la sentirono anche i passanti giù in strada.
    «Luxus Dreyar», fu l’ultima cosa che Mirajane udì prima che il militare svanisse nel nulla, quasi lei se lo fosse solo immaginato.
    “Grazie, Luxus” sussurrò a se stessa, certa che non avrebbe mai più dimenticato quel nome. Infine, portandosi una mano sul petto all’altezza della scritta “MIRAJANE”, si chiese quando e perché il cuore avesse cominciato a batterle così veloce.


    Luxus era tornato il giorno dopo e quello dopo ancora e tutti i giorni successivi, finché non avevano deciso di vedersi fuori dal locale per raccontarsi le rispettive vite e condividere gioie e dolori. Prima ancora di rendersene conto, si erano riscoperti innamorati l’uno dell’altro passando da fidanzati a sposati nel giro di pochi anni. Fin da subito, nonostante Mirajane si fosse apposta con decisione, Luxus aveva voluto contribuire economicamente alla rinascita del Fairy Tail che, grazie al suo sostegno, non solo era tornato quello di una volta, ma era stato anche ampliato e migliorato. L’insegna esterna era stata aggiustata, riverniciata ed ora brillava al buio attirando i clienti più notturni, i tavoli nuovi di zecca erano costantemente affollati, il nuovo menu riusciva ora a soddisfare i gusti più disparati. Insieme al Fairy Tail era rinata anche Mirajane che da ragazzina distratta e ingenua si era trasformata, grazie all’amore di suo marito, in una donna forte e responsabile capace di portare avanti non solo un locale grande e impegnativo, ma ben due famiglie: quella in cui era nata, gli Strauss, e quella che si era costruita da sola, i Dreyar.
    Dopo aver terminato di bere il suo tè, Mirajane chiuse il bar e si affrettò a raggiungere la sua vecchia casa, poco distante da lì, nella quale aveva vissuto con i suoi fratelli fino a poco tempo prima di andare via con Luxus. Da quel momento in poi, Lisanna ed Elfman erano rimasti ad abitare lì da soli, ma Mirajane li andava a trovare ogni giorno, dato che erano così gentili da occuparsi di Maiya mentre lei era a lavoro. Arrivata di fronte alla porta, infilò la chiave nella toppa e fece scattare la serratura.
    La porta si aprì rivelando l’interno caldo e familiare. «Lisanna?», disse Mirajane lasciando l’ombrello gocciolante nell’ingresso. Il caschetto bianco di sua sorella fece capolino dalla sala da pranzo da cui provenivano due diverse voci: una dolce e infantile, quella di Maiya, ed una maschile e gutturale che Mirajane non aveva mai sentito. Parlavano e ridevano tra loro, la bambina sembrava parecchio divertirsi. «Chi c’è di là?», chiese Mirajane curiosa.
    «Bickslow, un amico di Elf-niichan», le spiegò Lisanna arrossendo sulle guance.
    Mirajane sorrise, doveva esserci del tenero tra quei due. «E dov’è Elfman?», si volle informare.
    «È andato via poco fa. Borbottava qualcosa che aveva a che fare con Evergreen e l’essere un vero uomo...».
    «E tu te la spassi qui a casa con il suo amico... e brava la mia sorellina!». Mirajane arruffò scherzosamente i capelli di Lisanna che, se possibile, arrossì ancora di più. Che poteva farci? Le era sempre piaciuto spettegolare su questa o quella coppia, fare scommesse su chi si sarebbe messo con chi, aiutare gli innamorati in difficoltà. E i suoi fratelli non facevano eccezione.
    «È un tipo a posto», volle precisare Lisanna prima di incorrere nelle ire della sua sorellona.
    «Lo spero». Mirajane le rivolse un’occhiata eloquente. Quando la prima e ultima storia di Lisanna si era conclusa in un bagno di lacrime, Mirajane si era ripromessa che non avrebbe mai più permesso una cosa del genere. Avanzò quindi verso la sala da pranzo per accertarsi di quanto esattamente fosse a posto quel Beslow, o come cavolo si chiamava lui. Lì trovo un ragazzo seduto sul tappeto a gambe incrociate: aveva il viso coperto da un pesante elmo di metallo con un buffo pennacchio viola, reggeva con le mani cinque bamboline di legno e raccontava una storia a Maiya, a sua volta seduta di fronte a lui, che rideva e batteva le mani.
    Mirajane sentì un tuffo al cuore: quella scena, escludendo elmo e bamboline, le ricordava uno dei tanti momenti felici tra Luxus e sua figlia. Sorrise intenerita e chiamò Maiya per attirare la sua attenzione.
    «Mammina!», esclamò la piccola sollevandosi in piedi e andando incontro alla madre per abbracciarle una gamba. A sua volta il ragazzo si alzò dal tappeto ergendosi in tutta la sua altezza e si tolse l’elmo rivelando ciuffi di capelli blu e un tatuaggio che partiva dalla fronte, attraversava lo spazio fra gli occhi e si apriva in due ai lati del naso. Si avvicinò a Mirajane porgendole una mano e le parlò con una calma e una gentilezza che nessuno avrebbe mai associato ad un volto del genere.
    «Molto piacere, sono Bickslow e lei dev’essere la signora Mirajane Strauss».
    «Non darmi del lei, mi fai sentire vecchia! Ho solo qualche anno in più di te», disse Mirajane stringendogli la mano. «Grazie per esserti occupato di mia figlia».
    «Figurati! Ci siamo divertiti, vero baby?», chiese il ragazzo alla bimba facendole scherzosamente la linguaccia.
    Il «Sì» forte e chiaro che uscì dalle labbra di Maiya non potè che rassicurare Mirajane.
    Rendendosi conto che si era fatta una certa ora, la donna salutò Bickslow ed uscì dalla sala da pranzo con Maiya al suo seguito. Trovando Lisanna rimasta in disparte nel corridoio, le sussurrò in un orecchio «Carino» per poi vederla correre imbarazzata tra le braccia del ragazzo. Mirajane raggiunse quindi l’ingresso, non prima di aver gettato nuovamente un occhio e un orecchio alla sala da pranzo per spiare un’ultima volta la sua sorellina e il suo nuovo fidanzato.
    «Abbiamo un conto in sospeso noi due, o sbaglio?». Mirajane vide Lisanna sorridere al suono di quelle parole e addossarsi al divano per permettere a Bickslow di baciarla appassionatamente. Nell’osservare la scena Mirajane represse a stento un urletto d’emozione. Era così felice per la sua sorellina! Distolse infine lo sguardo e aprì la porta per uscire di casa. Prima o poi avrebbe dovuto smetterla di impicciarsi dei fatti sentimentali altrui. Più poi che prima, ovviamente.
    Fuori pioveva ancora. Stringendo Maiya tra le braccia insieme all’ombrello, Mirajane si affrettò a raggiungere l’auto parcheggiata poco distante da lì per tornare a casa. Solo dopo aver messo la piccola a dormire ed essersi a sua volta infilata nel letto vuoto e freddo, la donna sentì il peso di un’intera giornata ricaderle addosso, sulle membra stanche di lavoro e sul cuore pesante per l’assenza del marito. Per quanto cercasse di godersi quella normale quotidianità, per quanto fosse felice che sua sorella e sua fratello si stessero godendo la loro giovinezza, il pensiero tornava sempre al suo Luxus disperso chissà dove e a quella soffocante sensazione di essersi dimenticata di mettergli qualcosa di importante nella valigia.
    Nonostante la stanchezza ci mise ore ad addormentarsi. Il mattino dopo, svegliata dai raggi del sole che brillava nuovamente nel cielo asciugando le strade bagnate, Mirajane desiderò che potesse asciugare anche le lacrime impigliate tra le sue ciglia. Il volto di Luxus, bello come il sole di quella mattina ma ancora lontano, sempre lontano, non aveva abbandonato i suoi tormentati sogni nemmeno quella notte.

    ***



    Dopo ore passate a cercare Lily disperso chissà dove, ore che le erano servite solamente a beccarsi dritto addosso un bell’acquazzone, Levy si era fatta una doccia rigenerante e si era messa a letto con la certezza che non si sarebbe addormentata tanto facilmente.
    Per tutta la notte aveva pensato alle varie alternative con cui risolvere il problema. Dire subito la verità sperando che Gajeel non tornasse immediatamente lì per ucciderla? E come, poi? Non aveva nemmeno il suo numero! O magari parlargliene con calma al suo ritorno? O ancora, comprare un gatto che fosse vagamente simile a Panther Lily, dipingergli una cicatrice sul volto e sperare che Gajeel se la bevesse giusto il tempo di sparire per sempre da quel condominio, se non proprio dalla città? Ogni opzione le sembrava più assurda e stupida dell’altra, ma Levy non sapeva davvero cosa fare per rimediare al suo errore.
    Il mattino dopo Levy si affacciò alla finestra del proprio appartamento con una tazza di caffè stretta tra le mani: aveva smesso di piovere ed era tornato un bel sole tiepido. Immaginò che Lily, dopo una notte di pioggia passata al riparo di qualche albero, stesse ora gironzolando per le strade ancora bagnate, inconsapevole di tutto ciò che la sua scomparsa aveva e avrebbe causato.
    «Miao~».
    Gli occhi di Levy saettarono verso destra: poggiato sul davanzale di Gajeel, poco distante dal suo, l’oggetto dei suoi tormentati pensieri la guardava con un unico occhio aperto, il pelo perfettamente asciutto e il muso piegato in quello che le sembrò un ghigno degno del suo padrone. A quel punto Levy pensò seriamente di avere le allucinazioni. Si portò una mano alla fronte e sbatté le palpebre sperando che quello non fosse solo un sogno, ma l’immagine di Lily non accennava a scomparire dalla sua vista. Okay, magari quel ghigno tremendamente umano se l’era solo immaginato, ma la scena nel complesso era fin troppo reale. Levy fu sul punto di urlare dalla gioia e far cadere la tazza di caffè giù dal balcone quando si ricordò della priorità di tenere Lily il più lontano possibile dalla strada, quindi uscì in fretta dall’appartamento e corse in quello di Gajeel. Con cautela andò a chiudere la finestra inducendo il gatto a spostarsi e infine si lasciò sfuggire un lungo sospiro di sollievo.
    Menomale, pensò. Non ci sarebbe stato bisogno né di procurarsi una copia di Lily né di emigrare dall’altra parte del mondo per non incorrere nelle ire di Gajeel. Lily era salvo... e lei pure.








    Note dell'autrice:
    Oggi le note saranno molto brevi, sia perchè vado di fretta (domani inizio il terzo anno di università!), sia perchè in realtà non ho chiarimenti da darvi. Spero soprattutto che i flashback sui primi incontri vi siano piaciuti! Levy ha ovviamente ritrovato Lily, altrimenti poi che figura ci avrebbe fatto con Gajeel? XD d'altronde era naturale che Lily tornasse a casa, soprattutto perchè se ben ricordate Lily nel manga ha paura dei temporali! Solo che questo Levy ancora non lo sa :D
    SPOILER sul cap. 8: avremo la NaLu che finalmente comincia a delinearsi e qualcosa sul passato della Gerza ♥
    Avviso: d'ora in poi gli aggiornamenti di questa storia saranno più distanziati, quindi non più un capitolo a settimana ma un capitolo ogni 15/20 giorni. A presto! :)

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 16:58
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #08. Sotto lo stesso cielo



    Lucy sospirò, un gomito poggiato sulla scrivania invasa dai libri e il viso sostenuto mollemente dal palmo della mano. Con i denti mordicchiava una matita, con lo sguardo vagava oltre la finestra lasciata aperta desiderando che Natsu si intrufolasse ancora una volta nella sua camera. Ma Natsu era partito da una settimana e con lui sembrava andata via anche l’estate insieme a tutti i suoi lati negativi, quelli che Lucy non sopportava − il caldo asfissiante, l’umidità che faceva incollare i vestiti alla pelle sudata, la persistenza delle zanzare − ma anche i suoi lati positivi, quelli di cui già sentiva la mancanza: le giornate trascorse al mare tra tuffi e gelati, le passeggiate in campagna all’ombra dei maestosi alberi, Natsu stesso e la sua incontenibile allegria. Da quando era partito, le giornate le sembravano tutte piatte e uguali: colazione, studio, pranzo, studio, cena, letto e di nuovo da capo. Aveva provato a uscire con qualche amica, ma la cosa non migliorava molto il suo umore, così come non bastavano gli sporadici messaggi che Natsu le inviava.
    Lucy afferrò il cellulare, fece scorrere il dito sullo schermo e pescò l’ultimo messaggio risalente a due giorni prima. L’aveva riletto talmente tante volte che se l’era quasi imparato a memoria, virgole comprese:
    “Ciao Lucy, come va? Qui è tutto fantastico, esattamente come l’avevo sempre immaginato. Ci hanno messo in riga già dal primo momento, ma è proprio questo il bello! Gray non fa altro che lamentarsi, a breve lo picchio. Sai che ho conosciuto un ragazzo che mi somiglia un sacco? Si chiama Sting, sono sicura che ti sarebbe simpatico. Ora vado, ci sentiamo presto!”
    Ormai con la mente da tutt’altra parte, Lucy richiuse il libro che aveva di fronte con un tonfo secco e la stessa fine fecero gli altri libri e quaderni sparsi per la scrivania. Li ripose con cura al loro posto, si alzò dalla sedia e uscì sul balcone poggiandosi con il busto alla ringhiera.
    Era una bella serata di fine settembre, non faceva né caldo né freddo. Con il naso rivolto all’insù, Lucy notò in cielo tante di quelle stelle – una, due, tre... oh, le aveva sempre adorate le stelle... quattro, cinque, sei – che non potè fare a meno di chiedersi se le stesse guardando anche Natsu dall’altra parte della nazione. E in uno slancio di immaginazione arrivò a pensare che potevano non condividere più lo stesso spazio, potevano non vedersi e sentirsi da giorni, ma erano comunque sotto lo stesso cielo e sempre lo sarebbero stati.
    Lucy puntò infine lo sguardo sul balcone dell’amico che si stagliava in lontananza. Un tempo le sarebbe bastato inviargli un messaggio sul cellulare per vederlo sbucare fuori dalla stanza e sbracciarsi sorridente nella sua direzione. Ora la luce era spenta, la finestra chiusa, il balcone vuoto così come i suoi giorni senza di lui. Eppure Lucy non poteva fare a meno di sorridere immaginandoselo correre da una parte all’altra del centro di addestramento con addosso la divisa militare che aveva tanto agognato e faticosamente ottenuto.
    Lucy era così incredibilmente fiera di lui. E avrebbe aspettato, avrebbe aspettato perfino anni pur di riavere indietro la sua estate personale.
    “Torna presto, Natsu”.

    ***



    Centro Addestramento Volontari ► VFP1

    La prima settimana era passata in fretta tra attività fisica giornaliera, addestramento all’uso delle armi e primi passi per effettuare le pattuglie, e Natsu non poteva sentirsi più felice di così. Perché ora dovesse fare la guardia notturna, però, proprio non riusciva a capirlo: l’intero centro di addestramento era già ben sorvegliato grazie ad un sofisticato sistema di telecamere posizionate in ogni più piccolo anfratto e poi, a dirla a tutta, quale persona sana di mente si sarebbe intrufolata in un edificio pieno di soldati pronti a sparare al minimo rumore? Un ingenuo ladro convinto di riuscire a rubare qualche arma e rivendersela a buon prezzo? O magari qualcuno che, non avendo passato le graduatorie VFP1, credeva di potersi mescolare indisturbato tra le matricole? Tutte opzioni alquanto improbabili.
    La verità era che il Caporal Maggiore Clive pretendeva che i suoi soldati si abituassero fin da subito ai sacrifici della vita militare, compreso trascorrere intere notti in bianco e arrivare al mattino dopo più stanchi di prima con due borse sotto gli occhi e le membra tutte indolenzite. Proprio per questo, ogni notte l’istruttore sceglieva due ragazzi e li obbligava a starsene di guardia nello spazio sterrato al centro del dormitorio, intimando loro di non fare baccano e di non addormentarsi per nessuna ragione al mondo perché il suo fine udito gli avrebbe permesso di sentire chi rideva o russava e quindi di punirlo severamente (lavori forzati, altre tre notti di guardia e chissà cos’altro).
    Quella notte era toccato a Natsu e Sting. Se ne stavano stesi per terra, l’uno accanto all’altro tra polvere, fango e impronte di scarponi, con la nuca posata sui rispettivi zaini e gli occhi rivolti all’immensità di blu sopra le loro teste. Natsu constatò con rammarico che, mentre Sting sembrava perfettamente a suo agio, lui non era certo di poter resistere ancora a lungo. Ogni tanto gli prudevano le mani o gli veniva voglia di sbattere i piedi sul terreno in preda agli spasmi della noia. Per non parlare del fatto che era stato sul punto di addormentarsi almeno sette volte e altrettante volte Sting l’aveva strattonato per un braccio ricordandogli le minacce del Maggiore. Inutile, starsene zitto e immobile non era un lavoro adatto a Natsu Dragneel; avrebbe preferito di gran lunga marciare fino ad accasciarsi per terra senza più fiato come era avvenuto in quella prima settimana di addestramento.
    «Allora ce l’hai sì o no?», disse Sting ad un certo punto.
    Natsu ruotò la testa per guardare l’amico in volto. Non si era nemmeno reso conto di quando avesse cominciato a parlare ma gliene fu estremamente grato. Al diavolo Clive e quella inutile guardia! Il silenzio era a dir poco assordante per le sue orecchie sempre abituate al rumore.
    «A cosa ti riferisci, Sting?», chiese sinceramente curioso.
    «Io ti ho già parlato di Yukino», spiegò Sting sorridendo. «Tu la ragazza ce l’hai sì o no?».
    Natsu si lasciò sfuggire un «Eh?» di pura perplessità per quella domanda così inaspettata che ebbe il potere di far sbottare Sting, rimasto fino ad allora calmo e a suo agio.
    «Oh, insomma, ma che ti prende?! Ti ho fatto una semplice domanda, così, tanto per parlare...».
    Il giovane Dragneel attese qualche secondo. «Be’, no, non ce l’ho», ammise a bassa voce. «Ne ho avuta una ai tempi della scuola, ma non è stato nulla di che».
    La sua prima (e ultima) ragazza si chiamava Lisanna Strauss e da bambino Natsu le aveva stupidamente promesso che si sarebbero sposati; non ricordava bene come si fossero fidanzati, né quanto tempo fossero rimasti insieme, ma certamente non avrebbe mai dimenticato il modo in cui lui stesso le aveva spezzato il cuore lasciandola di punto in bianco e dicendole che no, non ci sarebbe stato nessun matrimonio. Lisanna era una ragazza molto carina e per un po’ di tempo Natsu ne era stato attratto, complici gli ormoni adolescenziali in subbuglio, ma alla fine si era reso conto che l’amore non poteva essere solo quello, che doveva esserci altro, qualcosa di più profondo, di più intimo.
    «Niente ragazza quindi», concluse Sting.
    «Ma ho un’amica speciale, si chiama Lucy», ribatté Natsu allegro, reputandola molto più importante di una fidanzata o di qualunque altra ragazza gli fosse mai girata intorno.
    «Certo, amica speciale, dicono tutti così...», lo punzecchiò Sting con una gomitata, ridacchiando subito dopo. «Sai, Natsu...», aggiunse poi con aria di chi la sa lunga, «il confine tra amicizia e amore è davvero molto sottile. Il giorno prima di arrivare qui Yukino era la mia amica speciale, come dici tu; il giorno dopo è diventata la mia ragazza».
    Natsu aveva ascoltato attentamente le parole di Sting – il tono di voce con cui le aveva pronunciate era così tranquillo, così sicuro – e una domanda gli uscì dalla bocca ancora prima di averla pensata, tanto che sorprese perfino se stesso: «E come hai fatto allora?». Si girò su un fianco per guardare meglio l’amico. «Se questo confine è tanto sottile, come hai fatto ad accorgerti di... amarla?». L’ultima parola venne fuori in un sussurro, quasi Natsu avesse paura a pronunciarla, ma lui non aveva paura, no. Voleva sapere, capire. Sotto questo aspetto il suo nuovo amico sembrava molto più esperto di lui.
    «Oh, avanti, Natsu!», lo incoraggiò Sting gesticolando vivacemente per enfatizzare il discorso. «Non ti è mai capitato di guardare questa tua amica in modo diverso dal solito, come un uomo che guarda e desidera la sua donna? Che ne so... un episodio particolare... una parola... un gesto...».
    Natsu tornò a guardare il cielo punteggiato di stelle e rifletté attentamente. Forse... forse qualcosa c’era. Un ricordo che andava solo recuperato tra i meandri della sua disordinata mente, messo a fuoco e meglio interpretato.


    Con un braccio sostenuto a fatica dalle spalle sottili di Lucy e le gambe che si trascinavano stancamente l’una dietro l’altra, Natsu varcò la soglia di casa ripromettendosi che non avrebbe mai più bevuto un goccio d’alcol fino alla fine dei suoi giorni. Quella sera aveva decisamente esagerato: gli occhi continuavano a chiudersi nonostante si imponesse di tenerli aperti, aveva caldo dappertutto − sul viso, sul collo, alle mani − e una fastidiosa sensazione di nausea alla bocca dello stomaco. Tutto per colpa di una stupida gara di bevute (rigorosamente organizzata dalla sua amica Cana) in cui lui e Gray si erano sfidati all’ultimo sangue − letteralmente. L’alcol, infatti, li aveva resi talmente competitivi e aggressivi da finire per pestarsi a vicenda: Gray si era ritrovato il naso gocciolante di sangue mentre Natsu si era beccato un occhio nero e gonfio. A rissa finita, i due si erano chiesti scusa a vicenda e si erano stretti la mano, non ricordandosi nemmeno perchè si fossero picchiati. Lucy, da brava dottoressa quale sarebbe certamente diventata, li aveva medicati entrambi con del ghiaccio mentre Juvia la additava minacciosamente “rivale in amore”. Infine Gray era stato riaccompagnato a casa dalla sua teatrale spasimante mentre Lucy si era messa alla guida dell’auto di Natsu e lo aveva riportato a casa ubriaco e sofferente.
    «Ohi, Lucy», tentò Natsu mentre salivano con fatica le scale del piano superiore. Forse l’alcol doveva aver amplificato al massimo i suoi sensi perché sentiva il profumo fruttato dei capelli di Lucy proprio dentro le narici e non poteva fare a meno di inspirarlo a pieni polmoni ogni tre o quattro gradini.
    Sentendosi chiamare, Lucy mugugnò un distratto «Mmh?», troppo concentrata a sostenere Natsu per la schiena affinché non ruzzolasse giù dalle scale prima di arrivare in camera da letto.
    «Mi dispiace», biascicò Natsu riferendosi all’episodio accaduto al pub. «E grazie», aggiunse subito dopo, certo che Lucy avrebbe capito senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Voleva solo ringraziarla per tutto ciò che aveva fatto per lui e per Gray: li aveva separati, sgridati, medicati e rispediti ognuno a casa sua.
    «Non fa niente, basta che non succeda più», rispose Lucy sistemandosi meglio il braccio di Natsu sulle spalle e lasciandosi sfuggire un lamento a bassa voce. Natsu avrebbe tanto voluto liberarla di quel peso, ma non riusciva a reggersi in piedi da solo e sperò ardentemente che giungessero alla meta il prima possibile.
    Continuarono le scale in silenzio, l’uno appiccicato all’altro, stanchi e sudati per quella serata passata in compagnia dei loro amici. Ad un certo punto Lucy rallentò il passo e la sua voce risuonò nell’orecchio di Natsu particolarmente ovattata, quasi un’eco in lontananza: «Attento all’ultimo gradino».
    Troppo tardi. Credendo ci fossero ancora altre scale, Natsu sollevò il piede e perse l’equilibrio cadendo rovinosamente in avanti insieme a Lucy. Gli ci volle qualche secondo per rendersi conto di aver peggiorato una serata già di per sé pessima e non potè fare a meno di sentirsi ulteriormente mortificato.
    «Ahi...».
    Lucy era spalmata sul pianerottolo a pancia in giù e Natsu giaceva sopra di lei schiacciandola involontariamente con il proprio peso. Era atterrato sul morbido, ecco perchè a differenza di Lucy non avvertiva alcun dolore. In compenso, però, si sentiva più intontito di prima.
    «Ti sei fatta molto male, Lucy?», si volle informare, gli occhi fissi sui suoi lisci capelli biondi.
    «Non tanto», rispose la ragazza con un filo di voce. «Ma se magari ti togliessi potrei...».
    «Ah sì, certo». Natsu puntò i gomiti sul pavimento e si sollevò di poco, quel tanto che bastava per permettere a Lucy di respirare regolarmente. Poi, sostenendosi con entrambe le braccia, piegò anche le ginocchia e si mise a quattro zampe pronto a sollevarsi in piedi. E di certo lo avrebbe fatto, oh sì che lo avrebbe fatto, se non avesse notato che la gonna svolazzante di Lucy, durante la caduta, si era malauguratamente sollevata mostrando un accenno dei glutei tondi e sodi fasciati da un paio di mutandine azzurro chiaro con tanto di merletto. Natsu sbatté le palpebre a più riprese fino a rendersi conto che stava fissando, non senza un certo interesse, il fondoschiena della sua migliore amica. Deglutì a vuoto, la salivazione improvvisamente a zero. Avrebbe dovuto ignorare quell’immagine pur così piacevole e passare oltre, mettersi in piedi, allontanarsi, ma il suo irrequieto istinto gli suggeriva tutt’altro. Forse quella sera aveva bevuto decisamente troppo o forse Gray lo aveva colpito con tanta forza da bruciargli i pochi neuroni che aveva in testa perchè – non poteva negarlo – avvertiva forte e chiaro il desiderio di allungare una mano verso il sedere di Lucy e... non per sistemarle la gonna da buon amico qual era, niente affatto. Avrebbe voluto alzare completamente la stoffa, scostare l’orlo delle mutandine, tastare la pelle calda e... Ma cosa gli prendeva? Aveva visto Lucy in costume da bagno tante di quelle volte e l’aveva toccata, abbracciata, stretta a sé senza mai fare pensieri del genere. O almeno, non fino a quel momento.
    «Natsu?», lo richiamò Lucy in attesa. Non avendo ottenuto alcuna risposta, la ragazza si rigirò sul pavimento mettendosi seduta di fronte a lui per guardarlo in volto e scoprire cosa gli fosse preso tutto d’un tratto. Pessima mossa, ora Natsu poteva godere della generosa scollatura che Lucy aveva scelto per quella serata e che mal celava i seni visibilmente abbondanti e sodi e... Dio, ma lo portava il reggiseno? Sforzando un po’ la vista, a Natsu sembrò di intravedere la forma di un capezzolo sporgere dalla stoffa della maglietta e d’improvviso avvertì le guance bollenti, tanto che il caldo umido e afoso dell’estate (che aveva sempre sopportato piuttosto facilmente) gli pareva niente in confronto all’aria improvvisamente irrespirabile di quel dannato pianerottolo.
    Natsu strizzò gli occhi e respirò a fondo. Forse si stava immaginando tutto? Forse aveva già raggiunto il letto e quello era solo un insolito quanto bellissimo sogno?
    Lucy doveva essersi accorta che qualcosa non andava perchè di colpo la sua espressione era passata da confusa ad accigliata. Infine, seguendo con gli occhi la traiettoria indicata da quelli di Natsu, arrossì vivacemente. «M-mi stai fissando le...?!».
    «No!», esclamò Natsu allarmato. «Io non...».
    Eppure Lucy non lo aveva ancora tramortito con uno schiaffo. Si limitava a fissarlo in attesa di qualcosa – come se volesse qualcosa – e Natsu avrebbe tanto voluto saperlo per accontentarla. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederla felice: se in quel momento Lucy gli avesse chiesto di portarla in braccio fino a casa, Natsu lo avrebbe fatto – barcollando e rischiando di inciampare ancora per l’alcol che gli galleggiava in corpo, ma lo avrebbe fatto. Per lei, per Lucy.
    «Natsu...», il proprio nome uscì dalle labbra dell’amica con il tono di una preghiera, quasi una richiesta d’aiuto. Natsu guardò quelle labbra carnose, dischiuse, ancora lucide di rossetto, e si chiese se fossero morbide proprio come sembravano. E mentre se lo chiedeva si avvicinava e mentre si avvicinava Lucy non si ritraeva. Con coraggio Natsu le circondò la schiena con le braccia e la tirò delicatamente verso di sé senza incontrare opposizioni: centimetro dopo centimetro, il bacino di Lucy aderì contro il suo, così come lo stomaco e il petto ansimante, e i loro volti si ritrovarono così vicini che, allungando solo il collo, Natsu avrebbe potuto tranquillamente baciarla. Ma con che pretesto, con quale giustificazione? Lucy era sua amica, baciarla sarebbe stato sbagliato, eppure la sola idea di farlo gli appariva tremendamente giusta, tremendamente bella. Perché?
    Natsu cercò una risposta nei grandi occhi color cioccolata in cui si stava specchiando, ma vi trovò la stessa confusione che certamente traspariva dai propri. Brillavano gli occhi di Lucy, circondati dalle lunghe ciglia bionde intensificate dal leggero velo di mascara, e le sue guance erano rosse come mele mature. Forse era ubriaca anche lei, forse era per questo che non lo aveva ancora picchiato di santa ragione.
    «Lucy», soffiò sulle sue labbra. Sicuramente l’alito gli puzzava un sacco d’alcol e quell’occhio nero non doveva essere una bella vista, ma a Lucy non sembrava importare nulla di tutto ciò. Natsu sperò che non le importasse nemmeno il giorno dopo perchè non voleva perdere la sua migliore amica per quegli stupidi ormoni in subbuglio alterati dalla sbronza contro cui stava combattendo da almeno dieci minuti. Inutilmente, tra l’altro: starsene schiacciato contro quelle forme generose e accoglienti stava iniziando a fare effetto e Natsu pregò con tutto se stesso che Lucy non si accorgesse del lieve rigonfiamento in mezzo alle sue gambe scaturito da quella volontaria e malsana vicinanza, da quel continuo strusciarsi a cui lei non si era ancora ribellata. Lucy sembrava così arrendevole, così disponibile sotto di lui, così bella da fargli girare la testa, da fargli venire le vertigini e rimescolargli tutto all’altezza dello stomaco – letteralmente.
    «Devo vomitare».
    «Eh?».
    Tappandosi la bocca con una mano, Natsu scattò velocemente in piedi e corse in bagno rigettando nel water tutto ciò che aveva mangiato e bevuto quella sera. Poco dopo si ritrovò una mano di Lucy che gli sosteneva la fronte bollente e l’altra che gli premeva con dolcezza sulla nuca.
    Dannata gara di bevute, dannata Cana, dannato Gray e dannato alcol che per un momento gli aveva aperto gli occhi su quanto Lucy potesse risultare attraente agli occhi di un qualsiasi ragazzo della sua età, lui compreso. Non ne avrebbe mai più bevuto un goccio se quelle erano le conseguenze.
    Quando Natsu si sentì meglio, Lucy andò via dicendo che se non fosse tornata a casa subito, suo padre avrebbe chiamato di corsa la polizia. Dopo averla accompagnata alla porta, Natsu tornò nella sua stanza e si accasciò sul letto sfinito addormentandosi subito dopo. Il mattino successivo si svegliò con un mal di testa martellante e ricordi offuscati della sera prima che finirono velocemente nel dimenticatoio, un po’ per volontà propria e un po’ perchè Lucy sembrava poco turbata dalla questione, dato che non l’aveva tirata fuori nemmeno per sbaglio.
    Meglio così, si era detto. Un problema in meno.



    Eppure, a distanza di un anno, il ricordo di quell’episodio era tornato prepotente nella sua testa mettendogli in subbuglio il cuore e pure le mutande. Ancora steso sotto le stelle, Natsu si guardò agitato il cavallo leggermente gonfio dei pantaloni e sperò che Sting non si accorgesse di nulla. Una speranza piuttosto vana, dato che il suo amico non era mica ingenuo come Lucy.
    «Qualche problema, Natsu?», lo punzecchiò infatti Sting notando il suo turbamento.
    «No, va tutto alla grande», sbottò Natsu scattando contemporaneamente in piedi e afferrando il suo zaino.
    «Ehi, stavo scherzando!», si allarmò Sting. «Dove diavolo vai ora?!».
    Natsu se ne andò sventolando distrattamente una mano. «Mi sono stancato, continua da solo».
    «Ma Clive ha detto−».
    «Non me ne frega nulla di Clive!», urlò ormai lontano.
    Natsu raggiunse a passo di marcia il bagno e, spogliatosi della divisa, si calò sotto il getto dell’acqua fredda per spegnere i bollenti spiriti e cancellare quell’immagine di Lucy così bella, così vivida nella sua mente. Lucy era sua amica e non aveva il diritto di pensarla in quel modo, di guardarla come un uomo che guarda e desidera la sua donna: da ubriaco il suo comportamento poteva passare per giustificato – si sa, l’alcol rende più disinibiti e meno responsabili – ma da lucido non aveva scusanti. Natsu si ripromise che quell’episodio sarebbe rimasto confinato lì, al centro di addestramento, e che al suo ritorno a casa sarebbe tornato a guardare Lucy con gli occhi della pura e innocente amicizia. O almeno, si sarebbe sforzato.

    ***



    Dopo una lunga giornata trascorsa a impastare, cucinare e incartare dolci in confezioni appositamente decorate e presto vendute ai clienti impazienti di assaggiarli, Gerard chiuse finalmente la pasticceria e uscì in strada per assaporare la sua parte preferita della giornata: il momento in cui il cielo passava dai colori caldi del tramonto – il giallo del sole che calava sulla città, l’azzurro e il rosa che si mescolavano all’orizzonte – al nero penetrante e avvolgente della sera. La luce dei lampioni illuminava a tratti il paesaggio immerso nella quiete, anziane signore chiacchieravano a distanza dai loro balconi, qualche auto sfrecciava sull’asfalto mentre alcuni ragazzini si apprestavano a tornare a casa dopo un pomeriggio passato a giocare al parco. Era quello il momento che Gerard amava osservare e che più lo rilassava.
    Raggiunta la moto parcheggiata di fronte alla pasticceria, si poggiò sul sedile infilando una mano nella tasca dei pantaloni per tirarne fuori un pacco di sigarette e un accendino. Era un vizio di cui non andava particolarmente fiero, ma di cui non riusciva ancora a liberarsi, vecchio ricordo di un’adolescenza tormentata ancora ben impressa sulla pelle − il marchio indelebile che gli copriva metà viso ne era la chiara dimostrazione. Pescò dal pacco una sigaretta, la accese con calma e se la portò alle labbra ispirandone una boccata; piccole volute di fumo si dispersero leggere nell’aria insieme all’eco di voci in lontananza.
    Sette anni prima, la scena era più o meno simile: la stessa pasticceria con l’insegna “Crime Sorciere” che si illuminava a intermittenza, la stessa strada immersa nel buio e nella calma della sera, la stessa moto con qualche graffio e qualche chilometro in meno, lo stesso ragazzo – forse un po’ più giovane e meno responsabile – con in mano la stessa sigaretta fumante.
    Ma in quella scena di sette anni prima c’era anche qualcosa di diverso.


    Gerard sbatté violentemente la porta della pasticceria e uscì in strada ignorando alle sue spalle la voce del padre che gli urlava, non senza aspirare le consonanti e incespicare nelle sue stesse parole, di tornare immediatamente dentro perché non avevano ancora finito di lavorare.
    «Vaffanculo», sibilò il giovane a denti stretti mentre si avviava verso la moto parcheggiata poco distante. Non era affatto colpa sua se in pasticceria c’era ancora del lavoro da sbrigare, ma colpa di quella bestia che si ritrovava come genitore (non osava chiamarlo “padre” perché era piuttosto sicuro che “padre” fosse ben altro): se il suddetto genitore non fosse tornato a casa barcollante dopo una notte passata a sprecare denaro prezioso in alcol e chissà cos’altro, a quell’ora la pasticceria avrebbe già potuto chiudere i battenti con tutti i conti in regola.
    Nel tragitto verso il parcheggio, Gerard si accese velocemente una sigaretta portandola con impazienza alle labbra; si sentiva così nervoso che avrebbe potuto fumarsene anche cinque una dietro l’altra. Ritrovò la calma solo quando arrivò di fronte alla sua moto nuova di zecca che, in mezzo a tante auto vecchie e ammaccate, faceva assolutamente un bel figurone: ne accarezzò il manubrio lucido ricercando con lo sguardo un graffio che non trovò e si sedette sul sedile soddisfatto per godersi un momento di relax prima che gli altri lo raggiungessero.
    «Ciao».
    Gerard si voltò trovando di fronte a sé la figura della cliente più accanita del Crime Sorciere.
    «Ciao», le rispose.
    Con il volto così pulito, lo chignon di capelli scarlatti nascosto sotto il berretto con la visiera, una tuta maschile addosso e uno zaino sulle spalle, probabilmente Erza Scarlett sarebbe sembrata un maschio a chiunque l’avesse incontrata per la prima volta. Ma non a Gerard, non a Gerard che l’aveva vista crescere e maturare davanti ai propri occhi passando dal corpo minuto e mascolino di quando era bambina a quello sinuoso e formoso di una ragazza. Una bella ragazza di diciotto anni che di mestiere voleva fare il soldato e che se avesse voluto avrebbe potuto tramortirlo con un pugno dritto nello stomaco. Ma Erza agli occhi di Gerard non era solo quello, no: era la bambina dell’orfanotrofio dietro l’angolo per la quale aveva preso una sbandata colossale fin dalla prima volta in cui l’aveva vista entrare nella pasticceria con una pistola finta sotto il braccio e i pantaloncini sporchi di fango, era l’irraggiungibile ragazza dei suoi sogni alla quale non osava dichiararsi per un motivo che in realtà sfuggiva perfino a lui stesso. Forse perché sospettava che Erza non lo ricambiasse, forse perché una fidanzata lui non la voleva o perché al momento aveva altro a cui pensare – un padre degenere che rischiava di mandare l’intera famiglia sul lastrico, una madre debole che non fiatava quando il marito poco lucido le stampava cinque dita sulla guancia. Più volte Gerard si era ritrovato a pensare che avrebbe preferito di gran lunga essere stato abbandonato alla nascita per poter crescere nell’orfanotrofio del vecchio Makarov, l’unica persona che riusciva ad associare alla parola “padre”. Lo vedeva nel modo in cui Erza sorrideva quando parlava di lui, nel modo in cui il vecchio si rallegrava quando parlava dei suoi numerosissimi figli.
    «È rimasta un po’ di torta alle fragole?», fu la voce di Erza a riportare Gerard alla realtà.
    «Vado a controllare», rispose ispirando un’altra boccata di fumo. «Aspettami qui».
    Erza annuì con un sorriso e Gerard rientrò in pasticceria ignorando nuovamente suo padre che, rosso in volto per la rabbia e per la sbronza, riprendeva a sbraitare contro di lui. Adocchiata la giusta fetta di torta esposta sul bancone, la prese e la incartò velocemente per poi uscire fuori dal locale dove Erza lo aspettava pazientemente.
    Quando la ragazza spiò nella confezione intravedendo strati di panna e pezzi di fragole, i suoi occhi si illuminarono all’improvviso. «Grazie!», esclamò porgendogli i soldi con la mano, ma Gerard prontamente indietreggiò.
    «Consideralo un regalo», le disse ed ebbe come l’impressione che Erza, a quelle parole, fosse arrossita lievemente sulle guance, salvo poi allungare di nuovo la mano e aggiungere «Tienili, insisto».
    Gerard stava per ribattere che si trattava solo di un misero pezzo di torta e che davvero non voleva nulla in cambio, quando all’improvviso il rombo scalpitante di grosse moto attirò l’attenzione dei due ragazzi facendoli voltare.
    Tre motociclisti si fermarono di fronte a loro sgommando. Il capobanda scese dalla moto e si tolse il casco rivelando una massa di capelli blu come la notte e un viso scuro adornato di tatuaggi. «Allora, Gerard, non avrai mica cambiato idea?», chiese Acnologia con un ghigno.
    «No». Gerard buttò la sigaretta per terra e la spense con un piede. «Ci metto un attimo».
    «Chi sono queste persone, Gerard?», la voce di Erza gli arrivò alle orecchie confusa e preoccupata, così come lo erano i suoi occhi che non smettevano di squadrare dalla testa ai piedi i tre motociclisti.
    «Sono miei amici», rispose Gerard schivo. In realtà li aveva conosciuti da poco, ma con loro si sentiva parte di un gruppo, sentiva di essere finalmente uscito dall’anonimato. Non era più Gerard il ragazzino sfigato che vendeva torte, ma Gerard il braccio destro di Acnologia di cui tutti avevano rispetto e paura. Con loro trovava coraggio a sufficienza per impennare con la moto senza aver paura di cadere e in quei momenti riusciva a svuotare per qualche ora la mente, a dimenticare i problemi che gli gravavano sulle spalle.
    «Ti muovi sì o no?», lo richiamò Acnologia con tono più aggressivo. «Tra poco chiude».
    «Di cosa sta parlando, Gerard?», chiese Erza con aria indagatrice.
    «Vado a farmi un tatuaggio...». Gerard si spostò le ciocche più lunghe dalla fronte e delineò con il pollice una linea immaginaria che gli attraversava tutta la parte destra del volto. «... qui».
    «Un tatuaggio in faccia?!». Erza scattò su tutte le furie rischiando di far cadere la fetta di torta che stringeva tra le mani. «Ma sei stupido?!».
    Gerard, seppur a malincuore, si impose di ignorarla, quindi si mise il casco in testa e salì sulla moto che si accese con un ruggito. «Ci vediamo», terminò sventolando una mano, la voce attutita dal pesante copricapo. Infine, sotto lo sguardo esterrefatto della ragazza, accelerò sulla strada e sparì nella notte al seguito degli altri motociclisti.
    Se solo Erza avesse potuto guardare al di sotto del casco di Gerard, si sarebbe accorta che i suoi occhi non esprimevano la sicurezza che ostentava a parole e che erano invece intrisi di profonda malinconia – per se stesso che non riusciva a trovare altro conforto se non in una banda di teppisti che lo stavano rendendo a sua volta un teppista, per Erza e per il modo in cui era stato costretto a trattarla per evitare che si immischiasse nei suoi guai.


    E alla fine quel tatuaggio Gerard se l’era fatto davvero, così come aveva fatto tante altre cose di cui poi si era pentito negli anni successivi. In realtà, attraverso un trattamento particolarmente lungo e doloroso, avrebbe potuto togliersi quel marchio dal viso, ma aveva scelto spontaneamente di tenerselo per ricordare chi era stato per un breve periodo di tempo, chi non voleva essere e chi non voleva che il suo futuro figlio diventasse.
    Fortunatamente, dopo numerose strade sbagliate, a distanza di sette anni Gerard poteva dire di aver finalmente imboccato la strada giusta: svolgeva un lavoro che gli era sempre piaciuto e che gli fruttava un bel gruzzoletto di soldi; aveva una ragazza che amava e che lo amava con la quale condivideva una bella casetta in città e qualche sogno nel cassetto; di tanto in tanto andava a far visita a sua madre finalmente libera dalle grinfie dell’ex marito che Gerard stesso era riuscito, non senza difficoltà, ad allontanare per sempre riportando la serenità nelle loro vite.
    Gerard avvertì il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni. Lo tirò fuori e lesse sullo schermo il nome di Erza.
    “Qui rimpiango la tua cucina ma me la cavo, non preoccuparti per me”.
    Digitò la risposta, gettò la sigaretta ormai spenta nella pattumiera e infine si mise a bordo della moto con un sorriso nascosto sotto il casco. Ogni giorno non poteva fare a meno di sentirsi un po’ più felice del precedente perché, nonostante fosse passata appena una settimana da quando Erza era partita, più il tempo passava più il suo ritorno si faceva vicino.

    ***



    Base militare di Shama, Libano ► Missione UNIFIL

    Erza era uscita dalla tenda, si era sistemata per terra con la schiena poggiata al borsone e aveva tirato fuori dal rotolo che stringeva nelle mani un panino un po’ bruciacchiato. Ne aveva addentato un pezzo masticandolo svogliatamente e con poco gusto; niente da fare, lì in Libano la cucina di Gerard era solo un lontano miraggio. Con le mani sporche di briciole aveva cercato il cellulare per scrivergli qualche parola e la risposta di Gerard era stata altrettanto fulminea.
    “Infatti non mi preoccupo. Dietro un grande soldato c’è sempre una grande donna e tu, Erza, sei il soldato e pure la donna”.
    Leggendo quella frase così piena di significato, Erza non potè fare a meno di piegare le labbra in un sorriso divertito e stringersi il cellulare al petto come avrebbe fatto con Gerard se si fosse trovato lì accanto a lei. Quant’erano vere quelle parole! Le si addicevano perfettamente: su dieci soldati che trovavano conforto nelle proprie donne, lei era l’unica che impersonava entrambi i ruoli. Eppure Erza era certa che, senza il continuo sostegno e l’incondizionato amore dell’uomo che la aspettava a casa, non sarebbe arrivata dove si trovava in quel momento. Certo, ogni tanto Gerard si lamentava delle sue continue assenze o tirava fuori la spinosa questione dei figli facendola andare su tutte le furie, eppure al minimo ostacolo, al minimo cedimento, lui era pronto a sorreggerla, a trasmetterle volontà e coraggio a sufficienza per risollevarsi più forte di prima. Anche in quel momento, anche con una semplice frase, Gerard le era stato vicino: aveva captato la malinconia nascosta tra le righe del suo precedente messaggio (“me la cavo” anziché “sto bene”) e aveva trovato le parole giuste per farle tornare il sorriso in quella lunga notte di guardia sul suolo libico.
    Sovrastata da quell’immensità di blu che gli abitanti del luogo chiamavano in arabo سماء (samā*), Erza giunse alla conclusione che, nonostante i chilometri e i mesi di lontananza, lei e Gerard rimanevano comunque sotto lo stesso cielo. Magari lo guardavano da due angolazioni del mondo completamente opposte, magari lo guardavano in momenti diversi facendo cose diverse – l’uno mentre fumava la solita sigaretta di fronte al Crime Sorciere, l’altra mentre mangiava un panino di discutibile commestibilità in mezzo ad un accampamento militare – ma si trattava comunque dello stesso identico, immenso, bellissimo cielo. E quella semplice consapevolezza bastava a mantenerla viva.
    E sperava anche sveglia, se no chi l’avrebbe sentito poi il generale Dreyar?







    *samā: cielo in arabo.


    Note dell'autrice:
    Ho un debole per i flashback, sì, e spero che vi piacciano entrambi. Qui scopriamo che sotto sotto Natsu è attratto fisicamente da Lucy, la prossima tappa sarà rendersi conto di amarla e di volere davvero qualcosa di più dell'amicizia; al suo ritorno a casa, infatti, sarà più difficile del previsto comportarsi in modo naturale con lei ;) Per quanto riguarda la parte Gerza, ho voluto descrivere un momento significativo nell'adolescenza di Gerard (il tatuaggio) e ho voluto porre l'attenzione sul doppio ruolo di Erza, come donna e come soldato (con riferimento al titolo della storia). Spero via piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate <3 a presto!
    SPOILER cap. 9 Chiamate inaspettate: chi chiamerà chi? Indovinate! :D

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 17:05
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.




    Riassunto dei capitoli precedenti
    Natsu, Gray e Sting partono per il VFP1: Natsu e Sting sognano da sempre di intraprendere la carriera miliare, Gray desidera solo rendere orgoglioso suo padre (un ex militare, ora sulla sedia a rotelle).
    Natsu e Lucy (la quale studia medicina) sono migliori amici da sempre, anche se qualcosa sta cambiando per entrambi. In particolare, il ricordo di una forte sbronza è riemerso scombussolando il cuore di Natsu...
    Juvia è da sempre innamorata di Gray. Gli si è dichiarata, ma è stata rifiutata poco prima del VFP1. Tuttavia, Juvia non si perde d’animo e, mentre Gray non c’è, va a trovare suo padre.
    Sting e Yukino (che studia per diventare insegnante) si sono fidanzati poco prima del VFP1. La sorella di Yukino, Sorano, è stata da poco licenziata e la situazione economica non è delle migliori. Yukino chiederà aiuto a Minerva e Rogue per un lavoretto part-time.
    Gajeel, Luxus ed Erza sono partiti per una missione in Libano.
    Levy (bibliotecaria) si è offerta di occuparsi del gatto di Gajeel, il suo vicino di appartamento, in sua assenza. Mentre cerca di fare amicizia con Panther Lily, Levy capisce di essere interessata a Gajeel, anche se non sembra proprio il suo tipo.
    Luxus e Mirajane (che gestisce il bar dei genitori defunti) sono sposati e hanno una figlia, Maiya. Prima della partenza di Luxus, Mirajane avrebbe dovuto mettergli qualcosa di importante in valigia ma non ricorda cosa e questo pensiero la logora dentro.
    Erza e Gerard (che gestisce una pasticceria) convivono dopo aver combattuto con il passato burrascoso di Gerard. Quest’ultimo vorrebbe un figlio, ma Erza non se la sente di abbandonare la carriera per la famiglia.



    #09. Chiamate inaspettate




    Come ogni giorno da almeno una decina di giorni, Levy varcò la soglia dell’appartamento di Gajeel, richiamò Panther Lily acciambellato in qualche angolo nascosto della casa e gli riempì la ciotola di cibo. Attirato dall’invitante odore del pranzo, il gatto non ci mise molto ad arrivare e si avventò sulla ciotola svuotandola in pochi minuti. In seguito si strusciò contro la gamba della sua temporanea padroncina in segno di ringraziamento e Levy ricambiò con una carezza sul liscio pelo nero che ebbe il potere di fargli fare le fusa. Sorrise, in fondo quel gatto non era poi così temibile come il suo padrone cercava di farle credere. E questo, Levy ne era abbastanza certa, valeva per lo stesso Gajeel: si spacciava per un omaccione freddo e solitario, ma se teneva tanto a quel gatto di cui lei si stava prendendo cura, allora un punto debole ce l’aveva pure lui.
    Dopo aver sfamato Lily, Levy si apprestò a ripulire la lettiera, quando un suono improvviso la bloccò sul posto.
    DRIIIN.
    Qualcuno aveva appena suonato il campanello. Levy fissò la porta con gli occhi sgranati per lo stupore. Chi mai poteva essere?
    DRIIIN – DRIIIN – DRIIIN.
    Il suono si era fatto più insistente, quindi chi stava suonando necessitava di entrare con una certa urgenza. Levy si ricordò improvvisamente del reggiseno rosso che aveva trovato tra gli indumenti sparsi sul pavimento il primo giorno in cui era entrata nell’appartamento di Gajeel. La persona che attendeva dietro la porta era forse la sua... amante? Era forse venuta a fargli visita?
    «Gajeel, razza d’idiota!». Una voce femminile rimbombò dal corridoio cogliendo Levy di sorpresa. «Sei lì dentro sì o no?!».
    In un primo momento Levy si chiese se per caso Gajeel non se la facesse con le milf perché, a giudicare dalla voce, quella dietro la porta doveva essere una signora un po’ più avanti con l’età. In qualunque caso, giovane o vecchia che fosse, col cavolo che Levy le avrebbe aperto!
    «Gajeel non è in casa!», esclamò per farsi sentire. «Chi è lei?».
    «Chi diavolo sei tu!», rispose la signora con voce visibilmente stizzita.
    “Bella domanda”, pensò Levy. Chi era lei per Gajeel Redfox? Solo una conoscente, solo la sua vicina di appartamento, eppure la prima cosa che le venne in mente da rispondere fu «Sono un’amica di Gajeel!».
    «Be’, io sono sua nonna». La signora sembrava essersi calmata. «Potresti gentilmente venirmi ad aprire?».
    Levy strabuzzò nuovamente gli occhi. Ma certo, la nonna di Gajeel! Come aveva fatto a non pensarci?! Svelta fece pochi passi in direzione della porta e, quando la aprì, ciò che vide la lasciò a bocca aperta. Gajeel le aveva parlato così male di sua nonna che Levy si era immaginata una vecchietta bassa e grassa con tanto di pelle rugosa e bitorzoluta e una lunga vestaglia rattoppata, invece quella che aveva di fronte era una bella signora sulla sessantina, con gli occhi neri come la pece contornati di ombretto e i capelli grigio scuro acconciati in una morbida crocchia sulla testa. Era piuttosto alta, un po’ in carne e indossava un elegante vestito platinato pieno di paillettes e un paio di decolleté nere abbinate alla borsa dello stesso colore.
    «Metallicana Redfox», disse la donna porgendo la mano a Levy. «Cioè, Redfox è il cognome di mio marito, ma preferisco presentarmi così. Fa più figo, no?».
    «Levy McGarden». Levy le strinse la mano, completamente rapita da quegli occhi così profondi e da quel modo di fare così giovanile e sbarazzino.
    «Allora», proruppe nuovamente la signora dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio, «hai intenzione di lasciarmi qui fuori ancora per molto?».
    «Ehm, mi scusi». Levy si mise da parte e la lasciò passare.
    Metallicana entrò nell’appartamento di Gajeel come se fosse il suo e si guardò intorno circospetta, un sopracciglio inarcato e le mani poggiate sui fianchi torniti. «Lily?».
    Il gatto fece capolino dalla stanza muovendo la lunga coda sinuosa, ma quando captò l’immagine di chi era venuto a trovarlo saltò letteralmente in aria con il pelo irto, i canini ben in vista e gli artigli sfoderati come se avesse appena visto un fantasma. Levy ridacchiò: evidentemente il ricordo di quel tutù rosa era ancora ben impresso nella mente del gatto.
    Al contrario, Metallicana si sciolse come neve al sole. «Lily, amore!», disse melliflua andandogli incontro, ma Lily non ci pensò due volte a saltare sul divano, arrampicarsi agilmente su una mensola e infine atterrare con un balzo sulla cima della credenza dove la sua accanita fan non avrebbe mai potuto raggiungerlo. Metallicana sbuffò, poi abbandonò l’impresa e si rivolse nuovamente a Levy.
    «Dov’è Gajeel?».
    «In Libano», rispose Levy un po’ perplessa. «Non gliel’aveva detto?».
    «Quel grandissimo figlio di−», borbottò Metallicana a denti stretti. Evidentemente no, non gliel’aveva detto. «Ecco perché non risponde a nessuna delle mie chiamate! Sono dieci giorni che cerco di contattarlo!». La donna, a dir poco furiosa, si portò due dita alla fronte per cercare di calmarsi, poi sembrò improvvisamente ricordarsi di qualcosa e sollevò la testa. Levy si vide il suo sguardo antracite puntato contro in maniera tutt’altro che rassicurante. «Se Gajeel non è venuto a portarmi Lily e tu sei qui da sola con lui...», assottigliò gli occhi fino a ridurli a due fessure che la guardavano con aria indagatrice, accusatoria, «allora significa che te ne stai occupando tu al posto mio!».
    Levy mise le mani avanti intimorita. «S-signora, le posso spiegare!».
    «Oh, non c’è nulla da spiegare. Ho capito, sai?», rispose Metallicana piegando le labbra in un sorrisetto sghembo, tremendamente simile a quello di Gajeel. «Tu sei la ragazza di mio nipote».
    «EH?!». Levy arrossì fino alle punte dei capelli. «No, io sono solo−».
    «Finalmente!», proseguì la donna ignorandola. «Era ora che Gajeel decidesse di accasarsi...».
    «Signora!», ritentò Levy con i pugni stretti lungo i fianchi. «Io e Gajeel non siamo fidanzati!».
    «Come no?». Metallicana piegò le labbra in una smorfia. «Niente sbaciucchiamenti in pubblico, niente cenette romantiche?».
    Levy, più rossa di prima, scosse vivacemente la testa. «Niente di niente».
    «Ho capito», concluse la donna. «Voi due vi limitate a scop−».
    «SIGNORA!». Levy non sapeva più come fermare quel fiume in piena che straripava dalla bocca di Metallicana. «Io e Gajeel siamo solo amici. A-M-I-C-I. Le è chiaro?».
    «Va bene, va bene». La donna sembrava essersi finalmente convinta. «Lo trovo strano, tutto qui. Mio nipote non ha mai avuto... un’amica, per quel che ne so, e soprattutto non ha mai affidato Lily a qualcun altro che non fossi io».
    Levy si sentì sorprendentemente lusingata da quelle parole.
    «Peccato», concluse la donna con aria delusa. «Sembri una così brava ragazza! Di sicuro Gajeel potrebbe mettere la testa a posto con una come te...».
    Levy avvertì un fastidioso tic all’occhio. «Le va una tazza di caffè?», propose per cambiare argomento.
    Metallicana sorrise, due piccole rughe emersero ai lati della bocca. «Oh sì, ti ringrazio».
    Per il resto di quella inaspettata visita, le due si limitarono a parlare del più e del meno e Levy constatò che la nonna di Gajeel non era affatto male. Certo, ogni tanto parlava più del dovuto e forse avrebbe dovuto smetterla di trattare Lily come la figlia o la nipotina che non aveva mai avuto ma che aveva sempre ardentemente desiderato, tuttavia nel complesso Metallicana le piaceva e Levy era certa che sarebbero potute diventare ottime amiche.
    Alla fine di quello strambo incontro, la donna tirò fuori dalla borsa carta e penna e scrisse un numero telefonico. «Questo è il mio numero. Se Gajeel si degna di rispondere almeno alle tue chiamate, mi faresti sapere come se la passa?». Porse il biglietto a Levy. «Sai, comincio ad essere un po’ preoccupata...».
    «In realtà io non ho il numero di Gajeel», rispose Levy non senza imbarazzo. «Io e lui non ci sentiamo da quando è partito».
    «Ma hai detto che siete amici!», ribatté Metallicana sorpresa.
    «Be’, ecco, non così amici».
    La donna annuì, si riprese il biglietto e scrisse un secondo numero telefonico. «Questo è il numero di Gajeel. Chiamalo, chiedigli come vanno le cose e poi richiamami. Per favore».
    Levy strinse il biglietto tra le dita e sorrise imbarazzata. «Va bene».
    Si salutarono sulla soglia della porta, Metallicana sparì giù per le scale e Levy tornò nell’appartamento di Gajeel dove Lily, visibilmente sollevato dall’assenza del suo peggior incubo, era sceso dalla credenza e tornato a zampettare felicemente sul pavimento. Levy guardò un’ultima volta il biglietto con il numero di Gajeel: da una parte si sentiva a disagio all’idea di doverlo chiamare nel bel mezzo della missione – non era stato mica lui a darle il suo numero! – ma dall’altra parte era curiosa di sapere come se la stesse cavando laggiù in Libano. Chissà, magari la visita di Metallicana non era stata del tutto casuale...


    ***



    Base militare di Shama, Libano ► Missione UNIFIL

    Gajeel, le mani strette intorno all’asta del metal detector, si muoveva avanti e indietro con circospezione sondando attentamente il terreno calpestato dai suoi scarponi sporchi di terra. Lo sminamento dei campi minati era uno dei suoi lavori preferiti e anche uno di quelli in cui riusciva meglio e per i quali era maggiormente stimato. Di fatti Gajeel poteva vantarsi di essere uno dei pochi militari ad avere il coraggio di mettersi alla ricerca di una manciata di metallo che avrebbe potuto farlo saltare in aria o mantenerlo in vita a seconda del caso: gli piaceva l’attesa lenta, silenziosa, piena d’aspettativa, che precedeva il segnale positivo; il pensiero di morire non lo spaventava, lo eccitava.
    Brrr – brrr – brrr.
    Poco ci mancò che si mettesse a urlare. Quella era di sicuro la cinquantesima chiamata di sua nonna nel giro di dieci giorni. Se le avesse risposto, le avrebbe dovuto dire che si trovava in missione in Libano per sei mesi e così Metallicana sarebbe andata su tutte le furie scoprendo che aveva trovato un’altra persona a cui affidare il suo adorato Lily. E di litigare Gajeel non aveva proprio voglia. Decise quindi di ignorare l’ennesima chiamata e di continuare il suo lavoro.
    Brrr – brrr – brrr.
    Le dita di Gajeel strinsero l’asta del metal detector talmente forte che avrebbero potuto spezzarla. «Maledetta vecchiaccia», sibilò a denti stretti mentre tirava fuori dallo zaino il cellulare per spegnerlo definitivamente. Guardando lo schermo, però, si rese conto che la chiamata non arrivava da sua nonna ma da un numero sconosciuto. Il primo pensiero fu che Metallicana lo stesse chiamando con un altro cellulare pur di fregarlo e convincerlo a parlare; d’altra parte, però, Gajeel si chiese se per caso non fosse un suo collega di lavoro di cui non aveva il numero e in tal caso avrebbe fatto meglio a rispondergli. Confidando nella seconda opzione, accettò la chiamata.
    «Pronto?».
    «G-Gajeel?».
    Il militare non poteva credere alle sue orecchie. Quella delicata voce femminile gli era tremendamente familiare, ma non poteva essere davvero lei. Perché mai avrebbe dovuto chiamarlo? E in che modo, poi, visto che non si erano scambiati i numeri di telefono?
    «Sì?», rispose incerto.
    «Sono Levy».
    Gajeel sgranò gli occhi. «Gamberetto!». Allora non si era sbagliato, era proprio lei! Chissà come aveva fatto a recuperare il suo numero...
    «Ehm, ti disturbo?».
    «Mmmh, non proprio». Se le avesse detto che sì, lo stava disturbando, di sicuro Levy avrebbe insistito per richiamarlo più tardi, ma Gajeel voleva assolutamente sentire cosa avesse di tanto importante da dirgli. E voleva sentirlo subito. Era semplicemente troppo curioso.
    «Bene», rispose Levy sollevata. «È stata tua nonna a darmi il tuo numero, spero non ti dispiaccia».
    «Mia nonna?!», chiese Gajeel esasperato. Perché c’entrava sua nonna in ogni singola faccenda della sua vita? Lo perseguitava anche in capo al mondo! Eppure, stavolta, Gajeel non poteva che esserle grato: in quegli ultimi giorni si era proprio chiesto come se la stessero passando Lily e la sua temporanea babysitter a casa da soli, ma purtroppo aveva dimenticato di chiedere il numero a Levy per tenersi aggiornati. Fortunatamente ci aveva pensato Metallicana; qualcosa di buono, ogni tanto, la faceva anche lei.
    «Sì, tua nonna è venuta a trovarmi nel tuo appartamento ed era molto arrabbiata», gli spiegò Levy con tono dispiaciuto. «Perché non rispondi alle sue chiamate, Gajeel? È solo preoccupata per te».
    «Preoccupata un corno! Non ho bisogno della balia!», ribatté Gajeel furioso. «Se mi hai chiamato solo per questo, possiamo anche chiuderla qui». Non poteva negarlo, ci era rimasto piuttosto male. Credeva che Levy lo avesse chiamato per un saluto, perché aveva voglia di sentirlo, non per fargli una ramanzina.
    «N-no, aspetta!», sentì dall’altro capo del telefono. «Volevo... volevo anche sapere come stai».
    Gajeel sospirò mascherando una punta di gioia. «Non c’è male», borbottò più calmo. «Tu?».
    «Alla grande!». La voce di Levy risuonò parecchio allegra. «Sappi che io e Lily siamo diventati ottimi amici».
    «Davvero?», chiese Gajeel sorpreso. «Non ti ha graffiato nemmeno una volta?».
    «Nemmeno una», ripetè Levy orgogliosa. «Su su, non essere geloso».
    «Non sono geloso!».
    «No, no, non lo sei...», lo punzecchiò Levy divertita.
    Una voce che non era quella di Levy tuonò alle spalle di Gajeel richiamando la sua attenzione.
    «Redfox, vogliamo tornare a lavoro sì o no?».
    «Devo andare, Levy», concluse Gajeel atono.
    «Mi ha fatto piacere risentirti», rispose lei sorridendo. «A presto, Gajeel».
    La chiamata si chiuse. Gajeel armeggiò un’ultima volta con i tasti del cellulare, poi lo rimise nello zaino e riprese il suo lavoro. La rubrica della sua scheda telefonica aveva un contatto in più, ora: Gamberetto.


    ***




    Mirajane osservava incantata la piccola Lisanna che dormiva beatamente nella sua culla di legno succhiandosi un pollice. Le guanciotte piene, la boccuccia rosa, la pelle talmente candida e delicata da sembrare porcellana... tutto di lei trasmetteva un’immensa tenerezza e Mirajane si chiedeva come fosse possibile non adorarla. Allungò una mano e le sfiorò delicatamente il ciuffetto di sottili capelli bianchi come la neve, bianchi come i suoi e come quelli del fratellino Elfman e come quelli del loro papà. Una caratteristica inconfondibile della famiglia Strauss.
    «Mira-chan, vieni qui un attimo».
    Ubbidiente, Mirajane si allontanò dalla culla e raggiunse sua madre seduta al tavolo della cucina. «Ho un regalo per te», le spiegò la donna con un sorriso enigmatico porgendole una piccola scatola. Mirajane la aprì e ne tirò fuori una bellissima collanina con un medaglione ovale che emanava luccichii argentei. Sorpresa e affascinata, guardò sua madre alla ricerca di una spiegazione che non tardò ad arrivare: «Apri il medaglione».
    Mirajane lo fece: all’interno del grosso pendente c’era una minuscola foto della loro famiglia, quella che si erano fatti insieme qualche giorno dopo la nascita di Lisanna. In primo piano Mirajane ed Elfman erano stati immortalati nell’atto di litigare per stabilire chi dovesse mettersi dove − una mano del bambino tirava un ciocca bianca di Mirajane, la quale gli stava invece pestando un piede con il proprio − mentre in secondo piano la signora Strauss, abbracciata al marito (un uomo imponente e dalla pelle abbronzata), reggeva la neonata scalpitante tra le braccia.
    «Buon compleanno, Mira-chan».
    Quando Mirajane incrociò gli occhi azzurri di sua madre − così simili ai suoi e a quelli di Lisanna − tutto divenne più chiaro. Svelta cercò con lo sguardo il calendario appeso alla parete: la data di quel giorno era cerchiata in rosso e recava la scritta “COMPLEANNO DI MIRAJANE” segnata lì da Elfman per evitare che la festeggiata se ne dimenticasse. Tentativo ovviamente fallito: la sua scarsa memoria aveva colpito ancora, solo lei era in grado di dimenticarsi il suo stesso compleanno!
    Felicissima di avere qualcuno che se ne ricordasse al posto suo, Mirajane strinse la vita di sua madre in un caldo abbraccio subito ricambiato. «Grazie mammina, mi piace un sacco!».
    «E non è tutto», aggiunse la donna quando si staccarono. «Si apre anche dall’altra parte».
    Curiosa per quell’ulteriore dettaglio, Mirajane rigirò la collana tra le dita e aprì la parte posteriore del medaglione. Credeva di trovarci un’altra foto ed invece non trovò nulla. Era vuoto.
    A quella vista la bambina rimase un po’ perplessa, ma le parole di sua madre corsero nuovamente in suo aiuto. «Un giorno ci sarà una foto anche qui e sarai tu stessa a mettercela. Sarà una foto della tua seconda famiglia».
    Mirajane continuava a non capire. Sua madre sorrise materna: «Non lo vuoi un fidanzato, Mira-chan?».
    Mirajane colse al volo il concetto: fidanzato = matrimonio = figli = seconda famiglia. Arrossì teneramente sulle guance. Chissà, un giorno lontano forse...
    «Magari un bel principe, biondo e con gli occhi azzurri!», continuò sua madre con aria sognante, salvo poi ricomporsi tutta d’un tratto e gettare occhiate furtive in direzione della camera da letto dove il signor Strauss ronfava come un ghiro. «Questo, però, non diciamolo a papà, va bene? Sai, potrebbe essere geloso...».
    Mirajane annuì con un sorriso imbarazzato ma felice e si strinse il medaglione al petto, certa che non se ne sarebbe mai più separata.


    Profondamente addormentata, Mirajane si rigirò tra le lenzuola e di colpo lo scenario nella sua mente cambiò.

    Lisanna piangeva disperata con le ginocchia strette al petto e la schiena premuta contro il muro. A nulla servivano i tentativi di Elfman di consolarla dicendole che «i veri uomini non piangono mai», sia perché lei era di fatti una donna sia perché lui stesso, pur spacciandosi per un vero uomo, reprimeva a stento i singhiozzi.
    Mirajane stringeva tra le mani tremanti il medaglione aperto e fissava ossessivamente i minuscoli volti dei due genitori: quello della donna era roseo e delicato come i volti delle due figlie, quello dell’uomo squadrato e abbronzato come il volto del figlio. Sorridevano così felici, così vivi, che Mirajane stentava a credere che non li avrebbe più rivisti girare per casa. Mai come allora la parte posteriore del medaglione, quella vuota che andava ancora riempita, le appariva totalmente inutile. Lei non lo voleva un fidanzato, non la voleva una seconda famiglia. La sua prima famiglia – o almeno, quel che ne restava – era più che sufficiente e Mirajane si ripromise che se ne sarebbe presa cura con tutta se stessa.
    Richiuse il medaglione con uno scatto metallico, si inginocchiò di fronte ai due fratellini e li abbracciò entrambi frapponendo la testa tra loro, forse per rassicurarli, forse per evitare che si accorgessero delle lacrime impigliate anche tra le sue ciglia.
    «Elfman, Lisanna».
    I bambini smisero improvvisamente di piangere e rimasero in ascolto.
    «Da oggi in poi ce la vedremo da soli», annunciò con tono estremamente serio. «Io avrò il ruolo della mamma, mi prenderò cura di voi e della casa. Se ce la farò, riprenderò in mano anche il bar». Fece una pausa, poi continuò più dolcemente. «Tu, Elfman, avrai il ruolo del papà. Dovrai essere forte per tutti noi e dovrai proteggerci da ogni pericolo».
    «M-mi comporterò come un vero uomo!», rispose il bambino fingendo una sicurezza che forse non aveva.
    «Ed io, Mira-nee? Cosa farò io?», chiese Lisanna.
    Mirajane le accarezzò il caschetto bianco. «Tu, Lisanna, avrai il compito più difficile di tutti, quello della figlia. Dovrai sorvegliare che io ed Elfman facciamo bene la nostra parte».
    «Va bene», acconsentì la bambina, «te lo prometto».
    Mirajane intensificò la stretta delle braccia intorno alle spalle dei due bambini, strizzando al contempo gli occhi per cacciare indietro le lacrime. «Ci comporteremo come una vera famiglia, avete capito?».
    Un doppio «Sì!» rincuorò la sorella maggiore. Quando i tre fratelli si separarono l’uno dall’altro, avevano tutti gli occhi asciutti e sui loro volti splendeva il primo vero sorriso da giorni.
    Mirajane indossò la collana. Al contatto con la pelle calda al di sopra del cuore, il medaglione freddo come il marmo le vibrò sul petto, ma forse questo Mirajane se l’era solo immaginato.


    «IL MEDAGLIONE!»
    Mirajane si svegliò di soprassalto, sudata e ansimante. Ecco cos’aveva dimenticato di mettere nella valigia di Luxus!
    Si portò una mano al petto, sollevò con due dita il medaglione e aprì la parte posteriore rimasta vuota solo per pochi anni: ora c’era una foto di lei e Luxus che stringevano Maiya tra le loro braccia. Alla fine il fidanzato era arrivato e con lui anche la seconda famiglia di cui le aveva parlato sua madre. Certo, Luxus non era un principe ma aveva comunque capelli biondi, occhi azzurri e un animo nobile, anche se il suo cavallo bianco era in realtà… un carro armato.
    Mirajane richiuse il medaglione e si coprì il viso con entrambe le mani sentendosi irrimediabilmente colpevole. Dannata memoria! Come aveva fatto a dimenticarsene con tanta leggerezza? Ogni volta che Luxus partiva in missione, Mirajane gli lasciava la sua collana affinché lo proteggesse e gli facesse da portafortuna. Di giorno la collana restava nella valigia al riparo dai pericoli della guerra, ma di notte Luxus la indossava e dormiva con il medaglione poggiato sul cuore che avrebbe poi restituito a sua moglie una volta tornato a casa. Era un gesto simbolico che li teneva legati, un modo per assicurarsi l’un l’altro che si sarebbero rivisti ancora e ancora.
    Ma stavolta Luxus non aveva con sé la collana, di conseguenza la certezza di rivedersi era ben più debole. Svelta, Mirajane afferrò il cellulare e cercò il numero del marito. Attese qualche secondo con il cuore in gola.
    «Biiip – biiip – biiip».
    Mirajane strinse le dita sui bordi del cellulare, avrebbe potuto sgretolarlo tant’era agitata.
    «Ti prego, Luxus, rispondi».
    «...Mirajane?».
    La donna sobbalzò sul materasso sentendo finalmente la voce del marito. Era vivo, stava bene.
    «Il medaglione!», urlò senza perdere tempo. «Non te l’ho dato, mi dispiace così tanto...».
    Ci furono pochi attimi di silenzio in cui Mirajane si chiese se per caso non fosse caduta la linea.
    «Ecco cos’avevi dimenticato», rispose infine il militare. «Dai, non è una tragedia. Me lo darai appena tornerò in licenza».
    «Non potrei inviartelo per posta?», chiese Mirajane, tutt’altro che rassicurata dalle parole del marito.
    «Non sono così sicuro che arriverebbe. E poi potrebbe rompersi durante il viaggio... meglio di no».
    Mirajane sospirò capendo di non poter fare nulla per rimediare al suo errore.
    «E va bene, ma fa’ attenzione. Fallo per Maiya».
    «Certo», promise Luxus dall’altra parte del globo. «Sta’ tranquilla».
    Qualche minuto più tardi, quando la conversazione telefonica terminò, Mirajane ricadde sul materasso e cercò di convincersi che sarebbe andato tutto bene, ma la strana sensazione alla bocca dello stomaco che sembrava preannunciare qualcosa di negativo non voleva proprio saperne di lasciarla in pace.









    Note dell'autrice:
    Considerando che l'ultimo aggiornamento risale a ottobre 2018, direi che sono LEGGERMENTE in ritardo e di questo mi dispiace. Purtroppo ho avuto vari impegni (prima la laurea e poi un lavoretto estivo) che mi hanno portato via un intero anno, oltre che l'ispirazione. Al momento sono un po' più libera e quindi ho deciso di riprendere in mano i capitoli che avevo già parzialmente scritto, ma non garantisco di aggiornare presto questa storia... diciamo che mi sono un po' allontanata dal mondo dei manga, però mi dispiacerebbe interrompere definitivamente questa storia visto il successo che ha avuto l'anno scorso.
    Se c'è ancora qualcuno interessato a sapere come finiranno le storie di questi personaggi, fatemelo sapere in una recensione. Critiche e consigli sono sempre ben accetti. GRAZIE!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 22/9/2019, 17:20
     
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    In quanto lettrice, ma anche scrittrice che aggiorna ogni morte di papa e conosce lo struggimento che si prova a vedere la data dell'ultimo aggiornamento allontanarsi sempre di più, mi sento in dovere di farti sapere che sto seguendo con molto interesse questa storia! :mira:
    La coppia che mi intriga di più (sia in generale, che in questa storia) è la Gajeel/Levy, quindi ho apprezzato particolarmente questo capitolo. E ancora mi vengono i brividi al pensiero di come sarebbe diventato l'appartamento di Gajeel se Levy non fosse entrata a pulire :paura: Panther Lily avrebbe avuto da mangiare, sì... Perché si sarebbe stabilita una comunità di topi!
    E poi, finalmente si è scoperto cosa ha dimenticato Mira: molto bello il simbolismo legato dietro al medaglione! Normalmente sarei d'accordo con Laxus, non è una tragedia, ma ho un pessimo presentimento... Speriamo bene!
    Sono davvero curiosa di sapere come sta andando agli altri militari, e intanto ti faccio i complimenti per lo stile di scrittura, molto chiaro e scorrevole, che mi ha fatto divorare anche questo capitolo in pochi minuti :chopper:
     
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    Grazie di cuore Kalika, sono felicissima che la storia ti piaccia! :perona: Spero di riuscire a pubblicare presto il prossimo capitolo
     
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    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

    Sei modi diversi di affrontare la guerra. O meglio, dodici modi diversi.
    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #10. Primo ritorno a casa (parte 1)




    Centro Addestramento Volontari ► VFP1


    Steso sul letto con le braccia dietro la testa, Gray fissava in silenzio le immagini chiare e nitide che si susseguivano l’una dopo l’altra nella sua testa riflettendosi sul soffitto grigiastro di quella che era da circa due settimane la sua camera da letto. Era iniziato tutto già dal primo giorno, quando il Caporal Maggiore Gildarts Clive aveva distrutto il suo cubo senza una reale motivazione, e da quel momento sembrava avercela a morte con lui. Lo rimproverava di continuo, gli urlava nell’orecchio che il suo operato non era sufficiente e che non lo avrebbe portato da nessuna parte, che il suo modo di marciare era “da signorine”, che le armi non facevano per lui, che avrebbe fatto meglio a ritirarsi. Gray aveva cercato di reprimere la rabbia e di non scoraggiarsi, ma dopo una settimana di sopportazione alla fine era esploso con un sonoro «BASTA!» che non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Di fatti, Clive lo aveva punito per la sua arroganza costringendolo a fare la guardia nel cortile del centro d’addestramento per cinque notti di seguito, il che aveva significato allenarsi altrettanti giorni privo di sonno e di forze.
    «Gray!», lo chiamò Natsu risvegliandolo dai suoi stessi pensieri. «Datti una mossa o perderemo il pullman per colpa tua!». In effetti, i due sembravano essersi scambiati i ruoli: Natsu era stranamente puntuale e Gray stranamente in ritardo.
    «Io non vengo», confessò il giovane Fullbuster atono, senza staccare lo sguardo dal soffitto.
    «Cosa?! Come sarebbe?». Natsu era visibilmente sconcertato dalla sua decisione. «Manchiamo da casa da due settimane! Non hai voglia di rivedere tuo padre, Lyon e… Juvia?».
    Per un attimo Gray immaginò la delusione di Juvia nello scoprire che non sarebbe tornato a casa per quel weekend ma poi scosse la testa come per scacciare quel pensiero. Aveva già preso la sua decisione e niente avrebbe potuto fargli cambiare idea. D’altronde, se fosse tornato a casa, cosa diamine avrebbe dovuto raccontare ai suoi cari? Che aveva trascorso due settimane d’inferno per colpa del Maggiore che non faceva altro che umiliarlo di fronte ai suoi pari? Silver sarebbe certamente morto di crepacuore. E di mentire dicendo che andava tutto alla grande, proprio non se ne parlava. Gray odiava le bugie, sia dirle che riceverle, ma ancora di più odiava le ingiustizie. Più di doversi svegliare ogni mattina all’alba, più di doversi radere quotidianamente barba e basette per essere un soldato dall’aspetto impeccabile, più di dover andare a letto presto, dormire e ricominciare una giornata che sarebbe stata uguale alla precedente. Odiava le ingiustizie e quelle che gli stava infliggendo Clive non potevano avere altro nome: per due settimane, Gray aveva messo in pratica tutto ciò che gli aveva insegnato suo padre nel corso degli anni ed era certo di aver fatto un lavoro quantomeno discreto, ma Clive sembrava avere gli occhi bendati di fronte a lui. Gray sapeva di non essere agguerrito come Natsu che l’arte della guerra sembrava avercela nel sangue, ma sicuramente poteva considerarsi un candidato di gran lunga migliore di molti altri ragazzi del loro plotone che sembravano essere finiti lì dentro per puro caso o per raccomandazione, senza un minimo di capacità o di esperienza.
    Era per questo che a Gray mancava il coraggio di tornare a casa. Non poteva guardare negli occhi suo padre o Juvia con un peso del genere sulla coscienza. Sarebbe stato meglio restarsene lì al centro d’addestramento per altre due settimane, capire cos’era che non funzionava, cercare di mettere le cose a posto con Clive.
    «Per stavolta passo», concluse Gray senza dare spiegazioni. «Salutami tutti».
    Seppur confuso e a malincuore, Natsu annuì e prese il suo borsone per incamminarsi fuori dal centro insieme a Sting e ad altri soldati desiderosi di tornare a casa per rivedere le loro famiglie. Quando Gray si ritrovò completamente solo, prese il cellulare e scrisse un messaggio a Juvia con la quale si era sentito piuttosto regolarmente come le aveva promesso poco prima di partire. Nonostante lui avesse rifiutato la sua dichiarazione d’amore, Juvia non sembrava intenzionata ad abbandonarlo. Anzi, lo aveva perfino informato del fatto che di tanto in tanto andava a tenere compagnia a Silver – per lui, per Gray-sama. E questo a Gray non poteva che far piacere. Juvia aveva davvero un cuore d’oro… come avesse fatto a spezzarglielo, proprio non lo sapeva.
    “Ciao Juvia, tutto bene? Per questo weekend ho deciso di non tornare. Ho alcune faccende in sospeso… Mi dispiace, sarà per la prossima volta”.
    La risposta di Juvia arrivò in meno di un minuto.
    “Gray-sama, a Juvia dispiace di non poterti rivedere ma capisce perfettamente la tua decisione e aspetterà con ansia il tuo ritorno! ♥”
    Gray sospirò, in parte grato per la comprensione dell’amica e in parte frustrato per la situazione in cui era andato a cacciarsi e dalla quale sperava di uscire quanto prima.


    ***




    Quando Lucy gli aveva chiesto a che ora sarebbe tornato in modo da poterlo aspettare nel piazzale dei pullman, lì dove si erano salutati esattamente due settimane prima, Natsu le aveva risposto che sarebbe tornato verso sera. In realtà mentiva, poiché il ritorno era previsto per le 4 del pomeriggio, ma per quell’ora Natsu aveva intenzione di farle una sorpresa: voleva andare a prenderla direttamente da casa e portarla a prendere un gelato. Certamente non aveva dimenticato la conversazione con Sting e ciò che il ricordo di quella maledetta (o benedetta?) sbronza aveva provocato in lui: si era sentito disorientato ed eccitato al tempo stesso nel rendersi conto che, in quel frangente, aveva trovato Lucy così bella da fargli girare la testa (e non solo…), ma si era ripromesso che avrebbe messo da parte quei pensieri così insoliti e poco appropriati per il bene della loro amicizia. Sicuramente avrebbe fatto meglio a starle lontano, almeno finché quei ricordi così piacevoli e fastidiosi al tempo stesso non fossero andati via, ma questo era praticamente impossibile. Lucy in quelle due settimane gli era mancata così tanto che non vedeva l’ora di rivederla ed era certo che fosse lo stesso anche per lei.
    Una volta sceso dal pullman, Natsu riabbracciò suo padre e suo fratello, poi chiese di essere accompagnato direttamente a casa di Lucy.
    «Non preferiresti tornare a casa e metterti comodo?», gli fece notare Igneel alludendo alla sua divisa militare che lo faceva sembrare un uomo tutto d’un pezzo, ma Natsu rispose «Io sono già comodo». Quei vestiti sembravano fatti su misura per lui, se li sentiva aderire addosso quasi come una seconda pelle dalla quale non avrebbe più voluto separarsi. E in realtà, voleva che la sua divisa contribuisse alla sorpresa che aveva in serbo per Lucy. Voleva che lei lo guardasse nelle sue vesti preferite, che fosse orgogliosa di lui e di ciò che stava diventando. Non si trattava solo di semplice stoffa, per Natsu aveva un significato speciale.

    «Chissà che strage di cuori farai con la divisa addosso…».

    Solo due settimane prima, quelle parole, pronunciate da Lucy in maniera divertita e al tempo stesso provocatoria, gli erano completamente scivolate addosso, mentre ora lo facevano parecchio riflettere. La voleva, Natsu, quella strage di cuori? Voleva davvero ogni ragazza ai suoi piedi? O forse ne voleva solo una, una ragazza tutta per lui disposta ad aspettarlo ogni qualvolta mancasse da casa per le sue missioni? Una ragazza bella, intelligente, simpatica, ma con un caratterino capace di metterlo in riga quando necessario. Una ragazza un po’ come Lucy, forse.
    Nel frattempo, Igneel era arrivato proprio di fronte casa Heartfilia. Natsu promise al padre e al fratello di tornare presto a casa per festeggiare come si deve il proprio ritorno, poi scese dall’auto che sfrecciò via tra le strade della città.
    Tutt’altro che disposto a ritrovarsi faccia a faccia con il padrone di casa, Natsu si arrampicò sull’albero che sorgeva di fronte alla stanza di Lucy. Nascosto tra le foglie e i rami, vide la ragazza seduta alla sua scrivania con la testa tra i libri e i capelli acconciati in una morbida crocchia sulla testa da cui pendeva qualche ciocca ribelle. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e una gonna blu che la copriva morbidamente fino al ginocchio. Natsu la trovò bella, forse più bella di come l’aveva lasciata, più bella di come appariva nei suoi ricordi. Sorrise e batté una mano sul vetro per attirare la sua attenzione. Lucy sussultò e, rivolgendo la testa verso la finestra, represse a stento un urletto di felicità.
    «NATSU!», esclamò estasiata, gli occhi lucidi e un bellissimo sorriso stampato sul volto mentre andava ad aprire la finestra. Quando Natsu atterrò nella stanza, si ritrovò le braccia di Lucy intorno al collo e il suo corpo stretto al proprio, e altro non poté fare se non ricambiare dolcemente l’abbraccio. «Avevi detto che tornavi stasera», la sentì mormorare contro il suo petto.
    «Sorpresa», rispose lui allegro.
    Dopo i saluti, Lucy invitò Natsu a sedersi sul letto per raccontarle come si deve tutto ciò che aveva fatto in quelle due settimane. Natsu parlava con tanta enfasi che più volte Lucy dovette ricordargli di abbassare la voce per non farsi scoprire da suo padre, il quale non accettava di vederlo intrufolarsi nella stanza della sua adorata bambina passando attraverso la finestra.
    «Ti va un gelato?», le chiese Natsu dopo che le ebbe raccontato tutto.
    «Certo!», esclamò Lucy raggiante. «Aspettami qui, ‘che mi sistemo».
    Natsu annuì e Lucy sparì in bagno, per poi uscirne qualche minuto dopo con i capelli sciolti e ben pettinati. Natsu seguì la ragazza con lo sguardo mentre apriva le ante dell’armadio per scegliere qualcosa da indossare. Ne tirò fuori un vestitino verde e lo poggiò sul letto, poi si voltò verso l’armadio dandogli le spalle. «Ci metto un attimo», la sentì mormorare.
    Natsu annuì, credendo che Lucy sarebbe andata di nuovo in bagno per cambiarsi. Al contrario, la vide portarsi le mani ai bordi della maglia e poco ci mancò che si mettesse ad urlare – aveva davvero intenzione di spogliarsi lì davanti a lui, come se niente fosse?! – ma le parole gli morirono in gola quando Lucy, con un movimento veloce, si sfilò la maglia rivelando le spalle sottili accarezzate dai lunghi capelli biondi e la schiena snella e longilinea, un po’ abbronzata, su cui spiccavano i laccetti del reggiseno color panna. Quando Lucy diede segno di volersi togliere anche la gonna – lì il ricordo della sbronza tornò prepotente nella mente di Natsu, già confusa di per sé – il giovane scattò dal letto furibondo con i pugni stretti lungo i fianchi.
    «LUCY!».
    L’interpellata si voltò e Natsu poté godere della vista delle sue rotondità, piene e floride, fasciate dalle coppe del reggiseno. Deglutì a vuoto, spostando lo sguardo sul volto confuso di Lucy per non lasciarsi distrarre. «Ma non te ne frega proprio nulla?!».
    Lucy si lasciò sfuggire un «Eh?» colmo di perplessità per la reazione dell’amico.
    «Non mi hai nemmeno chiesto di girarmi!», proseguì Natsu incredulo. Se Lucy non aveva problemi a spogliarsi davanti a lui, probabilmente significava che non lo considerava ancora un uomo con delle voglie e degli impulsi. E si sbagliava, si sbagliava di grosso.
    «Natsu», disse Lucy con calma, stringendosi la maglia al petto come se si fosse accorta solo in quel momento di essere mezza nuda. «Non… non capisco. Mi vedi in costume da bagno quasi ogni giorno di ogni benedetta estate!».
    Natsu ebbe un attimo di smarrimento. Quel ragionamento non faceva una piega, eppure
    «Be’, così è diverso!».
    «No che non lo è!», ribatté Lucy convinta. «E poi andiamo, da piccoli ci facevamo pure il bagno insieme…».
    Quella risposta ebbe il potere di far innervosire Natsu ancora di più. Come poteva Lucy confrontare l’innocente ingenuità di due bambini che condividevano la stessa vasca, con le esperienze, le scoperte, i piaceri e i timori di due ragazzi adulti e vaccinati?
    «Il fatto è che non ci trovo nulla di imbarazzante nello spogliarmi di fronte a te», confessò Lucy apertamente. «Insomma… perché mai…».
    «Perché mai dovrebbe farmi effetto, no, Lucy?», continuò Natsu sollevando un angolo della bocca in una smorfia ironica.
    «Non era questo che volevo dire…».
    «Sì, invece». Natsu fece qualche passo avanti verso di lei, gli occhi fiammeggianti. «Credi che sia stupido, per caso?», disse furente, strappandole la maglia dalle mani e lasciandola nuovamente scoperta. «O cieco, forse?», proseguì indicando con lo sguardo il seno prosperoso di Lucy, la quale a sua volta lo fissava mortificata.
    «Natsu, ti prego», lo implorò la ragazza sollevando una mano e posandogliela sul petto coperto dalla giacca militare. «Io intendevo solo che non ci trovo nulla di imbarazzante perché...».
    «Perché per te sono come un fratello».
    «NO, MALEDIZIONE!», esplose Lucy battendo un piccolo pugno sul petto di Natsu, lì dove poco prima lo aveva accarezzato. «Lasciami parlare! Ti stai comportando come un bambino!».
    «IO NON SONO UN BAMBINO!», ribatté Natsu strizzando gli occhi per la rabbia. Circondò il polso di Lucy con le dita ma senza farle male: voleva solo che lei capisse. «Non sono un bambino perché altrimenti io non…». Si sforzò di trovare le parole giuste per esprimere ciò che sentiva, ma sapeva che in qualsiasi caso avrebbe compromesso per sempre il suo rapporto con Lucy che già cominciava a vacillare. «Altrimenti… altrimenti…».
    Altrimenti vederti mezza nuda non mi farebbe nessun effetto. Altrimenti non vorrei che tu mi guardassi con occhi diversi. Altrimenti non ti avrei urlato contro.
    «Cosa, Natsu?», lo spronò Lucy con un filo di voce guardandolo intensamente negli occhi.
    Per un attimo, assuefatto da quello sguardo così desideroso di sapere, Natsu pensò di dirle tutto – ogni pensiero e ogni emozione – ma la paura delle conseguenze era tanto forte da pietrificarlo. Se Lucy non lo guardava come lui guardava lei, dicendole la verità l’avrebbe solo intimorita e allontanata. E quella era l’ultima cosa che Natsu voleva.
    «Niente». Con un gesto secco, rimise la maglia nelle mani di Lucy e si voltò con tutta l’intenzione di dirigersi verso la finestra per uscire. Lucy lo chiamò più volte, implorandolo di restare ad ascoltarla, ma Natsu non voleva sentire ragioni.
    «E il nostro gelato?», disse infine la ragazza con voce dispiaciuta.
    Natsu socchiuse gli occhi, la rabbia ormai sbollita e sostituita da un incredibile senso di tristezza e delusione. Non tanto per Lucy ma per se stesso, per quello che provava e che non poteva – o forse non voleva – confessare ad alta voce.
    «Non mi va più, Lucy», concluse poco prima di spalancare la finestra, lanciarsi sul ramo dell’albero e correre via.


    ***




    Quando Yukino lo aveva informato che non si sarebbe fatta trovare al suo arrivo, Sting ci era rimasto piuttosto male. Non vedeva la sua ragazza (il solo pensiero di poterla finalmente chiamare così bastava a farlo sorridere) da ben due settimane, due settimane in cui Sting non aveva fatto altro che pensare ai baci che si erano scambiati la notte prima della partenza e aveva dovuto accontentarsi di sentirla ogni giorno per telefono e immaginarla lì accanto a sé. Credeva che anche lei non vedesse l’ora di riabbracciarlo una volta sceso dal pullman, ma Yukino gli aveva detto di avere un impegno importante proprio a quell’ora e che comunque si sarebbero rivisti la sera stessa. Cercando di scacciare dalla testa il pensiero che lui non le fosse mancato poi così tanto – o almeno, non quanto lei era mancata a lui – Sting scese dal pullman dove suo padre, braccia conserte e sguardo altero, lo stava aspettando pronto per riportarlo a casa.
    Il tragitto in auto gli parve infinito, complice il traffico del sabato pomeriggio e l’incapacità di Weisslogia di spiccicare più di tre parole insieme. Non era un tipo particolarmente loquace, suo padre, ma Sting si era accorto perfettamente di come le labbra gli si erano increspate in un lievissimo sorriso quando l’aveva visto scendere dal pullman.
    Caricandosi il borsone su una spalla, Sting entrò in casa seguito dal padre. Tutto ciò che voleva fare era stendersi sul suo letto – quello vero, niente a che vedere con la dura e scomoda brandina del centro d’addestramento – e riposare le membra stanche. Tuttavia, non ebbe nemmeno il tempo di poggiare il borsone per terra che il salotto si riempì di urla gioiose.
    Lector e Frosch, sbucati da dietro il divano con le braccia stese sopra la testa, mantenevano a fatica un enorme striscione con scritto “BENTORNATO STING!” a caratteri cubitali; Lector, in particolare, sorrideva come se avesse appena ricevuto il più bel regalo della sua vita. Rogue, Minerva e Yukino mantenevano gli angoli superiori dello striscione. Il salotto era stato decorato con palloncini e ghirlande di vari colori, mentre il tavolo era stato apparecchiato con focacce, panini e bevande. Quando incrociò lo sguardo lucido e sorridente di Yukino, Sting capì che si era inventata la storia dell’impegno importante per far sì che la festicciola riuscisse con i fiocchi. E aveva funzionato alla perfezione!
    «Ragazzi!», esclamò entusiasta il giovane Eucliffe.
    Lector mollò lo striscione e gli corse incontro abbracciandogli le gambe. «Ci sei mancato così tanto, Sting-kun!».
    «Su su», disse Sting arruffandogli giocosamente i capelli castani. «Sono stato via solo due settimane».
    «Ma a noi è sembrata un’eternità!», rispose il bambino allargando le braccia per mimare una grandezza indefinita.
    «È vero», confermò Yukino ponendo fine ad ogni dubbio di Sting sulla questione mancanza. Sollevato, il ragazzo andò a stamparle un bacio sulla guancia sussurrandole all’orecchio un «Dopo ti saluto come si deve» che la fece arrossire e sorridere d’aspettativa, e in seguito salutò anche Rogue e Minerva.
    La festicciola passò in fretta: tutti insieme mangiarono e giocarono tra le risate cristalline dei bambini e i brevi battibecchi di Minerva e Rogue. Verso sera, Lector e Frosch andarono via con la promessa di poter trascorrere un altro pomeriggio insieme ai loro beniamini. Rogue, Minerva e Yukino si impegnarono a pulire e rimettere in ordine il salotto, e infine decisero di congedarsi anche loro. Sting li ringraziò tutti quanti per la sorpresa, ma chiese a Yukino di rimanere un altro po’ per recuperare il tempo perso. Fu così che, quando Weisslogia si ritirò nella sua stanza, i due si ritrovarono da soli.
    «Situazione familiare, non credi?», disse Sting con un sorriso malandrino. Alludeva ovviamente alla sera prima della partenza, quando erano rimasti soli in casa Aguria e si erano concessi del tempo per mettere le cose in chiaro e fare scorta di baci prima di separarsi.
    «Decisamente familiare», rispose la ragazza ricambiando il sorriso.
    In effetti, entrambi si sentivano un po’ come quella sera: timorosi, imbarazzati, indecisi, come se non si fossero mai davvero confessati i sentimenti reciproci e baciati con passione. Il problema era che la sera prima della partenza era stata Sorano ad abbattere il muro delle loro insicurezze e farli avvicinare definitivamente, ma questa volta Sorano non c’era e di certo non sarebbe spuntato Weisslogia a spronarli. Stavolta spettava unicamente a loro due.
    Fu Sting a fare il primo passo, nel senso letterale del termine: mosse un piede verso Yukino per poterla guardare negli occhi più da vicino e lei lo imitò. Un passo dopo l’altro, si trovarono praticamente l’uno di fronte all’altro, così vicini da potersi sfiorare al minimo movimento.
    Sting sollevò le mani e strinse quelle di Yukino, la quale osservò per qualche attimo le loro dita intrecciate. Quando alzò nuovamente lo sguardo, Sting notò una nuova consapevolezza negli occhi della ragazza, la stessa che aleggiava nei propri: erano di nuovo insieme, stavolta per davvero. Niente più messaggi, telefonate, sogni ad occhi aperti e ad occhi chiusi. Niente più fantasie, solo la pura e semplice realtà.
    Fu allora che le loro labbra si incontrarono a metà strada, attratte le une dalle altre, e fu come se si stessero baciando di nuovo per la prima volta. Un semplice bacio a stampo, timido ma deciso, occhi negli occhi, mani nelle mani.
    «Mi sei mancato così tanto», mormorò Yukino direttamente sulla bocca di Sting e furono esattamente le parole che lui aveva desiderato sentirsi dire.
    «Anche tu e non sai quanto…». A quel punto, Sting lasciò le mani di Yukino che aveva tenuto strette fino a quel momento e le circondò la schiena con entrambe le braccia per tirarla verso di sé. Yukino, a sua volta, gli strinse le spalle rendendo l’abbraccio più intenso e avvolgente.
    Si baciarono di nuovo, stavolta in maniera più lenta e profonda. Quando Sting cercò con la lingua quella di Yukino, la ragazza gli lasciò libero accesso e così le loro bocche furono libere di cercarsi, rincorrersi e avvinghiarsi come desideravano. Il silenzio del salotto era rotto solo dallo schiocco umido dei loro baci e dallo sfregare dei loro vestiti che, Sting ne era certo, sarebbero presto diventati ingombranti.
    Quando entrambi furono a corto di respiro, Sting spostò le labbra sulla guancia, sulla mandibola e infine sul collo di Yukino, la quale piegò leggermente la testa per permettergli di baciare quella porzione di pelle così sensibile. Un bacio dietro l’orecchio, un sospiro, un bacio nell’incavatura tra il collo e la spalla, un altro sospiro, un bacio sulla clavicola e l’ennesimo sospiro.
    Le dita di Sting, nel frattempo, finirono nel caschetto bianco della ragazza che accarezzò e arruffò a suo piacimento: lui, lui che era sempre stato circondato da ragazze dai lunghi capelli fluenti, mai avrebbe pensato di poter trovare così attraente, così femminile ed elegante, un taglio corto e sbarazzino come quello della ragazza che gli stava di fronte.
    «Yukino…», mormorò Sting sfregando la punta del naso contro il suo collo. Poteva avvertire ogni singola parte del corpo di Yukino a stretto contatto con il proprio – petto contro petto, bacino contro bacino – e forse era per questo che l’aria intorno a lui sembrava essersi fatta improvvisamente più calda, quasi soffocante. Con un gesto veloce, si sbottonò la giacca e se la tolse lanciandola sul divano.
    «Quella giacca ti dona così tanto che quasi quasi mi dispiace che te la sia tolta», lo punzecchiò Yukino accarezzandogli il petto da sopra la sottile maglia nera che modellava i suoi muscoli.
    «Ti farò cambiare idea, amore», le rispose Sting sorridendo di sbieco.
    La desiderava, desiderava Yukino più di ogni altra cosa. Spogliarla lì, in salotto, stringersela addosso tutta nuda e coricarsi con lei sul divano per fare l’amore stretti l’uno all’altro tutta la notte. Affondare in lei prima lento e poi deciso, prima dolce e poi passionale. Farle sentire quanto amore aveva celato fino a quel momento e quanto amore aveva ancora da offrirle. Il solo pensiero era capace di strappargli via tutta la stanchezza accumulata durante il viaggio e farlo eccitare come un ragazzino alle prime armi ed era certo che fosse così anche per lei. Ricordava perfettamente cosa si erano detti la sera prima di partire, dopo che avevano deciso insieme di aspettare un po’ prima di compiere quel passo importante.

    «Ti avviso, la prossima volta non sarò così clemente».
    «Non vedo l’ora, Sting-sama».


    E finalmente quel momento era giunto. Sting sapeva che sarebbe stato il primo per lei e non poteva desiderare di meglio. Yukino sarebbe stata solo sua, sua e di nessun altro, sotto tutti i punti di vista.
    Allora fece scendere le mani sui fianchi della ragazza e li strinse teneramente nei palmi aperti, per poi farsi strada sotto l’orlo del vestitino bianco e azzurro alla ricerca della morbida rotondità del fondoschiena. Quando le accarezzò i glutei da sopra le mutandine, Yukino sussultò ma non si oppose e il suo sorriso imbarazzato ma compiaciuto fu per Sting la conferma finale. La baciò vogliosamente sulle labbra e si spinse maggiormente contro di lei facendole sentire quanto si stesse gonfiando il cavallo dei suoi pantaloni a forza di premere e sfregare contro le sue forme morbide e generose. Per quanto le stesse bene, voleva toglierle quel vestito e saggiare parti del suo corpo rimaste fino ad allora inesplorate. Allora afferrò due lembi della stoffa e li sollevò verso l’alto scoprendo lentamente le cosce. Yukino non si oppose, per cui Sting continuò la risalita lungo il suo corpo scoprendo anche il bacino e l’addome piatto. Quando giunse al petto, Yukino gli strinse le braccia con le mani e allora Sting cercò il suo sguardo per capire cosa non andasse.
    Quello che trovò negli occhi di Yukino fu un’immensa quanto prevedibile paura.
    «Yukino», mormorò, lasciando la presa sul vestito per poter accarezzare dolcemente le guance accaldate della ragazza. «Cosa c’è?».
    «Io vorrei, davvero…», rispose Yukino imbarazzata e allo stesso tempo frustrata. «Tu sei bellissimo ed io vorrei così tanto fare l’amore con te. È solo che… siamo stati lontani per due settimane! Se contiamo la notte prima della partenza e oggi pomeriggio, è come se stessimo insieme solo da un giorno. Non siamo ancora usciti insieme da soli, né per un film al cinema né per una cenetta romantica». Sorrise Yukino rossa in volto. «Vorrei solo che ci prendessimo più tempo per noi due».
    Mentre tutta l’eccitazione accumulata fino a quel momento scemava via, Sting pensò che loro due non avrebbero mai avuto molto tempo a disposizione da trascorrere insieme. Ci sarebbe sempre stata di mezzo la sua carriera militare, prima l’addestramento e poi il lavoro vero e proprio, e ciò significava che avrebbero dovuto vivere la loro relazione in modo molto più lento e graduale rispetto a qualsiasi altra coppia. Yukino aveva ragione: a conti fatti, stavano insieme da poche ore e le avevano trascorse solo a pomiciare.
    «Spero che tu non ci sia rimasto male», mormorò la ragazza dispiaciuta.
    E come poteva, Sting, resistere a quegli occhioni così dolci? Forse si era un po’ illuso pensando che Yukino si sarebbe concessa a lui così facilmente, ma d’altro canto la confessione della ragazza non poteva che rassicurarlo sui suoi reali sentimenti per lui: non era solo una questione di attrazione fisica e di sessualità, Yukino voleva aspettare proprio perché lo amava, perché lo voleva come fidanzato e non solo come amante. Perché voleva fare l’amore con lui solo dopo averlo conosciuto a fondo.
    «Forse il mio amichetto qui sotto se l’è presa un po’», rispose Sting con fare giocoso e Yukino ridacchiò, poi Sting tornò serio: «Ma trovo che sia giusto così. E che ne varrà la pena, alla fine».
    Ed era vero. Anche se fare l’amore con Yukino era ormai il suo chiodo fisso, Sting avrebbe aspettato tutto il tempo necessario affinché lei acquisisse sicurezza e certezze. Le avrebbe concesso tutte le cene romantiche che voleva se in questo modo avrebbe potuto conquistare a pieno il suo cuore e la sua fiducia. Per la sua dolce Yukino, Sting avrebbe fatto quello e altro.
    «Lo sapevo che avresti capito!», esclamò la ragazza gettandogli le braccia al collo.
    Da sopra la spalla di Yukino, Sting intravide il fondoschiena ancora in bella mostra. Se si concentrava, poteva sentirne ancora la consistenza morbida e calda tra le mani. Deglutì a fondo, rimandando il tutto a data da destinarsi. «Questo, però, è meglio se lo abbassiamo», disse infine srotolando nuovamente il vestito lungo il corpo di Yukino che non poteva che trovarsi perfettamente d’accordo.
    «Ti va di restare a dormire con me?», le chiese Sting più tardi. «Te lo prometto, farò il bravo». Se non poteva averla fisicamente tutta per sé, almeno desiderava guardarla dormire, potersi svegliare il mattino dopo e trovarsela accanto, darle il buongiorno con un bacio.
    Yukino sgranò gli occhi. «E a mia sorella cosa dico? Dovrei tornare a casa, prendere tutte le mie cose e…».
    «A tua sorella potresti dire che dormi da un’amica. E poi ho ancora le cose di mia madre, sono sicuro che ti andrebbero».
    Yukino rimase completamente spiazzata da quella proposta e Sting si rimproverò mentalmente. Che razza di idee gli saltavano in testa? Quale ragazza nel fiore dei suoi anni avrebbe voluto indossare la vestaglia di una donna che non c’era più?
    «Cioè, se ti va, intendevo», si corresse frettolosamente. «Capirei se tu non volessi…».
    «Ne sarei onorata, Sting-sama», concluse Yukino visibilmente commossa.
    E fu musica per le orecchie di Sting che nella sua vita aveva amato solo due donne: quella che gli stava di fronte e quella che l’aveva dato alla luce vent’anni prima.








    Note dell'autrice:
    Per chi non ricorda bene gli sviluppi precisi della storia a causa del mio ritardo ad aggiornare, in questo capitolo ho citato due flashback dei capitoli precedenti: 1) la conversazione tra Sting e Natsu che ha riportato alla mente di quest'ultimo il ricordo di una sbronza grazie alla quale ha visto Lucy con occhi diversi (la potete trovare al cap. 8) e la sera in cui Yukino e Sting si sono sbaciucchiati a casa di lei per sugellare il loro fidanzamento (cap. 6).
    Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate.
    Cosa ne sarà di Juvia senza Gray? E cosa succederà tra Natsu e Lucy dopo questo litigio? Yukino riuscirà mai a sbloccarsi? E cosa ne è stato dei militari più grandi in missione speciale?
    Lo scopriremo presto (spero).

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 19/9/2019, 15:38
     
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    C’è chi si ama ma ancora non lo sa.
    Chi si ama in silenzio senza poter stare insieme.
    Chi si ama solo di notte perché di giorno non ne ha il coraggio.
    Chi si ama così tanto da non sopportare le distanze.
    Chi si ama con la costante paura di perdersi.
    Chi si ama senza futuro.

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    Perché è una guerra anche per chi rimane a casa ad aspettare.





    #11. Primo ritorno a casa (parte 2)




    Quella domenica, Lucy si svegliò con il pensiero di non aver mai litigato con Natsu in maniera così furiosa come era accaduto il giorno prima. Nel corso degli anni, di litigate tra loro due ce n’erano state parecchie – un po’ a causa dell’impulsività di Natsu che lo portava a compiere azioni sconsiderate, un po’ a causa della sana gelosia reciproca che sembrava emergere ogni qualvolta uno dei due mostrava un certo interesse per una persona del sesso opposto – ma di certo non si erano mai urlati così forte e per un motivo così stupido e insolito. E di certo non era così che Lucy aveva immaginato il primo ritorno a casa del suo migliore amico.
    Tutto era scaturito dal momento in cui lei, dopo aver scelto il vestito che avrebbe indossato per andare a prendere un gelato con Natsu, aveva cominciato a spogliarsi lì davanti ai suoi occhi, dandogli le spalle. Non aveva riflettuto per nulla sulle conseguenze che quel gesto avrebbe potuto comportare, semplicemente perché lei e Natsu erano amici da una vita e l’uno aveva visto l’altro crescere e sviluppare pian piano forme sempre più mature. In varie occasioni si erano trovati l’uno di fronte all’altro in biancheria intima e la cosa non aveva mai turbato nessuno dei due. Succedeva ogni sacrosanta estate, al mare o in piscina, e in fondo cosa c’era di diverso tra un costume da bagno e un reggiseno abbinato ad un paio di slip? Lucy non utilizzava completi intimi provocanti, o almeno non nella vita di tutti i giorni, per cui non aveva minimamente pensato che Natsu potesse trovare imbarazzante una scena già vista e rivista più volte. Per non parlare di tutte le volte che l’aveva vista mezza nuda facendo irruzione nello spogliatoio femminile della scuola per movimentare le sue – altrimenti troppo monotone – giornate scolastiche, ricevendo in cambio scarpe dritte sulla testa da parte delle compagne e note disciplinari da parte dell’insegnante di educazione fisica. Senza contare che più volte, da bambina, Lucy gli aveva permesso di condividere la sua vasca da bagno, e che anche a distanza di anni Natsu continuava a intrufolarsi nel suo letto per dormirle accanto, ignorando il fatto che lei indossasse solo un top e un paio di pantaloncini striminziti per combattere il caldo afoso dell’estate. Si erano addirittura stretti e abbracciati in quel modo… e allora perché Natsu aveva fatto tante storie semplicemente vedendola spogliarsi?

    «Credi che sia stupido, per caso? O cieco, forse?».
    «Perché per te sono come un fratello».
    «IO NON SONO UN BAMBINO!».


    Lucy giunse alla conclusione che il motivo di tanta rabbia da parte di Natsu fosse uno solo: l’insensata paura di essere considerato ancora un bambino ingenuo e quindi di essere trattato come tale.
    Tuttavia, non era affatto per questo che Lucy si era spogliata davanti a lui senza farsi problemi. Sapeva benissimo che Natsu non era indifferente al genere femminile così come qualsiasi altro ragazzo della sua età, sia perché aveva avuto una storia in passato, sia perché spesso e volentieri faceva battutine a sfondo sessuale insieme a Gray e ai loro amici. L’unico motivo per cui Lucy non aveva chiesto a Natsu di voltarsi o di uscire dalla stanza mentre lei si spogliava era il fatto che tra loro esisteva già una grande intimità. Sì, era quella la parola giusta.
    Lucy capì di non poter aspettare oltre. Il litigio del giorno prima l’aveva lasciata con l’amaro in bocca e non vedeva l’ora di parlare con Natsu per chiarire la situazione e fare pace. Provò a chiamarlo sul cellulare più e più volte ma non ottenne alcuna risposta. Così, dopo essersi lavata e aver fatto colazione, si recò a casa Dragneel: fu Zeref ad aprirle la porta e a dirle che Natsu era uscito piuttosto presto, ma che non sapeva dove fosse andato.
    Lucy, invece, era piuttosto certa di saperlo. Dov’era che Natsu passava la maggior parte del suo tempo libero e andava a sfogarsi se si svegliava di cattivo umore?


    Mezz’ora dopo, Lucy si trovava all’entrata del poligono. Non era la prima volta che ci andava, ma era la prima volta che si trovava lì da sola, poiché solitamente il motivo che la spingeva in quel luogo era quello di accompagnarci Natsu, il quale ci teneva particolarmente al che lei lo guardasse mentre sparava. E Lucy lo accontentava ogni volta, nonostante non amasse particolarmente i giochi e gli sport incentrati sull’uso delle armi e della violenza. Ma stavolta era diverso, stavolta Natsu non l’aveva invitata e Lucy non poteva fare a meno di sentirsi un tantino “esclusa” dal suo mondo.
    Con il cuore pesante e la speranza di farsi perdonare, si avventurò nel poligono e cercò con gli occhi la folta capigliatura rosa di Natsu tra le varie postazioni di tiro. Finalmente lo trovò nell’atto di sparare contro il bersaglio, gli occhi puntati davanti a sé, le mani saldamente strette intorno alla pistola e un paio di cuffie rosse sulle orecchie per attutire il rumore assordante degli spari.
    Vedendolo così concentrato e affaccendato, in un primo momento Lucy si pentì di essersi recata lì. Invece di disturbarlo, avrebbe potuto semplicemente aspettare qualche ora e andarlo a trovare a casa quello stesso pomeriggio, ma la necessità di parlargli era a dir poco impellente. Lucy desiderava solo risolvere la questione prima che lui ripartisse, poiché non avrebbe sopportato l’idea di vederlo andare via senza nemmeno un suo abbraccio o un suo sorriso. Non avrebbe sopportato una lontananza mentale, affettiva, oltre che fisica. Natsu era semplicemente troppo, troppo importante per lei.
    Non potendo raggiungerlo a causa delle misure di sicurezza, decise allora di fermare il supervisore del poligono, un uomo alto e pelato.
    «Mi scusi, non è che potrebbe andare da quel ragazzo lì in fondo e dirgli che Lucy è qui, per favore?».
    L’uomo la guardò di sottecchi. «Sì, e magari le porto pure da bere», disse ironico. «Signorina, non siamo in un pub. Se è venuta per sparare, è la benvenuta. Ma se vuole solo flirtare, allora farebbe meglio ad andarsene».
    «Cosa?! Ma come si permette?!», sbottò Lucy rossa di rabbia e di imbarazzo.
    Il supervisore la ignorò e sparì tra i corridoi del poligono lasciandola lì da sola. Lucy sbuffò: non poteva fingersi intenzionata a sparare perché non era iscritta al poligono e gli addetti alla sicurezza non l’avrebbero fatta passare nemmeno se li avesse pregati in ginocchio, quindi l’unica cosa che le rimaneva da fare era cercare di attirare personalmente l’attenzione di Natsu.
    Chiamarlo con tutto il fiato che aveva in gola non sarebbe servito a niente, poiché da quella distanza e con le orecchie tappate Natsu non poteva sentirla. Cercò allora di fargli segno con la mano, ma anche questo fu del tutto inutile. Lucy sospirò frustrata: per quanto imbarazzante potesse essere, l’unico modo di farsi notare, probabilmente, era sbracciarsi.
    E fu quello che fece. Ancora più rossa di prima, cominciò a muovere le braccia su e giù per attirare l’attenzione dell’amico. Alcune persone presero a fissarla in maniera strana, altre la indicavano ridendo. Praticamente tutto il poligono si era accorto di lei, tranne Natsu che continuava indisturbato a centrare il suo bersaglio.
    «Signorina, ancora lei!». Il supervisore le stava venendo incontro con tutta l’aria di sbatterla fuori a calci e fu in quel momento che Lucy decise di tentare il tutto per tutto fregandosene dell’opinione della gente. Si sbracciò come una forsennata indicando Natsu con un dito e finalmente ottenne l’effetto sperato: un ragazzo smise di sparare, si tolse le cuffie e andò parlare con Natsu, il quale finalmente sollevò gli occhi verso di lei.
    Ebbero solo il tempo di scambiarsi un breve sguardo prima che le braccia muscolose dell’antipatico supervisore la sollevassero da terra dandole l’impressione di essere leggera come una piuma.


    «MI LASCI, LE HO DETTO!».
    Lucy sbraitava e si dimenava in braccio al supervisore, il quale, ignorando completamente le sue proteste, la stava trasportando verso l’uscita del poligono. Lucy sperava che Natsu giungesse eroicamente a riprenderla, ma quando tornò con i piedi per terra e il supervisore le urlò di non farsi più rivedere Lucy perse ogni speranza. Evidentemente aveva fatto una figura così pessima che Natsu si vergognava di farsi vedere insieme a lei o forse era ancora talmente arrabbiato da non volerle parlare. Affranta e piena di vergogna per essersi comportata come una stupida sconsiderata – proprio lei che era sempre stata quella più pacata e ragionevole tra i due – Lucy si allontanò dal poligono a passo di marcia, ripromettendosi di non metterci mai più piede nella sua vita. Era quasi arrivata all’auto quando si sentì tirare per un braccio e, voltandosi, incrociò un paio di occhi verdi tremendamente familiari – e belli.
    «Natsu!», esclamò sorpresa. Natsu era lì, era lì per lei! E non sembrava più arrabbiato, solo turbato.
    «Tutto bene?», le chiese il ragazzo squadrandola attentamente in volto, le dita strette sul suo braccio. Una stretta lieve, tenera, simile ad una carezza, niente a che vedere con quella che Natsu aveva usato il giorno prima per cingerle il polso nel pieno del litigio. Non le aveva fatto male, questo no – Natsu non ne sarebbe mai stato capace – ma le aveva fatto percepire perfettamente tutta la sua rabbia.
    «Sì, tutto bene», rispose Lucy, sollevata che Natsu si preoccupasse ancora per lei. Nel suo cuore si riaccese un barlume di speranza: forse non ce l’aveva davvero con lei, forse la loro amicizia – pur così forte e solida – aveva solo avuto un breve momento di debolezza. «Ero venuta a cercarti per parlare di ieri, ma poi ho avuto qualche problemino con il supervisore», gli spiegò con calma. «Forse… forse è meglio se ci vediamo più tardi».
    «Lucy». La stretta di Natsu sul suo braccio divenne più intensa. Lucy lo guardò negli occhi e li trovò inaspettatamente spenti, quasi tristi. «Mi dispiace per ieri», proseguì il ragazzo. «Ho fatto una scenata per nulla, scusami, davvero».
    Lucy questo non se l’aspettava. Era partita con l’intenzione di farsi perdonare da Natsu ed ora sembrava che stesse accadendo esattamente l’opposto. Gli sorrise cercando di rassicurarlo.
    «No, scusami tu. Quello che cercavo di dirti ieri è che non ci trovo nulla di imbarazzante nel…», preferì evitare la parola “spogliarsi”, «…nel fare quel che ho fatto, non perché ti reputo ancora un bambino, ma semplicemente perché sei il mio migliore amico da una vita e ti voglio un bene dell’anima e ho piena fiducia in te e penso che ci sia una certa intimità tra noi due, no?». Erano parole sincere che le uscivano dal profondo del cuore e Lucy sperava davvero che Natsu capisse.
    Eppure, Natsu non sembrava ancora soddisfatto di quella spiegazione. Alla parola “intimità”, aveva abbandonato il suo braccio e sollevato un sopracciglio. Possibile che non fosse d’accordo? Possibile che la pensasse diversamente?
    «Intimità», lo sentì ripetere a voce bassa. «Non credo che tra noi ci sia intimità, Lucy».
    Quelle parole la colpirono come una pugnalata al cuore. Lucy poggiò la schiena alla portella dell’auto, incapace di sostenere lo sguardo nuovamente accusatorio di Natsu. Sembrava proprio l’inizio di un nuovo litigio e lei non si sentiva affatto pronta a sopportarlo.
    «In una coppia c’è intimità», proseguì Natsu sottolineando la parola “coppia”. «Tra te e Loki c’era intimità, tra me e Lisanna c’era intimità. Non tra me e te, Lucy. Noi siamo amici. E gli amici non si spogliano l’uno di fronte all’altro, a meno che non si trovino al mare o in piscina».
    A quel punto Lucy capì che stavano parlando di due tipi di intimità diverse: Natsu di un’intimità fisica, sessuale, e lei di un’intimità mentale, affettiva. Stava per farglielo presente, quando afferrò un minuscolo dettaglio di cui fino ad allora era rimasta all’oscuro. Il suo cuore, nel rendersene conto, perse un battito.
    «Natsu», lo guardò intensamente negli occhi. «Io e Loki non l’abbiamo mai fatto, lo sai benissimo, ma tu e Lisanna, allora… voi…».
    «Pensavo l’avessi capito», mormorò Natsu imbarazzato evitando il suo sguardo.
    Lucy si impose di mantenere la calma. No che non gliel’aveva detto, dannazione. E se Natsu non le confidava cose del genere, allora su cosa diavolo si fondava la loro amicizia? Su cose futili come uscire insieme o scambiarsi messaggini sul cellulare quando erano lontani?
    «Va bene, hai ragione», mentì Lucy delusa e amareggiata per porre fine a quella conversazione ormai diventata insopportabile. «Ciò che è accaduto ieri non si ripeterà più, promesso».
    «Amici come prima?», le chiese allora Natsu.
    «Amici come prima», rispose Lucy sforzandosi di sorridere per mascherare i suoi reali sentimenti a riguardo. Non era poi così certa che da quel momento le cose tra loro due sarebbero tornate perfettamente uguali.
    Natsu le afferrò le spalle e la tirò verso di sé per abbracciarla. «Anch’io ti voglio un bene dell’anima, Lucy, lo sai», le disse all’orecchio, ripetendo le sue stesse parole di qualche minuto prima. Era tornato il solito vecchio Natsu, allegro e affettuoso come sempre.
    Lucy si lasciò stringere ma non ricambiò, preferendo restare con le braccia molli lungo i fianchi. Il problema era che non riusciva a smettere di immaginare Natsu e Lisanna nudi e avvinghiati l’uno all’altro, né a contrastare la sensazione di dispiacere che quell’immagine era in grado di provocare in lei.
    Fu in quel momento che Lucy capì: tra lei e Natsu, l’unica bambina era sempre stata lei.


    ***




    La prima cosa che Yukino vide riaprendo gli occhi quella domenica mattina fu il viso di Sting a pochi centimetri dal proprio che la osservava con una certa curiosità. Ricordando di aver dormito nella sua stanza, nel suo letto e per di più con addosso un’elegante camicia da notte appartenuta a sua madre, Yukino sorrise – un sorriso che Sting prontamente baciò, sussurrandole «Buongiorno, dormigliona» direttamente sulle labbra.
    «Buongiorno», rispose Yukino assonnata per poi affondare le guance accaldate nel cuscino.
    La ragazza si rese conto di essere in casa Eucliffe da una quindicina di ore, di cui alcune passate a festeggiare con i loro amici, un’oretta trascorsa a baciarsi in salotto – anche se “baciarsi” era piuttosto riduttivo, dato che erano arrivati quasi a spogliarsi a vicenda – e tutte le altre consumate nell’ampio letto di Sting, accucciati l’uno all’altro come una vera coppia. Di comune accordo, avevano deciso di non bruciare le tappe della loro relazione e di trascorrere del tempo insieme prima di concedersi fisicamente l’uno all’altro. In realtà, era stata lei a decidere per tutti e due, non perché non desiderasse fare l’amore con Sting o perché non fosse sicura di se stessa, tutt’altro. Yukino aveva fatto una fatica enorme nel bloccare i baci e le carezze bollenti di Sting proprio sul più bello: non aveva mai provato tanta attrazione fisica, tanto desiderio per un’altra persona, ma mentre si baciavano e toccavano una vocina persistente nella sua testa le ricordava che, pur essendo innamorata del ragazzo che le stava procurando emozioni così belle, in realtà non sapeva molto di lui. Certo, conosceva varie sfaccettature del suo carattere, il significato dei suoi comportamenti, i suoi interessi e i suoi sogni, ma non conosceva le sue debolezze e le sue paure, per esempio. Questo perché, fino a poco tempo prima, erano sempre stati solo buoni amici che si incontravano durante le uscite in comune con Minerva e Rogue. Yukino si era resa conto di non sapere nulla di sua madre, ad esempio, se non che era morta quando Sting era piccolo e che lui la ricordava ancora con profondo affetto. Per questo, si era sentita onorata quando lui le aveva concesso di prendere in prestito i vestiti di sua madre per la notte.
    La signora Eucliffe, come mostrava la foto in salotto che la ritraeva insieme al marito e al figlioletto, aveva i capelli dello stesso colore della zazzera arruffata che contornava il volto di Sting in quel preciso momento. E doveva essere una donna molto distinta ed elegante (non per niente, si trattava della moglie di Weisslogia!) a giudicare dalla stoffa fine e vellutata di cui era fatta la camicia con cui Yukino aveva dormito.

    «Quale preferisci?», le chiese Sting tirando fuori dall’armadio una camicia rosa con le cuciture nere e una camicia blu notte a tinta unita. «Questa o questa?». Indicò con lo sguardo prima l’una e poi l’altra.
    Gli occhi di Yukino si posarono sulla camicia blu notte. Le ricordava il cielo punteggiato di stelle che tante volte, in quelle due settimane, aveva osservato dal balcone della sua stanza pensando a quanto le mancasse Sting e consolandosi all’idea che anche lui lo stesse guardando pensando a lei.
    «Questa», rispose Yukino certa della propria scelta, prendendo tra le mani quel manto di seta blu.
    Sting si voltò per permetterle di spogliarsi e indossare la camicia. Non era certo un comportamento da fidanzati, ma era necessario affinché lui “non le saltasse sopra” – così le disse Sting e lì Yukino si rese conto di quanto lui la amasse e la rispettasse.
    «Sei bellissima», ammise poi, quando la vide con addosso solo la camicia che le arrivava fino a metà coscia lasciando le gambe scoperte. E Yukino, sotto lo sguardo ammaliato e visibilmente eccitato di Sting, si sentì davvero bellissima. E amata, soprattutto amata.
    Quando anche Sting ebbe indossato il pigiama, si coricarono sul letto l’uno accanto all’altro, le braccia ritte lungo i fianchi e gli sguardi rivolti al soffitto. Entrambi erano certi che, se si fossero guardati o toccati più del dovuto, sarebbero tornati a baciarsi appassionatamente sotto le coperte e probabilmente avrebbero finito ciò che avevano iniziato in salotto.
    Parlarono per un’ora, raccontandosi l’un l’altro qualche piccolo episodio di quelle due settimane. Sting le parlò del suo sfiancante ma emozionante addestramento e dei suoi nuovi scalmanati amici, Yukino dei suoi studi e di come Lector e Frosch avevano tanto insistito per organizzargli quella festicciola di bentornato. Tra un bacio e l’altro, i due passarono poi a raccontarsi spaccati della loro vita risalenti a prima di conoscersi, verità e segreti mai venuti a galla fino ad allora. Quando Yukino nominò con rabbia intrisa di tristezza l’infido zio Jienma, colui che si era occupato di lei e di Sorano per tutta la loro adolescenza sfruttando l’eredità dei loro genitori defunti, Sting le passò un braccio dietro le spalle e la fece accoccolare al proprio petto sussurrandole che ora non doveva temere più nulla perché c’era lui a proteggerla.
    Si addormentarono così, stretti l’uno all’altro, il mento di Sting sopra la testa di Yukino e la mano di lei sul petto di lui, all’altezza del cuore. Certamente, nessuno dei due avrebbe dimenticato quella notte così intima. Un’intimità diversa dall’amore carnale, ma pur sempre essenziale per costruire gradualmente il loro rapporto.


    «Yukino».
    Fu Sting stesso a farla rinsavire dal giro di ricordi in cui si era persa non appena sveglia. Yukino sorrise, sorriso che si affievolì nel momento in cui si accorse che Sting aveva abbandonato il letto e ora se ne stava in piedi, con le mani poggiate sul bordo del comodino, leggermente piegato a fissare qualcosa. Yukino allungò il collo: si trattava del suo cellulare. Non quello di Sting, ma quello di Yukino stessa, la quale lo aveva lasciato lì la sera precedente dopo aver avvisato sua sorella che “dormiva da un’amica” e lei le aveva risposto “Sì, certo, amica… :D
    «Che c’è?», chiese Yukino preoccupata. Che fosse di nuovo sua sorella?
    «Giuro che non volevo sbirciare», disse Sting porgendole il cellulare. «Ma l’ho sentito vibrare e… insomma, cos’è questa storia del lavoro?».
    Yukino sussultò di fronte allo sguardo accigliato di Sting. Aveva evitato volontariamente l’argomento per non farlo preoccupare inutilmente ma non era servito a nulla, poiché il messaggio che le aveva mandato Minerva parlava da sé.
    “Ti ho trovato un lavoro. Chiamami appena puoi, così ti spiego”.
    Da una parte Yukino era contenta della notizia, ma dall’altra aveva paura di affrontare l’argomento con Sting.
    «Sting-sama, io…».
    Il ragazzo si sedette lateralmente sul materasso, guardandola negli occhi in modo tremendamente serio. «Vuoi lasciare l’università, Yukino?».
    «No, certo che no!», sbottò la ragazza, mettendosi a sedere anche lei. «Mia sorella ha perso il lavoro e ho pensato di trovarmi un lavoretto part-time per tirare avanti finché lei non trova qualcosa di decente».
    Sting sgranò gli occhi, visibilmente sconcertato. «Yukino, ma i tuoi studi! Come farai a…?».
    Lo sguardo di Yukino si adombrò ulteriormente. Non era sicura di farcela, in effetti, ma doveva. Per lei e per sua sorella, per ciò che rimaneva della loro famiglia.
    «Ce la farò e basta, vedrai».
    «Potrei aiutarvi io!», tentò Sting in un impeto d’entusiasmo. «Ho un po’ di soldi da parte e…»
    «No!». Yukino scattò come una molla. «Non se ne parla. Era proprio per questo che non volevo parlartene. Non potrei mai accettare una cosa del genere, né da te né da nessun altro! Io e Sorano ce la caveremo da sole, come abbiamo sempre fatto».
    «…Va bene», acconsentì Sting docilmente dopo qualche attimo di esitazione. «Ma se avessi bisogno del mio aiuto, non esitare a dirmelo. Stiamo insieme, ora, ed è questo che si fa in una coppia: ci si aiuta a vicenda».
    Yukino annuì e Sting le stampò un nuovo bacio sulle labbra colmo d’amore e comprensione che ebbe il potere di farle tornare il sorriso.
    Non sarebbe più stata sola. Mai più.


    ***




    Juvia sfogliava delicatamente le pagine del libro poggiato sulle sue gambe. Tra un paragrafo e l’altro spiccava l’immagine della deliziosa maghetta dai capelli blu che portava il suo nome, frutto della fervida immaginazione di suo padre, scrittore di discreto successo. In realtà, Juvia conosceva quasi a memoria l’intera collana di libri, sia perché suo padre glieli aveva letti da piccola, sia perché era stata lei stessa ad approfondirne la lettura una volta diventata grande.
    Juvia adorava il fatto di essere la protagonista (seppur in versione fantasy) di quei romanzi per bambini e, anche a distanza di anni, ogni tanto tornava a soffermarsi sui suoi passi preferiti.
    Presa dai ricordi di infanzia, Juvia si rese conto che erano già le 11 e ciò significava che doveva assolutamente sbrigarsi. Aveva promesso a Silver-sama che gli avrebbe portato il pranzo, o meglio, glielo aveva imposto dopo che Gray aveva avvisato tutti che per quel weekend non sarebbe tornato a casa.
    A dir la verità, Juvia non era rimasta molto sorpresa dalla decisione di Gray. In quelle due settimane si erano sentiti piuttosto spesso, sia per messaggi che tramite chiamata: Juvia gli raccontava cosa succedeva a casa, Gray si limitava ad ascoltarla e a spiccicare qualche parola a proposito del suo addestramento. Juvia lo conosceva abbastanza bene da capire che probabilmente Gray non era molto soddisfatto di come stessero andando le cose lì al centro: aveva provato a estorcergli qualche informazione in più, così da potergli infondere un po’ di positività, ma Gray non sembrava intenzionato a confidarsi. Per questo, Juvia non si era meravigliata quando le aveva detto che quel weekend non si sarebbero visti. Certo, le dispiaceva parecchio – Gray le mancava da morire! – ma si era sforzata di comprendere la sua decisione con la speranza di poterlo rivedere al più presto.
    Comunque, ad attenderlo non c’era solo lei: Juvia aveva immaginato quanto sarebbe stato triste per Silver-sama trascorrere la domenica tutto solo e quindi gli aveva telefonato promettendogli di cucinare il pranzo per lui.
    Svelta, Juvia richiuse il libro e lo mise a posto sulla scrivania, quindi raggiunse la cucina per mettersi ai fornelli.


    Un paio d’ore dopo, Juvia suonava il campanello di casa Fullbuster con il pranzo fumante tra le mani. Quando la porta si aprì, però, non si trovò di fronte il padre di Gray ma il suo amico d’infanzia.
    «Ju... Juvia-chan!», esclamò Lyon sgranando gli occhi per la sorpresa. «Che ci fai qui?».
    Juvia sorrise cordiale. Sapeva che Lyon aveva il compito di vegliare su Silver in assenza di Gray.
    «Buongiorno, Lyon-sama. Juvia è venuta a portare il pranzo a Silver-sama».
    «Davvero? Che coincidenza! Anche io sono qui per lo stesso motivo».
    Proprio in quel momento, sbucò Silver accanto a Lyon dandosi una spinta in avanti con la sedia a rotelle. «Non volevo offendere nessuno dei due con questa storia del pranzo. E poi avevo una gran fame…».
    Juvia e Lyon sorrisero, poi Juvia porse il pacchetto a Silver e annunciò che doveva andarsene perché la sua famiglia la aspettava a casa intorno alla tavola apparecchiata.
    «Grazie, Juvia», disse Silver alla ragazza con un sorriso contornato di rughe, poi sollevò lo sguardo su Lyon. «I suoi piatti sono ottimi, sai, Lyon? Proprio una donna da sposare, la nostra Juvia. Almeno tu, non fartela sfuggire».
    Juvia sussultò imbarazzata e Lyon arrossì come un peperone sotto lo sguardo divertito di Silver che, ridendo, se ne tornò in casa lasciando i due da soli all’entrata.
    L’allusione a Gray e al suo apparente disinteresse per Juvia dal punto di vista sentimentale era piuttosto chiara, ma Juvia non si lasciò scoraggiare confidando nella speranza che un giorno Gray si sarebbe accorto di lei.
    «Juvia-chan…», borbottò Lyon come per giustificarsi.
    «Ci vediamo, Lyon-sama!», esclamò Juvia correndo via, prima che la situazione potesse degenerare.
    L’ultima cosa che voleva era dare false speranze a Lyon, dichiaratamente cotto di lei dall’esatto momento in cui l’aveva incontrata – un po’ come lei con Gray. Per Juvia, Lyon era un ragazzo decisamente carino e dai modi molto gentili, ma nel suo cuore c’era spazio solo per una persona.
    La stessa persona che l’aveva rifiutata? . La stessa che dopo due settimane non si era ancora fatta viva? .
    Ma Juvia non avrebbe mai e poi mai provato a fare “chiodo schiaccia chiodo” per dimenticare Gray. Prima di tutto non voleva e poi era certa che non avrebbe funzionato. O almeno così credeva.









    Note dell'autrice:
    Non ho molto da dire se non che tra Lucy e Natsu sembra ormai essersi spezzato qualcosa che porterà a notevoli cambiamenti, mentre Lyon darà filo da torcere alla Gruvia ;) Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemelo sapere con un commentino <3 Nel prossimo capitolo (SPOILER -> #12. Addestramento congiunto) ci trasferiremo in Libano a vedere come se la cavano i nostri tre militari senza le loro donzelle (o donzello, nel caso di Erza XD). A presto!

    Soly Dea

    Edited by SolyDea - 20/12/2019, 16:54
     
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16 replies since 25/8/2018, 09:31   692 views
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